Il concorso Io scrivo” si è concluso con i seguenti vincitori
1) Abira Khan (F 23 anni Pakistan 24-12-1999) Proiettili in testa
2) Linda Graciela Sarmiento Munoz (F 24 anni G2 Milano 6-2-98, Perù) Vorrei consolare quella bambina
3) Elias Barmaki (M 22 anni G2 Milano 24-3-2001, Marocco) Allah y rahmo
Le motivazioni sono le seguenti:
PROIETTILI IN TESTA. La giuria ha deciso di attribuire il primo premio ad Areeba Aksar per l’originalità del testo, veri e propri “proiettili” sia nel contenuto che nella forma. La migrazione fa da sfondo alle non sempre positive vicende personali e familiari dei personaggi. L’autrice con tecnica impressionista mette in risalto le difficoltà esistenziali e lavorative di un giovane migrante e la sua volontà di riscatto e integrazione in un nuovo mondo che non gli risparmia pregiudizi e amarezze.
VORREI CONSOLARE QUELLA BAMBINA. Linda Graciela Sarmento Munoz è autrice di un interessante racconto in cui la protagonista narra il suo percorso di acquisizione della coscienza di sé in un ambiente diverso dalla comunità di origine e di appartenenza. Il testo è encomiabile per la capacità di rappresentare la confluenza fra le tradizioni del paese di origine e la realtà di quello di accoglienza. La narrazione, sostenuta da una scrittura accurata e accattivante, scorre con scioltezza e evidenzia un’attenta indagine psicologica.
ALLAH Y RAHMO. Il tema del testo di Elias Barnaki è tragico. L’autore ci introduce in un momento privato della vita di una comunità: il suicidio di un suo membro. La tragedia familiare fa emergere due approcci diversi di fronte all’evento. Da un lato sentimenti, comportamenti e consuetudini condizionati dalla cultura religiosa tradizionale, dall’altro l’atteggiamento più spontaneo del protagonista frutto di esperienze di vita in una cultura diversa. Il linguaggio seppur scarno risulta efficace, profondo, toccante e talora poetico.
Primi tre testi:
Proiettili in testa. Solo a volte di Abira Khan
Sto leggendo John Green
sono arrivato a questa frase che dice Il dolore esige di essere vissuto, tipica roba da bianchi.
Quelli come noi sono troppo impegnati a subirlo per avere anche il tempo di parlarne.
Chiudo il libro e lo getto sul letto.
«Che puttanata» borbotto.
Intanto Ammi Jaan ha aperto la porta senza bussare,
«Adib, è ora di leggere il namaz. È ora di pregare».
Tiene la mano sulla maniglia «e spegni questa roba» aggiunge.
Mi ero dimenticato della radio in sottofondo.
Sta andando Spirits degli Strumbellas.
I got guns in my head and they won’t go,
spirits in my head and they won’t go.
Azzero il volume senza staccare la spina.
***
Ho preso il diploma di maturità due settimane fa.
Voto finale: 98.
All’orale ho risposto a tutte le domande perfettamente.
Quando pensavo di aver concluso, la Parisi ha rotto il silenzio con la sua erre moscia
«Quel ragazzo, che ha investito con un camion i francesi. Che tragedia».
«Ha ragione, lo è».
Parlava della strage di Nizza.
Mentre passavo i pomeriggi a studiare, il tg faceva vedere spezzoni di quello che era successo sulla Promenade des Anglais il 14 luglio.
87 morti e più di 400 feriti.
A guidare il camion era un tunisino e l’ISIS rivendicò l’atto.
«Gli arabi sanno essere violenti, ma tu non lo sei. Giusto?»
«Che cosa? Arabo o violento?» mi tremava un po’ la voce.
Rise.
«Intendevo violento. Non sei musulmano?»
«I mie lo sono, sì» continuai.
«Ma vede, la violenza non è una caratteristica esclusiva dei musulmani.
Che io sappia, poi, i miei non hanno kalashnikov nascosti sotto le assi del pavimento».
Feci una pausa per respirare
«e non abbiamo abbastanza soldi per comprarci un camion.
Mia madre non ha neanche la patente».
