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GRIDA IL CANTO, SAGGIO CRITICO SU: IL LORO GRIDO E’ LA MIA VOCE: POESIE DA GAZA

Cosa significa essere poeta in tempi di guerra?
Significa chiedere scusa,
chiedere continuamente scusa, agli alberi bruciati,
agli uccelli senza nidi, sulle case schiacciate,
alle lunghe crepe sul fianco delle strade,
ai bambini pallidi, prima e dopo la morte
e al volto di ogni madre triste,
o uccisa!
.
Mio Dio,
non voglio essere poeta in tempo di guerra.

Hend Joudah

 

Una madre a Gaza non dorme…
Ascolta il buio, ne controlla i margini, filtra i suoni uno ad uno
per scegliere una storia che le si addica,
per cullare i suoi bambini
e dopo che tutti sono addormentati,
si erge come uno scudo di fronte alla morte …

Ni’ma Hassan

 

Non c’è luce nella mia prigione
né sole né finestra
non c’è nulla qui
tranne il carceriere… una porta e le manette
ho chiuso gli occhi ed è giunta la luce
dall’amore per la mia patria nascono le cose
l’amore in prigione è la mia libertà
e la passione è il cielo …

Dareen Tatour “Allucinazioni di una poetessa prigioniera condannata per terrorismo”

 

Perché abbiamo paura delle armi
se non fanno nulla
senza di noi?

Fazioso, ogni volta che la croce cresce
sul tuo petto, si riduce dentro di te,
e così anche la mezzaluna

Potremmo non cambiare questo mondo con ciò che scriviamo,
ma potremmo graffiare la sua vergogna …

Per scrivere una poesia non politica,
devo ascoltare gli uccelli,
bisogna far tacere gli aerei da caccia

Marwan Makhoul “Versi senza casa”

 

Esiste una guerra giusta? Una destra o una sinistra? Un occidente o un oriente? Un’umanità o non umanità dove distinguere chi ha il dovere di morire e chi – per privilegio – ha invece l’opportunità di vivere?
Capita a tutti, non si sa ancora per quanto, di avere una madre, capita a tutti – non si sa ancora per quanto – di nascere nel respiro, di piangere, di gridare perché dal silenzio di un nulla probabile si viene semplicemente al mondo: uno fra i tanti possibili. Capita così di esistere, di crescere, di cercarsi, soli o in relazioni e stendere fra abitudini, convinzioni, opinioni, ideologie e credenze la nostra traccia – sparuta manciata di fragilità, valori, dubbi, emozioni, traguardi ed eredità- nella Terra.
Eppure verticalmente il disprezzo politicante – come ogni guerra che si conviene!- nella retorica dominio/difesa, della violenza, del suprematismo, del razzismo ideologico – coadiuvato dalla feroce anestesia mediatica – agendo una volontà necrofila profonde i miasmi del rancore, della superiorità economica, tecnologica e militare. Si tratta machiavellicamente dell’arroganza e del sadismo di chi comanda contro chi – il popolo, la società civile etc. – le è subordinato ed inferiore!
E’ solo per questo che si muore, per una presunta differenza di valore umano. Gli altri valgono meno. Così l’arrocco dei confini: di mare come di terra. E’ per questo che si muore: si muore donne, si muore disabili, si muore vecchi, si muore infanti, si muore bambini, si muore ragazzi – feccia impotente del mondo? – e solo poi uomini!
Fra le parole molto abusate nella contemporaneità c’è pace, amore, giustizia, uguaglianza, seguite da diritti e libertà. E il vento che le schiaffeggia in faccia, le spinge con forza dentro le nostre bocche perché, noi queste parole non sappiamo viverle. Le ignoriamo con disperazione.
Del resto le morti sono ancora oltre i confini. I nostri! Le morti sono finestre in HD che ci distraggono appena se toccano la pancia seccata della nostra indifferenza, quando crediamo (ispirati dall’Intellighenzia tra cultura e media1) che certamente oltre a romperci i coglioni hanno una colpa o quando blandamente sbavati di interiorità avvertiamo il brivido di una corrispondenza incerta … . E questa mancata articolazione del condiviso dolore ci espropria dall’umanità. Ovvio almeno che non crediamo nella legittimità dell’odio perché, si può vivere d’odio e legittimarlo: ci educano a farlo!
Ho letto Il loro grido è la mia voce: poesie da Gaza ( a cura di Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini, Leonardo Tosti, con traduzione dall’arabo di Nabil Bey Salameh e dall’inglese di Ginevra Bompiani) dilatando il ventre all’estensione piena del dolore, dove ho abitato nelle forme dei versi, dove ho sentito lo sconquasso del disprezzo spazzare vite, dove ho sentito il pianto asciugarsi nel calore della mia fronte, dove ho sentito il ritmo del silenzio – atono – esplodere le case, gli ospedali, i villaggi, le università, i mercati, le strade e mi sono sentito umano impotente, di una fragilità accesa alla volontà di esistere, di testimoniare, di essere oltre la paura della morte, ancora possibilità articolata di carne testimonianza e memoria!
L’ho fatto con gratitudine. Con senso di inadeguatezza. Mi sono sentito misero.
Ecco questo grido mutato in voce – e coro in azione2 – ha l’azzardo dell’utopia creatrice, la ribellione di fermare l’ottusità politica, ben oltre la retorica della poesia3 essendo questa poesia delle viscere – eterna -perché chiama la vita alla vita. Il resto è nulla!4

