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Caratteri generali Julio Monteiro- Rosanna Morace, Raffaele Taddeo

Rosanna Morace e Raffaele Taddeo

 

La letteratura italiana è stata segnata dalla modalità narrativa normata da Boccaccio, imitata nei secoli successivi, riproposta a noi attraverso i vari Verga, Pirandello, Calvino, Moravia, ecc.
La struttura narrativa che va dallo scrittore del ’300 fino ai nostri giorni, se ha registrato mutamenti sul piano stilistico e linguistico (al periodare ampio e ricco di subordinate se ne è sostituito un altro fatto di piccole frasi, a volte monofrasi), non ha invece registrato significativi mutamenti su altri piani.
La centralità dell’azione è l’aspetto costitutivo di tale struttura. La narrazione si organizza intorno ad una serie di azioni, quelle che Roland Barthes chiama funzioni cardinali o nuclei, secondo un rapporto di causa effetto che ne segnano ritmo e significato. Nella tradizione italiana insomma il racconto è prevalente rispetto alla descrizione.
Il significato si determina comunque proprio a partire dal racconto e dal rapporto fra le azioni del racconto. È qualcosa di simile a quanto avviene per la struttura filmica, ove la successione delle immagini, la loro relazione fonda il senso del fatto filmico.
Il modo di narrare di Julio Monteiro Martins è diverso. È diverso, probabilmente, anche perché il retroterra culturale è altro, e alla letteratura d’adozione italiana si unisce quella latinoamericana e americana (brasiliana, ma anche ispanica e statunitense, come spiega egli stesso in un bellissimo intervento dal titolo La lingua della vita e la lingua della memoria, consultabile anche in questo numero): tutte tradizioni culturali che ben altra dimestichezza hanno con la short story. E, infatti, la scrittura di Julio Monteiro Martins ha una netta propensione verso la forma breve del narrare: che si tratti di racconti o di poesie (sempre molto prosastiche), sono caratterizzati da quella perfetta forma chiusa che Cortázar definiva «sfericità», e che per la sua autarchia dà l’impressione di qualcosa «nato da sé, in sé e addirittura per sé, in ogni caso con la mediazione ma mai con la presenza manifesta del demiurgo». Il racconto breve, continua il narratore argentino, è una «macchina infallibile destinata a compiere la propria missione narrativa con la massima economia di mezzi», potenziando «vertiginosamente un minimo di elementi, provando che certe situazioni o terreni narrativi privilegiati possono tradursi in un racconto dalle proiezioni vaste quanto quelle della più elaborata delle nouvelles» (J. Cortázar, Del racconto breve, cit., p. 135 e p. 134). Macchine infallibili sono anche i racconti di Julio Monteiro Martins, costruiti in modo che non siano le azioni e la loro successione a costruire un significato, ma il significato a generare azioni limitate, appena accennate quasi costruite sul “discorso”.
In genere nel fatto narrativo si va dall’azione al significato. Qui il percorso è rovesciato, dal significato all’azione. È pur vero che il senso, secondo Genette, è precostituito rispetto alla grammatica e alla sintassi del racconto, ma per scoprirlo, per manifestalo il narratore prima e poi il critico passa dalla sintassi, dalla grammatica al senso. La sensazione che si ha è che nello scrittore italo-brasiliano non solo preesista il senso ma che sia immanente all’interno del narrato e che il narrato ne scaturisca. Forse è anche per tale ragione che le varie raccolte di racconti sono tutte incentrate su un unico tema, che fa da filo rosso e che quasi crea un romanzo sottostante. La morte, il vuoto e l’amore sono i tre grandi protagonisti nascosti di Racconti italiani, La passione del vuoto e L’amore scritto, indagati nella miriade di sfaccettature, modi, silenzi e sensazioni da cui possono scaturire e in cui possono manifestarsi, e sempre da prospettive diverse.
Armando Gnisci nella postfazione a Racconti italiani parla di “queste sue storie, brevi e intoccabili, nitide come fotografie canadesi”. L’idea della fotografia da associare ai racconti di Julio Monteiro mi sembra puntuale, perché la struttura narrativa presente all’interno della fotografia è statica, fissata in un momento istantaneo. È come se il fotografo, inquadrata l’immagine con l’obiettivo ne abbia colto prima il senso e poi abbia operato lo scatto. Il fotografo ha proprio il pregio di saper cogliere il senso di una inquadratura e di fissarla facendovela vedere in stampa. Ai comuni mortali la stessa inquadratura non direbbe niente e non la fisseremmo, fotografando su altre inquadrature tutt’altro che poetiche.
Per questi motivi sostengo che il racconto dell’autore brasiliano va dal senso all’azione. Egli ha colto il senso di un qualcosa, ha disposto gli elementi, oggetti, spazio, tempo, personaggi così che possano essere fissati in una immagine fotografica o in varie immagini fotografiche che poi ne formano una unità.
Dopo la lettura sembra di essere stati in una galleria di fotografie ove a volte sono le singole immagini a colpire, altre volte sono gruppi di fotografie che ti fanno soffermare. I racconti più lunghi di Julio Monteiro sono dei polittici fotografici.
Proprio per queste caratteristiche la narrazione dello scrittore brasiliano si colloca in un punto intermedio fra narrativa e poesia. Ne è una dimostrazione la ricchezza di metafore, di simboli, per cui la sua prosa risulta polisemica proprio come la poesia.
I testi di Julio Monteiro sono ricchi di dialoghi, a conferma dell’analisi precedente. Dialoghi che a volte fanno sì che il testo diventi qualcosa di diverso dal racconto e acquisti quasi la forma di piccolo saggio, ove il racconto è estremamente diluito (e della propensione saggistica di certe pagine e opere dello scrittore diremo a breve)
I dialoghi sono misurati e condotti con linearità. Essi riproducono sovente il modo di parlare, di esprimersi di una classe sociale media, mediamente colta e proprio per questo privatasi ormai di valori consolidati e secolarizzati da ogni punto di vista, religioso, ideologico, etico.
Ciò non significa che i personaggi manchino di umanità, ma in questo mondo ove i sentimenti sono assorbiti dalla tecnologia o inseriti e manifestati all’interno di essa, le passioni non possono che essere attutite, accennate, rese tecniche.
I personaggi manifestano la loro sofferenza eliminando, ad esempio, l’e-mail; in altri tempi, in altre classi sociali ancora prese dal “fondamentalismo” religioso, ideologico, la sofferenza sarebbe stata comunicata con azioni forti, dirompenti, con la totalità della voce, perché la comunità potesse sentire.
Un’ulteriore linea di ricerca che Julio Monteiro Martins ha, da sempre, perseguito, riguarda la dimensione metaletteraria della scrittura, la sua autoriflessività e insieme la sua capacità di interrogare il, e di incidere sul presente, aprendo nuovi spazi di interpretazione del reale. L’idea, centrale nella sua poetica, che la letteratura non sia “un fare”, ma “un essere” si sostanzia, perciò, in una propensione che potremmo definire ‘saggistica’, seppure non del tutto propriamente. Nei racconti (e talvolta anche nella poesia) essa prende la forma di una sospensione narrativa a carattere meditativo, che crea straniamento attraverso un contraccolpo ritmico e contenutistico. Nei romanzi O espaco imaginario e madrelingua, e (in maniera diversa) nell’ultimo volume, La macchina sognante, essa diviene, invece, vera e propria metanarrativa, scrittura che riflette su sé, sulle forme del narrare, sulle potenzialità dei diversi generi letterari e della loro auspicabile commistione, sul rapporto con i grandi autori del passato e sul dialogo ‘al di là del tempo’ che ogni atto di comunicazione letteraria comporta.