Pensai di fermarmi, ma qualcosa nel suo sguardo mi spinse ad andare avanti
«Non posso negare di essere violento. Prima mi deve spiegare qual è la definizione di
violenza per lei. Devo investire delle persone? O basta fare questo?»
mi alzai e buttai giù tutto quello che c’era sul tavolo.
Mi hanno tolto un punto per questo.
L’altro perché ho dato della razzista alla mia insegnante di matematica e me ne sono andato senza il permesso della commissione d’esame.
Ho lasciato il mio zaino ai piedi della sedia, la LIM ancora accesa, le parole “Fine – Tesina di Malik Adib”, a illuminare la stanza semibuia.
La stessa sera il coordinatore di classe ha chiamato a casa.
«Malik, potevi essere bocciato per una cosa del genere. Lo sai?»
«Sì prof».
«Questa volta te la sei cavata con qualche graffio, ma nella vita non va sempre a finire bene».
«Sì, prof».
«Il solo motivo per cui sei fuori è perché la Parisi non ti vuole vedere l’anno prossimo». §
«Sì prof». §
«E smettila di rispondere come un lobotomizzato» pausa.
«Sono serio, hai capito ragazzo?»
«Ho capito. Mi scusi».
«Va bene, non fare casini» si schiarisce la voce «Buona serata signora Malik».
«Ciao, ciao» risponde Ammi Jaan.
Il telefono è sdraiato sul tavolo, messo in viva voce.
Aspetta di sentire il bip bip che segnala la fine della telefonata per chiedermi cosa volesse.
«Niente. Diceva che ho finito gli esami».
«Sono analfabeta Adib, non stupida».
Schiocca la lingua in segno di disapprovazione e se ne va.
***
Ho frequentato un liceo scientifico, il migliore della mia città e ora lavoro in una pizzeria.
Il posto è grande quanto un monolocale e oltre a me, c’è un solo altro impiegato.
Ciro fa le pizze
io tutto il resto.
È un perfezionista,
Dopo la mezzanotte mi manda a tirare giù le saracinesche e solo allora si rilassa.
Appoggiato contro il muro rolla una sigaretta a mano, la infila dietro l’orecchio e ne gira un’altra.
Poi le paragona e mi passa la migliore.
«Tieni»
«Grazie»
lascio che me l’accenda
«Anche oggi ce l’abbiamo fatta»
«Già»
So che non parla del turno.
Solo a volte (Ciro)
«Tieni».
«Grazie»
«Anche oggi ce l’abbiamo fatta»
«Già».
Ho preso a respirare con la bocca, certi odori mi fanno venire il voltastomaco. Mi è passata persino la fame e sostituisco i pasti con tazze di caffè solubile.
Ho ridotto le sigarette ultimamente, in cucina il forno mi ammazza la voglia e d’estate il solo momento perfetto per fumare è quando il sole non ti tortura più.
Ho sempre preferito il freddo al caldo.
Sarà che di anni giù ne ho passati troppi, Napoli aveva iniziato a pungermi come i maglioni di lana portati senza canottiera.
Nessuno mi aveva detto che andarsene sarebbe bastato per ricominciare da capo,
neanche con dodici ore di viaggio e due autobus alle spalle,
§neanche con una stanza sudicia nella periferia di Milano in cui fingevi di esserti realizzato. Al massimo ti eri idealizzato;
quel posto
quella vita
uella solitudine che tanto avevi desiderato
erano belle da lontano.
Le cose, una volta che ci stavi dentro, perdevano il loro fascino.
***
Adib mi piace,
ha grossi occhi scuri e tanti silenzi da dedicarmi. Non si stanca mai quando lo trattengo all’ingresso della pizzeria a parlare.
A volte dimentico che ha solo 18 anni.ù
Ha le occhiaie di uno che il mondo lo ha già digerito.
Poi arrivano i suoi amici a tiralo su con un furgone e allora perde tutta la sua profondità, torna ad essere un personaggio in 2d con meno rughe e capelli bianchi.
Vanno nei soliti posti a fare festa, forse a bere mentre io resto a guardare l’interno della mia mente e ci trovo le serate che ho già trascorso nello stesso modo. Ma non mi mancano.
Fa domande strane e nei momenti più improbabili.
Oggi gli interessa sapere com’è avere la mia età.
