Narrativa transnazionale

Il momento sbagliato

I testi segnati con asterisco sono inediti

*Il momento sbagliato

L’autobus scassato imboccò la strada sterrata tra i campi avvolti dalla notte. Tutti i passeggeri erano stanchi. Il viaggio stava durando troppo, molto di più delle altre volte. Le donne avevano smesso di chiacchierare tra di loro da un pezzo. Klava guardava fuori dal finestrino, aspettava con impazienza di vedere un villaggio, una casa, un fiume, un gruppo di alberi o almeno un cartello familiare, ma non era in grado di riconoscere nulla. I tre bambini più grandi dormivano con le teste appoggiate in grembo alle loro madri.
Restavano svegli solo un anziano rinsecchito con la tempra di un tempo, un neonato che ciucciava furiosamente il seno di una ragazza poco più che adolescente e Klava, che non riusciva a prendere sonno per l’eccitazione di tornare a casa dopo così tanti anni vissuti in un paese straniero.
Finalmente era riuscita a mettere da parte abbastanza soldi per pagarsi il viaggio.
A un tratto la debole lucina della cabina del conducente si spense.
Il neonato smise di grufolare e cacciò un barrito degno di un elefante infuriato.
Le sagome scure dei passeggeri si mossero. L’autobus frenò e le sagome caddero in avanti. Gli uomini cominciarono a imprecare, le donne si misero a tirare su e a riaccomodare sui sedili i bambini assonnati, lo strillo del neonato aumentò di volume.
L’autista entrò nel vano passeggeri: «Zitto tu! Fallo stare zitto!», disse alla madre adolescente, che fu l’ultima a svegliarsi. «Voi tutti, state zitti, tirate le tende e non guardate fuori. Chi rompe i coglioni scende e va a piedi.»
I passeggeri obbedirono. La ragazzina riuscì a rinfilare un seno in bocca al suo scalmanato marmocchio.
L’autobus avanzava lentamente coi fari spenti. Dopo un po’ Klava cedette alla tentazione e scostò un lembo della tendina polverosa. Prima non vide nulla oltre l’oscurità. Poi i suoi occhi s’abituarono alla fioca luce delle stelle. Nei campi lungo la strada c’era qualcosa, qualcosa di strano, qualcosa che non andava, qualcosa che non andava per niente bene.
Il grano non era alto uguale, c’erano molte parti in cui era “disteso”, così dicevano nel villaggio quando un temporale o un acquazzone buttava giù le spighe, ed era un guaio, perché è difficile mietere il grano quando è disteso. Oltre ai labirintici sentieri c’era anche altro che turbava la superficie dei campi. Erano dei cumuli di terra fresca sul bordo della strada, ce n’erano molti ed avevano la lunghezza di una figura umana.
Klava spostò lo sguardo verso l’orizzonte e vide solo l’oscurità dei campi, che si fondeva con l’oscurità del cielo. Poi guardò la strada e vide un uomo sdraiato, immobile, in una buca all’altezza del muso dell’autobus.
Pensò subito agli ubriaconi del suo villaggio, che dormivano per terra incapaci di trascinarsi fino a casa. Pensò a quella volta in cui suo marito andò nel bosco col trattore assieme al suo migliore amico per trasportare della legna e non fece più ritorno. Dopo alcune ore lei uscì a cercarli, trovò il trattore accanto a una legnaia e i due uomini privi di conoscenza stravaccati accanto a due bottiglie di vodka appoggiate a un tronco d’albero segato a metà. Quella volta fu lei a caricare i due disgraziati sul trattore e a guidare fino al villaggio, anche se non l’aveva mai fatto, anche se non aveva la patente.
Klava pensò che il conducente avrebbe fermato l’autobus per raccogliere l’ubriaco. Si faceva così ai vecchi tempi. I passeggeri si sarebbero lamentati, le donne l’avrebbero coperto d’insulti, ma pazienza, si sa, sono cose che capitano.
L’autobus però continuò ad avanzare, fece una piccola manovra per evitare la buca. Solo la ruota posteriore la sfiorò, passò sopra un braccio che ne spuntava fuori. L’uomo per terra non si mosse. Klava chiuse gli occhi e abbassò il lembo della tendina.