Esiste per la verità tutta una tradizione della poesia civile e di guerra, di testimonianza e di protesta, ma come tutta la poesia di questo genere vive per assonanza, per ardimento ed impegno di resistenza data l’effettiva presenza di una certa agency, che in certi casi è una minuta articolazione di un contro potere5. Ci mancherebbe! Così la raccolta come ‘un testamento quotidiano’6 ci introduce all’asciutta violenza della guerra – per noi sempre mediata dagli schermi- e familiarizziamo così con ‘razzi’, ‘morti’, ‘Gaza’, ‘Dio’, ‘aerei’, ‘bombardamenti’, ‘sudari’, ‘detenzione’ e date per titoli come, sillabario della morte. Si perché a Gaza si muore. Il mezzo d’espressione e resistenza ( Sumud )7è la rete, la labilità accorata di questo mezzo capace di tutto e niente, dove scrivono questi esseri umani e poeti in diaspora.
Questa raccolta – non certo per suo demerito -, nella prospettiva italiana ed europea, ha un solo rischio: è chiaramente quello di privilegiare l’estetica di un certo dolore, la sua legittimità rispetto ad un altro, così se per associazione con Gaza ci viene in mente l’Ucraina, come pure tra gli attuali 56 conflitti nel mondo testimoniati, risuonano nomi come Siria, Iraq, Yemen, meno immediata è l’associazione con la Birmania, per non parlare del Rwanda. Come sono allo stesso modo meno immediati, per estensione, i conflitti delle popolazioni, tribù che dentro ai confini delle nazioni lottano per il diritto di esistere, le così dette minoranze etniche, che muoiono, scompaiono per il disboscamento e scelte politiche (sic!).
Questo ci dice molto della violenza e del potere che – volenti o meno- agiamo come occidente e privilegiati sul resto del mondo!
Qual è lo spazio di testimonianza di questa altra umanità?! Dov’è la poesia gridata di questi popoli? La dignità ed i dignitari capaci di lottare anche per queste vite, ignorate, taciute o dimenticate?
Queste domande non le pongo certamente ai poeti di Gaza,8 vivi o morti, perché alcuni fra di essi sono già morti.
Queste domande invece, le pongo ai vivi – a noi – che abbiamo l’azzardo di vivere credendoci immuni alla morte, essendo dalla parte giusta dei confini, nel lusso pieno dell’ignoranza, nella disinformata opinione o peggio ancora nella lucidità dell’odio.

Non c’è tempo per l’odio.

Heba Abu Nada “9/10/23”

Ma se lo scegliamo, non possiamo non essere consapevoli che l’odio – direttamente o indirettamente – uccide.

Ti hanno uccisa come si uccidono le farfalle,
e l’alba ha pregato per te,
poiché da una fossetta sulla tua guancia sorge il giorno.
Ti hanno uccisa, affinché l’aurora non torni mai più,
affinché restiamo al buio, senza vedere.
Hanno detto che minacciavi il paese
con una cintura esplosiva in vita.

Haidar al-Ghazali “26/08/2024”

Se, da qualche parte, le madri muoiono, bambine/i non crescono più, noi possiamo ancora agire il gesto di cura, contro il disprezzo imperante, per una concreta rivoluzione di luce! Per tutta l’intimità, la conoscenza, il rispetto, la gioia e l’amore che ci vorrebbe nelle nostre vite. Del resto:

Siamo ancora vivi fino a un nuovo avviso.

Heba Abu Nada “15/10/2023”

c. Notte tra 9/10 Maggio 2025 Arese

1 Forse per fortuna e militanza esiste una controcultura, spesso dal basso, che si oppone strenuamente contro il servilismo e l’ottusità del potere dominante, si tratta di attivisti ed attiviste che spesso non hanno nemmeno l’onore di questo vessillo (l’attivismo può divenire come a fine ‘800 e primi del ‘900 una professione), che scrivono, protestano, editano, pubblicano, stampano, radunano, fanno conferenze tra la realtà e il Mare Magnum di Internet, privi di appartenenze politiche, fazioni culturali, risorse comunali e fondi europei. Semi per una storia ed un’eredità che sarà raccolta – non da loro certamente – ma da altri. Oggi sono moltissime piccole realtà, come sono piccolissime case editrici, che si informano, informano, approfondiscono, traducono, testimoniano, dibattono, fanno petizioni, raccolgono soldi difendendo i diritti degli esseri umani. Fra queste, in modo particolare, tengo a sottolineare – per esperienza diretta – la pluridecennale militanza di Pina Piccolo, la lungimiranza della sua La Macchina Sognante e dell’ancora attiva The Dreaming Machine, dove in tempi non sospetti ha tradotto, introdotto, portato in Italia e nel mondo poetesse e poeti, ucraine/i, senza contare le traduzioni sue e della docente Sana Darghmouni del poeta Mahmud Darwish e di poesia palestinese. Il silenzio su questo lavoro, sulle pubblicazioni e sulla sua disinteressata militanza attiva è un prezzo che l’Italia clientelare ( mediaticamente, giornalisticamente ed editorialmente infame) e l’America dovranno affrontare con la Storia.