«Come ogni cosa una volta che ci arrivi: ordinaria»
«Oh», dice «parli come i libri di poesie»
«Preferirei parlare come Vasco Brondi»
«E chi è?»
«Un tizio che una volta conoscevo»
Vasco Brondi mi è entrato nelle ossa mentre crescevo e si è calcificato assieme a tutte le fratture che uno si procura.
Da quando mi sono abituato al freddo del nord ho smesso di ascoltarlo.
Mi ricorda troppe cose
come i miei 17 anni, la prima volta che ho fatto l’amore
le partite a briscola tra i banchi di scuola, i litigi in casa, le risse per strada.
Il mare. Dio, il mare.
Quanto mi manca. A volte provo a convincermi che i cieli bassi di Milano siano grossi ventri pieni di pesci e alghe.
È assurdo come fai il possibile per scappare da un posto ma poi trascorri il resto dei giorni a sentirne la mancanza.
***
Il lunedì la pizzeria è chiusa. A volte vado al cinema altre vedo qualche amico e ci prendiamo un caffè assieme. Ma a inizio settimana la gente è sempre impegnata e io mi ritrovo con lunghe ore che non so come colmare. Oggi sono rimasto in casa, il sole è una palla di fuoco che schiaccia tutto contro il suolo. Ho tirato le tende e sto passando il mocio sul pavimento quando il cellulare squilla.
«Ciao mamma» dico annoiato.
«Ciao Ciro, mamma sta di là a dormì».
«Sara» il mio tono acquista entusiasmo.
A Napoli ci ho lasciato i miei 19 anni di vita e mia sorella Sara.
«Come stai?» chiede.
«Pulivo casa, come vuoi che stia?» rido.
«Cavolo, avessi pulito qui quando ancora ci stavi. La nostra stanza era un porcile» lei continua la mia risata.
«Lo era» dico «Cumm staj?»
«Io bene» sospira «Fa caldo».
«Anche qui» aspetto che aggiunga qualcosa.
Quando chiama ha sempre qualcosa da raccontarmi, a volte mi chiede di interpretarle i sogni.
Anche se ho lasciato l’università, per lei resto uno studente di psicologia.
«Fatto qualche incubo di recente?» la sprono,
è appena entrata nella fase freudiana ed è in fissa con la psicoanalisi.
«In realtà no» sento la sua voce più lontana, come se si fosse staccata dal ricevitore
«Aspetta un secondo» mi intima,
[Rumore di passi, porta che si apre e si richiude, altri passi, poi la voce di Sara. Sussurra.]
«Ciro ascolta, c’è una cosa che ti devo dire».
«È successo qualcosa?» chiedo, mi preparo all’ennesima tragedia adolescenziale.
Forse si è lasciata, penso.
«No. Ancora no» scandisce piano le parole «Ma sta succedendo e non so che fare» di colpo i suoi 15 anni si moltiplicano per due e ho l’impressione di star parlando con un’adulta delusa.
Corrugo la fronte anche se non mi può vedere «Sara, allora?»
«Mamma e papà si stanno lasciando».
«In che senso?»
«Nel senso che papà se n’è andato con la sua roba».
Ci rimango male.
«Cazzo» non so che dire
«Già» dice «stanno parlando di affido condiviso».
«Stanno divorziando?» anche se non è una domanda la mia e lei mi ignora.
«Ma io non voglio stare con nessuno dei due, posso venire da te?»
«Sai che non puoi»
«Ti prego, solo per qualche mese» dice
«Sara. Mi dispiace»
«Per favore».
Capisco che sta cercando di non piangere «Non puoi lasciarmi anche tu».
Mi si incrina il cuore «Che cosa dice la mamma?»
«Lì non ti senti solo?»
«Non c’è spazio da me, lo sai bene».
«Ciro non ti senti solo, a volte?» ripete.
«Sì», confesso «solo a volte» dico.
Vorrei consolare quella bambina di Linda Graciela Sarmiento Munoz
(F 24 anni Perù, Milano 6-2-98)
Vorrei consolare quella bambina. Quella piccola bambina che non sa riconoscere neppure il proprio volto.