Anche in ragione di questa necessità di inserire un dinamismo all’intero dei generi letterari, contro ogni rigido incasellamento, Monteiro Martins organizza la poesia in maniera singolare. Le due raccolte Il percorso dell’idea e La grazia di casa mia ci dicono e raccontano la particolarità compositiva dello scrittore italo-brasialiano. Una vera e propria proesia quella della prima raccolta, a tal punto che sembrerebbe altro, un po’ come I pensieri di Pascal, in cui più che con epos o lirica siamo di fronte a esposizioni concettuali di forte sinteticità ed intensità. Dell’elevato contenuto si rimanda alla postfazione di Alessio Pardi presente nel testo La grazia di casa mia. Ma anche nella seconda raccolta di poesie si registrano significative particolarità, perché ancora una volta non siamo in presenza di epos, nel senso di poesia epica, e neppure di poesia lirica. La poesia di Julio Monteiro Martins è una narrazione in versi. Ogni poesia è una breve narrazione. Difficile individuare figure retoriche come assonanze, consonanze, allitterazioni, perché il poeta non gioca su questi elementi, quanto piuttosto sul narrare in sé, che diventa perciò stesso una metafora. In questo Julio Monteiro Martins si mantiene fedele al suo assunto poetico principale che è quello del narrare, perché la narrazione convoglia il suo senso e significato nella sua immanenza. L’idea, la poesia, nata e creata dall’esplosione del Verbo si incarna in “milioni di miliardi di storie”.