2 Emergency, si impegna a ridistribuire per i 5 euro di ogni libro comprato (costo 12 Euro) il ricavato direttamente in aiuto umanitario.

3 La poesia del Canone o sua deriva, quella delle accademie, dei premi letterari, dei circoli polari della fonetica in rima esatta ed allitterazioni di tradizione greco-romana-provenzale-stilnovista-rinascimentale-idealista-romantica-elisabettiana-decadentista-crepuscolare-surrealista ! Etc. .

4 Come prassi del potere l’Intellighentia culturale, di matrice bianca, a sua volta stabilisce chi classificare e chi selezionare secondo criteri relativisti, egemonici, paradigmatici (Kuhn) mai indagati eppure, intesi come certi e validi, dove riconoscere una continuità ed una correlazione significanti in termini evoluzionistici, di valore, per cui molto restia a sensibilizzarsi, a percepire come degno di interesse e di memoria ciò che si esprime in estrema diversità ed indipendenza , preferisce negare, silenziare, e semplicemente rimuovere ciò che la contrasta o la nega come paradigma. Lo ha fatto con la cultura contadina, dei pescatori, con la manifattura cittadina, con la cultura popolare ed i dialetti, con la cultura delle donne, con la realtà e cultura omosessuale, con a cultura dei disabili, con la cultura dei bambini e dei giovani ( il potere ha una tendenza e retorica gerontocratica), con la cultura degli africani, degli asiatici, degli australiani, degli indiani d’America e degli indios. Prima uccidendoli, poi negando il loro diritto di spazio, di parola, di autodeterminazione e in fine di fare parte di una tradizione culturale. La poesia non manca a questo colonialismo e dispotico razzismo culturale, a questo disvalore e disprezzo di ciò che è altro per cui esclude il valore, la dignità e l’appartenenza secondo il meccanismo della non continuità, della non conformità al canone: per quanto lacerato e frammentato anche in suolo Occidentale per lotte intestine. Ciò non significa che anche nei paesi menzionati non esista una retorica verticale di potere (la lingua stessa può essere una prassi di superiorità) e privilegio. Non poniamoci il problema della tradizione, dello stile, della docilità asfittica (perché la parola è un dominio assai crudele!), ignoriamo il dilemma valoriale – docimologico?- di riferimento. Anche perché, a ben vedere, la continuità è un lusso quasi del tutto padronale. Appelliamoci al principio umano, frammentario, del diritto di esistere e dunque di comunicare, di auto affermarsi e rappresentarsi; il diritto della testimonianza articolata e la dove occorre ( quando non vezzo biografico) del gusto personale. Limitato. Chiaro. Tutto ciò in chiave antropologica. Può darsi da lì, nella predisposizione ad accogliere, a sentire, a condividere e a capire, che nasca un valore dinamico, simbolico e funzionale dove, viva la parola esprime se stessa: la sua potenza ancestrale. Questa vita e difesa della vita deve risuonare in ognuno di noi.
Io, pur sedotto dalle tradizioni (o intossicato), al dilemma filosofico-letterario e valoriale – di matrice bianca- preferisco il grido, il vomito, lo sputo, la merda, l’afonia, la contrazione di un singulto in tentativo di comunicazione, l’estensione tremante di un gesto, di un ritmo prima che diventi articolata parola, suono, canto e corpo culturale!.

5 Scrittori, giornalisti, accademici, scienziati, attivisti, blogger, influencer, poeti etc. .

6 Fra le molte qualità dell’introduzione dei curatori c’è quest’analisi storica di ciò che accade. Il libro ha anche la prefazione dello storico Israeliano Ilian Pappé ed interventi di Susan Abulhawa (scienziata, scrittrice e attivista palestinese-americana) e Chris Hedges (Giornalista e scrittore americano), presentandosi dunque come un’analisi accurata, di tutto rispetto.

7 Lo troviamo, volutamente, non tradotto nella poesia “La tenda è un corpo fragile” di Yousef Elqedra con il suo vivo e in mutamento significato polisemico: ‘resistenza’, ‘fermezza’, ‘perseveranza incrollabile’ etc. .

8 Oltretutto ci sarebbe il rischio che la poesia si riduca a rielaborazione coatta, emotiva e sociale di una presunta turbata coscienza nazionale.

 

L'autore

Reginaldo Cerolini

1981 Brasile: Antropologo, Educatore

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