Lei sapeva che nel suo paese c’era una guerra, aveva visto le immagini al telegiornale, aveva parlato con le compaesane, che raccontavano che il governo aveva inviato “mandati di comparizione” agli uomini in età da reclutamento. Ma tutto questo le sembrava impossibile, o quanto meno un’esagerazione, perché il suo villaggio era sempre stato tranquillo. Era povero sì, non c’era più lavoro, è vero, ma era casa sua, ne conosceva tutti gli abitanti, aveva programmato questo viaggio da mesi, aveva solo dieci giorni di vacanza, e si capisce, a casa sua e ai suoi conoscenti le cose tanto brutte non potevano succedere per davvero.
Quando raggiunse il suo villaggio era già alba. Il centro abitato in tutti quegli anni era cambiato poco. Alcune case stavano collassando, altre avevano tetti nuovi, alcune erano perfino state ritinteggiate di recente. Si trattava quasi sicuramente delle famiglie in cui qualcuno era andato a lavorare all’estero e mandava soldi a casa.
Passò davanti al vecchio spaccio alimentare con le porte ancora serrate, era nello stesso edificio di tanti anni prima, superò la torre dell’acqua, anche quella era al suo posto, girò l’ultimo angolo e vide la casa in cui era nata, cresciuta e aveva vissuto con il marito e i figli prima di diventare vedova, prima che i figli se ne fossero andati a cercare lavoro in un paese lontano e prima che fosse partita anche lei. Sua madre era morta in quella casa quattro anni prima, ma Klava non aveva partecipato al funerale, perché all’epoca non aveva soldi per pagarsi il viaggio. Le si bloccò il respiro quando credette di vedere sua figlia, ancora bambina, uscire in strada per correrle incontro con quei suoi codini biondi. Pensò di nuovo alla propria madre: anche da vecchia si alzava a quell’ora per dare da mangiare alle galline.
La sua casa era davanti a lei, buia, vuota e orfana da anni. I vetri al pianterreno erano spaccati.
Poi le avrebbero spiegato che era successo di notte, che non si sapeva chi fosse stato: separatisti, quelli del governo, disertori o semplici banditi. Ormai tutto il paese era pieno di gruppi d’uomini in uniforme indistinguibili gli uni dagli altri. Avevano scardinato gli scuri, rotto le finestre, ma le sbarre di metallo all’interno li avevano fermati. Dalla casa, almeno per il momento, nulla era stato portato via.
Klava dedicò i dieci giorni di vacanza a girare per vari uffici e a raccogliere documenti per poter vendere la casa. Era questo il motivo del suo viaggio. Cominciò a chiedere ai suoi compaesani se qualcuno fosse interessato ad acquistarla. Ma i suoi ex vicini la guardavano con freddezza, si stringevano nelle spalle e non le dicevano né sì né no. Una vecchia che abitava vicino alla torre dell’acqua parlò per tutti: «Tornatene da dove sei venuta. Non la copriamo la tua casa. Ce la prenderemo quando tu te ne sarai andata.»
La vacanza finì in fretta, troppo in fretta, come tutte le vacanze. Klava richiuse la casa e la guardò per l’ultima volta. Era la sua fortezza. Forse avrebbe tenuto l’assedio per altri quindici anni.
O forse no.

Editing italiano di Sara Pessina

L'autore

Tatiana Olear

Tatiana Olear, nata a Tomsk, in Siberia nel 1972. Si è formata all’Accademia Teatrale di San Pietroburgo, ha lavorato come attrice nella compagnia di Lev Dodin “Malyj Drama Teatr”. Dal 1996 vive in Italia, lavora come regista, attrice, autrice teatrale, docente di regia e scrittura scenica presso la Scuola Civica Paolo Grassi di Milano. Ha collaborato come traduttrice con la casa editrice Mondadori. Dal 2012 al 2016 è stata condirettrice artistica del Festival Internazionale Tramedautore, organizzato dall’Outis – Centro Nazionale della Drammaturgia Contemporanea, Milano.