Ancora qualche accenno sull’uso della lingua che è usata in modo sapiente dallo scrittore italo-brasiliano. Il tono, lo stile è sempre elevato e rivela una conoscenza non comune dei suoi segreti e risvolti sul piano linguistico e sintattico.
È un italiano identico eppur tanto diverso da quello dei parlanti nativi; una lingua dal ritmo regolare, scandito da battute brevi ma dense, che vanno oltre ciò che affermano perché restano sospese, rimandano ad altro, e per via metaforica e per la stessa musicalità del periodo, che sembra liquefarsi e rallentare allungandosi su se stesso oltre la sua misura. Ne risulta una prosa poetica fuori dal tempo, ma pulita, semplice e piana, caratterizzata dal prevalere di una sintassi paratattica che condensa immagini fulminee, fotografie canadesi.

*Per averne un autorevole conto, si leggano le pagine iniziali della Prima lezione di letteratura di Piero Boitani (Roma-Bari 2007).

**Cercando immagini di Julio in Rete – per il puerile desiderio di rivederlo vivo e sorridente come quando restava a cena con mio marito e con me, e parlavamo fino a tardi di letteratura, di politica e di figli – ho trovato una sua lettura di Antenne per Shangri-la:https://www.youtube.com/watch?v=OltHtx1YpeQ