Certo, non sa molte cose, sta imparando tante informazioni e cose curiose a scuola ed ogni giorno è pieno di cose nuove e totalmente impensabili. Ed allora è naturale non conoscere ancora molte cose, perché se le conoscesse non andrebbe di certo a scuola.
Eppure, la bambina non riesce a conoscere neppure il suo volto. Si è resa conto di questo fatto a lezione d’arte, quando la maestra ha chiesto a tutti di disegnare il proprio autoritratto, oppure di scegliere un compagno da ritrarre. Così, si è guardata nello specchietto sottile e rettangolare ed è rimasta di stucco. Non era certo quello che si aspettava di trovare riflesso, ma allo stesso tempo non sapeva esattamente cosa si aspettava di trovare. È molto in dubbio e confusa, così decide di lasciar perdere e di ritrarre il viso del suo compagno accanto. Dopotutto, i volti degli altri non sono forse quelli meglio conosciuti in assoluto? Basta aprire le palpebre e sono già lì, pronti per essere guardati e rimirati per quanto tempo si vuole. Invece, nessuno conosce subito il proprio viso. Solo quando ci sono specchi a vetri, specchi appesi o pozze d’acqua è possibile rimirare la propria immagine a fondo.
Quando torna a casa fissa sé stessa a lungo, e così continua pure il giorno successivo. Non sa esattamente che cosa non vada nel suo piccolo faccino, se ci sia qualcosa che manchi o qualcosa in eccesso. È solo il giorno dopo, in classe che riesce a separare le piccole cose che non vanno nel suo viso con quello degli altri. Rimira a lungo le facce dei suoi compagni di banco, e soprattutto delle bambine vicine. Il confronto rende tutto più chiaro. È vero quindi: era confusa perché il suo viso è davvero diverso dagli altri. La prima alterità che incontra sono le sopracciglia: sono così arcuate e cadenti, non dritte, marcate e folte come le sue altre coetanee. Gli occhi poi, non sembrano neppure bene aperti a volte. Una linea di pelle li trascina in basso, delicatamente, spingendo con sé pure ciglia rade e sottili a formare un gioco di ombre sotto la palpebra mobile. La bambina si chiede se sia per questo che i suoi occhietti scuri appaiono così spenti in confronto con gli altri occhi attorno a sé. Non sono certo tondi, belli ed aperti, con una luce interna e chiara dentro che sembra risucchiare l’attenzione ogni volta che li si guarda. Sono piuttosto troppo scuri e non c’è un benché minimo di contrasto cromatico capace di far risaltare le iridi brune. La bambina si chiede allora se, forse, con un colore di capelli differente, le cose cambierebbero. Magari con capelli più chiari, più biondi, più luminosi, magari, i suoi occhi risalterebbero di più, risulterebbero più vivi ed interessanti. Magari se non fosse tutta così scura, come d’altronde tutti quanti nella sua famiglia sono – ecco – risulterebbe più carina, più definita. Più nella norma.
Come invidia, la bambina, tutti quelli che sono in possesso di un viso bello, radioso e regolare. Non certo come lei, piccola, scura e con quella faccetta davvero poco definita. Insignificante quasi.
Se le altre facce sembrano scolpite in pietra, con pennellate di colore sicure ed energiche, dall’altra parte il suo piccolo volto sembra invece fatto ad acquerello. Sembra di gomma, di plastilina, di cera molle. Non è mai uguale a sé stesso, ma ogni giorno sembra cambiare un poco, senza nessuna coerenza o direzione logica. La piccolina si chiede quindi se sarà mai possibile cambiare poco a poco quei tratti di gomma. Può essere che toccando e tirando con forza ogni giorno quei pochi centimetri di pelle, riuscirà a dare finalmente forma e senso al suo visino smarrito. E smarrita, senza dubbio, si sente davvero la bambina. Non è sicura da dove abbia preso quei tratti di viso così singolari ma anche banali, e non sa neppure se sia possibile restituirli al mittente. L’unica cosa che sa è che a quanto dice la sua mamma, è lei l’unica che assomigli così tanto a sua nonna materna. No, anzi. È proprio una goccia d’acqua con la sua ava. Prendendo una grossa fotografia dai bordi giallognoli, la madre, un giorno, le porge l’immagine di una donna anziana e rugosa, con sopra la testa un cappello buffo panciuto e nero. La bambina capisce ancora di meno. Come può essere simile al suo viso quell’intreccio di ragnatele di pelle in cui a malapena si scorgono gli occhi? E soprattutto perché non ha mai visto prima quest’anziana signora?
«Dov’è la nonna?»
«Vive lontano da dove siamo noi, nel nostro paese d’origine. Si chiama Perù, sai?»
La bambina non ha mai sentito un nome del genere. Non gliel’hanno insegnato a scuola di sicuro, visto che ad ogni lezione è sempre attenta. Si chiede come sia il Perù, si chiede perché sua nonna stia lì e non con lei per aiutarla a dissipare il mistero del suo viso. Come mai non l’hai mai vista fino ad allora? Ma sua nonna sa che lei esiste ed ha un viso uguale al suo? E poi, dove si trova esattamente il Perù? Oltre le montagne che al mattino, presto presto, è possibile scorgere nella foschia chiara delle giornate primaverili? Oppure si trova oltre la linea d’orizzonte del mare che ha visto due anni fa in vacanza sulla spiaggia? I quesiti rimangono nella testa, e non fanno altro che sbocciare altri quesiti, uno dopo l’altro. La colpa è sempre della mamma che le rivela che, non solo sua nonna la aspetta in questo fantomatico Perù d’oltralpe, ma che la aspettano pure un nonno vecchissimo, una miriade di zii e di zie mai sentiti prima, e soprattutto tanti, tantissimi cugini. Così tanti che sconfiggerebbero subito la sua classe intera a palla prigioniera se mai si disputasse una partita simile. Molti cugini hanno la sua stessa età. Altri sono più grandi. Altri ancora grandissimi, tanto da superare di età addirittura suo fratello maggiore.
Chissà perché scopre della loro esistenza solo ora. Perché non li ha mai visti o incontrati?
I quesiti non fanno altro che aumentare nella testa della bambina. Sono come fiori variopinti che sbocciano uno dopo l’altro a scoppio, senza quasi interruzione. La bambina è attonita e ferma, di sasso. Ha quasi paura di veder cadere dalle orecchie le domande che la assillano da dentro e spingono per uscire. Sono così tanti ed ingombranti che le fanno venire mal di testa.
Ad un certo punto pensa tra sé e sé questa cosa: «Ma i miei cugini, se sono bambini come me, magari mi assomigliano?»
A questa intuizione, il frullio svelto dei pensieri, come è venuto, cessa di botto. Un solo sentimento di euforia ed anticipazione le percorre la spina dorsale, fino ad arrivare alla pianta dei piedi. Ravvivata da questo stimolo improvviso, la bambina quasi urla addosso alla mamma la sua valanga di domande nuove. Quando verranno i suoi cugini? Quando li potrà vedere? E quando potrà andare lei a trovarli, per conoscere le scuole in cui vanno, le maestre che hanno ed i loro parco giochi?
La mamma sorride stringendole forte la mano: «Quando avremo risparmiato abbastanza soldi, vedrai tutti. Conoscerai le tue origini, la tua terra e la tua patria. Ricordati sempre che non sei solo italiana. Sei peruviana nel cuore e nel viso, mi pequena».
Una parte delle risposte allora è risolta: il suo viso è peruviano, non è un viso italiano, ecco perché è diverso. La sua testa si quieta e si calma anche il suo cuore. Ma non sempre riesce a stare tranquilla e soddisfatta dopo la spiegazione. Inquieta e guardinga della propria immagine, rimane spesso da sola, ferma ed immobile davanti all’anta dell’armadio aperta.
Prende l’abitudine di mettersi di fronte al grande specchio ovale ed ogni volta le arriva come previsto, un senso di vertigine iniziale. Al primo impatto visivo, la superficie vitrea le rimanda il riflesso di una sconosciuta. Una figura inaspettata le si presentava agli occhi. No, non era davvero il viso che si attendeva. Al di fuori di questi momenti, vive la sua vita con regolarità, in apparenza serena e senza preoccupazioni di sorta. Ma ogni qual volta un malaugurato specchio le si presenta davanti, non riesce a resistere alla tentazione di correre per scoprire il volto temuto. Ogni volta si aspetta di trovare un sorridente volto normale, italiano. Un volto noto, chiaro e luminoso. Tutt’altro invece, è quello che le ricambia lo sguardo, perché è un piccolo volto ignoto, che non sente di certo suo. E questo volto ha degli occhi anch’essi sconosciuti, troppo piccoli ed all’ingiù. Quegli occhi riservano la promessa di una nazione nuova, di un passato da scoprire, di una famiglia gigante e amorevole che avrebbe riempito i suoi lunghi momenti solitari a casa ed a scuola.