LA PRODUZIONE LETTERARIA BRASILIANA

Rosanna Morace

La carriera letteraria di Julio Cesar Monteiro Martins comincia quand’egli non era ancora ventenne con la pubblicazione di poesie e racconti in antologie piuttosto ardite, perché impegnate politicamente durante gli anni della dittatura militare: Ventonovo (1975) e Histórias De Um Novo Tempo (1976). Del 1977 è la sua prima raccolta di racconti, Torpalium, a cui seguono, nell’anno successivo, una nuova raccolta, Sabe quem dançou? (Sai chi hanno beccato stavolta?), e il primo romanzo, Artérias e becos (Arterie e vicoli ciechi). È con questa opera che si comincia a definire lo sperimentalismo dell’autore nel contaminare i generi letterari: il romanzo è, infatti, costituito da un centinaio di piccoli frammenti autonomi. I tasselli si sviluppano in modo apparentemente arbitrario, ma in realtà secondo una sequenza logica che si attua in parallelo, sincronicamente, più che diacronicamente e in modo lineare. E queste vite parallele, ogni tanto, quasi per caso, in un caffè, nel metropolitana o nella sala d’attesa di un ospedale, s’incontrano, s’incrociano, e poi si sciolgono nuovamente, ciascuno per la propria via, per la propria vita.
Anche sulla base di questi pochi dati è già chiaro come, già dagli esordi, la propensione di Monteiro Martins verso la forma breve del narrare penetri nella struttura del romanzo, frammentandola dall’interno e facendola esplodere in centinaia di cellule a sé stanti. Ma è con il successivo romanzo, appena un anno dopo, che questa tendenza diviene un modus operandi definito, una poetica vera e propria che impronterà anche le opere italiane, in un chiaro segno di continuità.
Bárbara, infatti, è un romanzo costituito da 18 capitoli, chiamati «segmenti», ciascuno indipendente dai precedenti e dai successivi, leggibile autonomamente e costruito secondo la logica e le tecniche del racconto breve: nel respiro narrativo, nella struttura di climax-anticlimax, nella concentrazione che potenzia gli elementi e li rende specchio o antitesi di altro, nell’assenza e mutevolezza del narratore, nell’autarchia. Bárbara è dunque un romanzo costituito da 18 racconti. Il narratore e il punto di vista, infatti, mutano di segmento in segmento, e solo in alcuni coincidono la protagonista. Ma anche in questo caso l’angolo visuale cambia costantemente, perché il romanzo attraversa tutte le fasi della sua esistenza, dall’infanzia alla vecchiaia: e dunque vi sarà una diversa Bárbara in ogni racconto e la sua visione del mondo si modificherà dall’allegria e dall’approccio ingenuo fino alla tristezza, la solitudine e la disperazione più cupa di una madre che ha visto il figlio suicidarsi, senza aver avuto il minimo sentore di ciò che stava accadendo.
Più spesso, però, la focalizzazione è esterna e si attua nel nudo dialogo senza la presenza del narratore, o ruota sugli altri personaggi che incrociano l’esistenza di Bárbara e che, in taluni casi, divengono narratori. Voci narranti sono il primo ragazzo, Marcinho, la madre, l’innamorato dott. Clayton, le amiche Lola e Renata, Rudolf (che poi diverrà il marito), Alexandre, Inácio, il figlio Ronald (voce negli attimi prima del suicidio), la ragazza del figlio (dopo la sua morte), mentre negli ultimi due segmenti i protagonisti e le focalizzazioni sono addirittura il tempo (XVII, L’orologio di plastica) e il luogo (XVIII, Fiume transitorio). Ciascuno di essi getta, dalla propria prospettiva, una luce sul Brasile degli anni ’70 e/o sulla vita di Bárbara, che quindi in molti casi è come se vivesse di vita riflessa. Così, ad esempio, nel Segmento IX, Scalinate di marmo, al centro della narrazione sono le manifestazioni studentesche represse nel sangue dai militari; mentre nel IV, Pocatello, Idaho, l’americano Dott. Clayton sperimenta tutta l’assurdità del sistema poliziesco e giudiziario brasiliano, la loro connivenza con la criminalità piccola e grande.
Bárbara mi aveva detto che la polizia in Brasile era, tutta, completamente folle, delirante. Pensavo che fosse una sua esagerazione. Lei rideva e ripeteva che qualsiasi processo in Brasile aveva, come minimo, un clima kafkiano. Che qualsiasi provvedimento della polizia era, nella migliore delle ipotesi, un altro crimine […]. Perfino risi della vulcanica immaginazione della ragazza quando lei mi sussurrò che in Brasile non c’era nessuna differenza tra banditi e polizia. Erano le stesse persone, avevano le stesse facce, e premevano il grilletto delle stesse armi. Da una parte c’erano tutti i delinquenti, dall’altra il resto della popolazione, già vittime potenziali.
Anche qui lo scorcio storico è la metà degli anni ’70, come in tutto il resto del romanzo: il tempo è infatti fermo, immobile, congelato, nonostante Bárbara cresca di segmento in segmento. Al punto che Bárbara potrebbe ritenersi un romanzo sul tempo, su una vita rimasta bloccata al tempo degli scontri aperti contro il regime militare brasiliano, quando la legge era come «una ragnatela. Gli insetti più piccoli finiscono impaniati e vengono divorati. I più grandi, gli scarafaggi in marsina, arrivano volando e zac… Forano la tela e se ne vanno via tranquilli, come se niente fosse».
Anche Bárbara rimane impaniata, ma nella tela che lei stessa si è costruita, o che la vita le ha teso come una trappola. E non ne può uscire, per una sorta di determinismo che ha le sue origini in un trauma infantile marchiato a fuoco sulla sua carne. Il tempo sembra sciogliersi, la vita ridursi in frammenti che si raccolgono in un luogo della memoria solo a lei conosciuto, e il cambio di voce narrante e di punto di vista si fanno specchio di questa segmentazione di un io che cerca, cerca, e forse, alla fine, trova.
Un unico cambio temporale si registra, brusco, netto, assolutamente onirico, alla fine del romanzo. Siamo nel tempo squagliato di Dalì, e il segmento si intitola, appunto, L’orologio di plastica. Bárbara non ha più un motivo per vivere, non trova la ragione per farlo dopo la morte del figlio, e sogna del tempo futuro che potrebbe avere se solo decidesse di ricominciare a vivere, se accettasse la proposta dell’uomo che quotidianamente la chiama. Ma lei non ha più la forza e il coraggio per credere negli uomini, nella vita, in se stessa. E allora il sogno, prima della decisione finale. Un sogno in cui anche lo stile cambia completamente, diventa onirico nella completa esplosione dei tempi verbali, della sintassi, della logica del tempo: «Il tempo che senz’altro avremo è stato bello». «Noi sapevamo quando sarà che questo momento sarebbe arrivato».
Ma tutto ciò si dissolve nel Fiume transitorio (titolo del Segmento XVIII)della vita: Bárbara decide di rinchiudersi in un ospizio, seppur ancora relativamente giovane. E qui il protagonista è il luogo, lo spazio in cui sorge l’ospizio: prima villa di una contessa con ettari ed ettari di terra intorno, ora ricovero per anziane con intorno cumuli e cumuli di rifiutiLa città, adulta e pasticciona, non aveva dove scaricare le sue deiezioni, e tutti i terreni senza costruzioni venivano fatalmente adibiti a questo scopo, dare ricetto a quello che gli altri non volevano più. Pensandoci bene, alla casa che lì si ergeva non era stato destinato un compito molto diverso.
Julio Cesar Monteiro Martins ci racconta così la vita della sua protagonista attraverso frammenti emblematici, che riempiono il vuoto diacronico non narrato, ampliando il proprio orizzonte in spazi che è il lettore a creare e immaginare. La logica sequenziale tra i segmenti è però stringente, e dà vita ad un ‘romanzo-in-racconti’ i cui vuoti sono anch’essi diegesi.
Con questo ardito e delicatissimo romanzo si conclude la sperimentazione di Julio Monteiro Martins attorno al genere romanzo: O Espaço Imaginário e madrelingua essendo metaromanzi. Ma tale sperimentazione si capovolgerà in una forma letteraria inedita, poi proseguita anche in Italia: quella dei racconti-in-romanzo, ovvero prose brevi che indagano un motivo, un’essenza, un sentimento, una ‘materia oscura’ della nostra epoca nelle sue infinite sfaccettature, e tali per cui tutti i racconti convergono su un ‘protagonista nascosto’ che è il motivo conduttore del romanzo che sottendono.