Sono però anche occhi tristi quegli occhi: tristi perché non vedono abbastanza spesso sua madre, sempre pronta ad inseguire mille turni di lavoro dalla mattina alla sera. Tristi perché non trovano nessuno con cui giocare e con cui condividere tutti i suoi innumerevoli pensieri e gli scenari immaginari di quel Perù mitico e della sua famiglia splendida e lontana. Tristi, infine, perché vedono passare gli anni e vedono sua madre continuare a sgobbare con lavori umili ma onesti, mentre suo fratello cresce distante e taciturno. Lei, d’altro canto, è troppo impegnata nell’andare bene a scuola, per rendere orgogliosa sua mamma con il frutto dei suoi successi scolastici. Sente di avere questo grande e importante compito ed è sempre felice quando guarda sua madre felice.
La bimba continua a crescere e non è più una bambina. Si rende conto che sua madre non è certo venuta in Italia dopo una scelta leggera e ben pianificata, ma, incalzata dalla paura pressante di un futuro instabile e tremendo, è fuggita dal terrorismo, per piantare nuove e salde radici in una nazione straniera. Per lei e per il bene dei suoi figli.
Così facendo è stata costretta a sradicare radici già ben assestate, un atto doloroso e sofferto, ma sopportato in nome di una vita a lungo desiderata, piena di speranze e di prospettive infinite.
Forse è per questo che gli occhi di mia mamma, anche se in parte simili ai miei, non sono spesso tristi. Sono a volte rassegnati ma non tristi. Però sono sempre stanchi. Animata da una volontà di ferro ha combattuto battaglie ed ha vinto. Ed ora la sua ricompensa è un lavoro stabile, una casa propria ed una cittadinanza ottenuta e passata in successiva a noi. A me.
Non so se è stato uno scherzo del destino o è stata piena volontà di mia madre, ma subito dopo l’ottenimento della cittadinanza italiana, tutti quanti siamo andati in vacanza in Perù. Io ero ormai grande quanto mio fratello maggiore quando ero solo una bambina. Avevo già studiato la geografia del Sudamerica e la topografia del Perù. Ci andavo quindi molto curiosa, ma con una mentalità quasi da turista. Allo stesso tempo provavo una strana vena nostalgica ancor prima della partenza.
Un viaggio fatidico così carico di promesse e speranze che era inevitabilmente scritto che avrebbe portato tante delusioni e disillusioni. Tante quanto il numero di anni attesi.
Ma una cosa importante l’ha compiuto quel viaggio tanto agognato. Ha permesso l’incontro con la famiglia d’oltreoceano, la famiglia solo delineata a parole e nomi, ma che ora aveva, uno per uno, un volto da identificare.
Ho conosciuto mia nonna, ed i suoi occhi effettivamente erano e sono così simili ai miei. Ma non solo: anche il sorriso e la piega gentile delle sopracciglia sono uguali. Però tutto questo, lo si può osservare solo a distanza di un viso tenuto in mano da altre mani.
Quindi avevo anch’io una famiglia, che conoscevo per la prima volta come loro conoscevano me. È stato un sollievo ed una gioia incontrarli, come anche un dolore sordo lasciarli. Al gate dell’aeroporto avevano tutti visi simili al mio, chi più, chi meno. Senza dubbio avevano occhi vivi e belli.
Ritornando a casa, a Milano, pur nella mia stanchezza da jetleg, anche i miei occhi erano vivi e belli, riflessi allo specchio. Ma soprattutto erano i miei occhi ed il mio viso, che rimiravo. Occhi simili a quelli di una bambina.