Tale è A Oeste De Nada, pubblicato in Brasile tre anni dopo Bárbara, nel 1981, e libro ‘fratello’ dell’italiano La passione del vuoto, scritto più di vent’anni dopo. Entrambi, infatti, raccontano il vuoto: pieno di violenza e di rivolta contro la dittatura brasiliana degli anni ’70, il primo; intriso di indifferenza e conformismo, cancri e malattie del nostro tempo, il secondo. Attraverso entrambi si può, però, concretamente misurare come l’opera dell’autore brasiliano si sviluppi assolutamente nel segno della continuità e dell’approfondimento di percorsi e motivi già individuati al di là dell’Atlantico. Non vi è dunque una ‘rottura’ dovuta alla migrazione, ma una maturazione nel tempo e un cambiamento dei tempi, ed è importante ribadirlo poiché spesso gli studi sulla ‘letteratura migrante’ pongono l’attenzione esclusivamente sulla produzione in lingua italiana e vedono l’esperienza migratoria come frattura.
La continuità tra questi due libri fratelli è invece qui evidente già nei titoli, nei due sostantivi che fanno riferimento allo stesso campo semantico: vuoto e nada. Ma mentre A ovest di niente gioca intertestualmente e per ossimoro con il titolo di un celebre romanzo di Steinbeck, East of Eden (tradotto in italiano con La valle dell’Eden), La passione del vuoto lo fa con la polisemia ossimorica della parola ‘passione’, nel duplice senso di ‘forte emozione, trasporto’, e ‘pena, tormento’. Bisogna tuttavia sottolineare come le situazioni e i personaggi narrati nel primo siano maggiormente crudi, brutali, intrisi di un carattere terrigno che in La passione del vuoto sfuma verso colori acquerellati, più eterei e sospesi.
Il paesaggio umano, geografico e storico di A oeste de nada è, infatti, drammatico, fatto di desolazione e di abbandono, in una terra matrigna che prima umilia e poi annienta i suoi figli. Si veda, per es. l’explicit di O santo graal, nel quale i problemi di una coppia si intersecano con la rivoluzione in Nicaragua dei sandinisti: la prima grande rivoluzione di sinistra nell’America Latina dai giorni di Fidel Castro e Che Guevara. Nel silenzio tombale tra i due all’interno della macchina, riempito dalle notizie in radio[…] passammo a poco meno di un metro da un cane con la parte posteriore del corpo distrutta da qualche camion. Cercava di trascinarsi con le zampe anteriori fino alla banchina. Mai ci sarebbe arrivato e per poco non lo investivamo anche noi. Il mezzo cane mi guardò negli occhi, con uno sguardo strano, intelligente. Mi guardò senza domandare niente, solo informandomi che ne sarebbe uscito vivo. O no. I pneumatici del furgoncino, che ci seguiva subito dopo, diedero due salti secchi. Fra il primo e il secondo, giuro che sentii un grido.
Il cane diviene la metafora del Brasile, così come Manuelito, l’indios protagonista del racconto omonimo, che finisce con l’auto-stuprarsi da solo, reso pazzo dalle violenze omosessuali subìte da parte dei cercatori d’oro bianchi. E ancora il «grottesco e il carnevale» del Brasile è in Dominò, oggetto di una bella e attenta analisi di Vincente Ataíde (anch’essa consultabile in questo supplemento. Il racconto è, invece, presente sulla pagina «Il direttore» della rivista «Sagarana»). Più in generale, tutti i protagonisti dei racconti sono specchio e simbolo di qualcosa che trascende la loro vita e la loro personalità: sono prostitute gravemente malate che lavorano nascondendo la malattia, bambini troppo fantasiosi a cui vengono tarpate le ali, finendo per suicidarsi con gli ansiolitici della madre; e ancora gli indios, vittime inconsapevoli di un mondo che ha tolto loro il passato, le tradizioni e quella genuinità e ‘naturalità’ che si era conservata vergine per millenni e mai più potranno ritrovare.
Il tono è crudo, i temi densi e spesso brutali, e la lingua li segue slargandosi dal portoghese del brasiliano di strada allo slang dei surfisti di Rio; ma innalzandosi poi in «delicatezze eufemistiche» e in «liriche metafore estese». Un uso della lingua ampio e variegato, quindi, che ritroveremo anche nelle raccolte prodotte nel nostro paese, dove sorprendentemente sarà l’italiano a spaziare dall’alto al basso, da una lingua poetica e sospesa all’uso di termini dialettali e gergali.
Julio Monteiro Martins porrà così al servizio della nuova lingua e della nuova patria l’esperienza ampiamente riconosciuta in Brasile, nel tentativo di «imparare a vivere per me stesso e a morire per il mio sogno, che è quasi una patria» (Un mare così ampio, in Racconti italiani, p. 19).

L'autore

Rosanna Morace