Allah y rahmo di Elias Barmaki
(M 21 anni Marocco Milano 24-3-2001)
Il padre pianse, e il suo pianto invase la stanza. Fu come un’onda: si propagò e investì tutti noi, che eravamo seduti. Ciascuno si sentì appesantito. Lo capii dal brusio che si fece silenzio, così come dai sorrisi – il momento prima, forzati, il momento dopo, ridotti a smorfie deformate. Dal tè che smise di riscaldarci. Era difficile abitare quel salotto. Era difficile, perché era la prima volta che tornavamo in Marocco da quando Karim era morto.
«Che Dio lo benedica». Era bastata quest’apposizione, questo dettaglio in aggiunta al nome del figlio per far crollare il padre. Un automatismo – si dice sempre riferendosi alle persone morte – che però riaccendeva brutti ricordi, dolorosi. Lo scheletro in fondo alle nostre conversazioni, che veniva per la prima volta a farci visita in maniera così esplicita e soprattutto impietosa. Il cadavere di un figlio, un fratello, un nipote.
Un amico, sepolto sotto le cose che non ci dicevamo. Si sarà sentito escluso, pensai.
Se no perché essere così presenti, pur senza venire mai nominati?
Karim: un figlio, un fratello, un nipote, un amico. L’eco di quella locuzione – «Allah y rahmo» – ancora risuonava nella sala. Nel frattempo, il padre si era alzato ed era andato a lavarsi la faccia, lasciandoci in balìa del silenzio e della tensione. I divani marocchini sono più duri di quelli occidentali. I cuscini in Marocco non sono soffici come i cuscini in Italia. Non c’è uno schienale. Ci si sta a volte sdraiati comodi, a seconda della posizione. Ma come eravamo seduti noi, come stavamo noi che eravamo rimasti, senza nemmeno il sottofondo di un pianto sì potente e inaspettato, ma soprattutto lieve e quasi impercettibile (e per questo devastante), noi eravamo seduti scomodi. Il padre forse non aveva più i mezzi per consolarsi. Forse, quelle poche lacrime uscite con fatica erano l’unico modo per cacciare via un’angoscia che lo tormentava da tempo. Chissà quali personaggi popolavano i suoi sogni; chissà quali pensieri abitavano la sua testa. Io credo che il suo incubo peggiore fosse la paura di riuscire a salvarlo. E quella benedizione – «Allah y rahmo» – inconscia come solo i riflessi sanno essere, gli ricordava non più solo nei sogni, ma adesso anche nella vita reale, che qualcosa si sarebbe potuta fare. Caro padre, nulla lo avrebbe salvato.
Nemmeno la mano che gli porgi la notte, prima che lui cada e tu ti svegli di soprassalto.
Il padre: questa figura laconica e solitaria, di un’autorità fino ad allora – fino a questo momento – invitta e marmorea. Eccolo che ritorna: si siede e riempie questo silenzio che ci pervade. Si guarda in giro, si ricompone. Riprende: «Stavo dicendo…». Il brusio riparte, i sorrisi (forzati) ritornano: come se nulla fosse. È questo il dramma, questo il mantra di una famiglia come la mia – andare avanti, tacere tutto, vivere nonostante. Come se nulla fosse. Questo momento appena successo ne è la prova. Questo mio padre che non si concede di piangere ne è la prova. Questo dolore intrappolato in una o due lacrime di troppo. Non sopporto più quest’ipocrisia, questo voler far finta che va tutto bene. Chissà quali personaggi nei sogni di mio padre, chissà quali pensieri per la testa. Io so però qual è l’immagine che abita dentro di me: il corpo di mio fratello, avvolto in un telo bianco. Chi aveva detto: «Allah y rahmo»? Nell’Islam, non c’è redenzione per i suicidi. È quasi un controsenso sperare che un’anima come quella di Karim possa salvarsi. Ma a me – al mio dolore, alle mie lacrime – non interessa. Quando penso al suo volto, prego per lui. Quando sento il suo nome, prego per lui. Voglio sperare che stia meglio. Karim, mio fratello, si è ucciso: la sua ombra era diventata talmente grande e talmente scura da arrivare a divorarlo. Un demone l’ha rapito e l’ha portato con sé nel paese da cui proveniva: l’inferno dei disperati. Poco importa chi abbia detto oppure no il suo nome. Io ho pensato a lui e ho dovuto dire: Allah y rahmo.