Ahi Pisa, vituperio delle genti
del bel paese là dov’l sì suona
poi che vicini…
Dante Alighieri. Inferno XXXIII.
Fu in quel primo viaggio che perdemmo l’aereo.
Mi spiego, o almeno cerco, poiché le ore e le coincidenze, i particolari non necessari al fatto sono caduti nell’oblio.
Partite da Buenos Aires la sera precedente, giunte a Torino a metà pomeriggio –quasi buio dato l’inverno inoltrato in questo continente-, trovata la pota di imbarco del volo coincidenza per Albenga, ci mettemmo a sedere.
Emy riprese la sua rivista e la sua mamma, dopo averne offerto anche a me, con fare amabile scartò un biscotto. Io mi disposi ad assaporare il tempo di attesa: guardarmi intorno, osservare come si comportano gli italiani, gli italiani dell’Italia, i gesti, l’abbigliamento… I veri italiani, questi che abitano in Italia, non noi italiani per modo di dire, italiani in terra straniera, italiani per i quali il paese natio è il paradiso perduto e anelano tornare, sia pure temporalmente, in tour di vacanza.
Eravamo rimaste da sole ad attendere, il gruppetto delle tre donne, in quello spazio aperto, dall’apparenza circolare. Ognuna immersa nei propri pensieri di nostalgia.
In quel tempo, di cabine telefoniche ce n’erano quasi da per tutto, specie poi negli aeroporti. E lì di fronte a noi tre o quattro cabine allineate aprivano le loro porte a vetri. Da una di esse ci giungeva una voce maschile e sonora, cercava di rassicurare un suo –o sua?- familiare che tutto era in ordine, che sarebbe arrivato più tardi…
La voce, pausata e signorile, risuonava chiara, musicale, armoniosa, seducente. La modulazione da tanto tempo non udita fu per noi fata incantatrice, strega maliarda, …
Finito l’incantesimo, ci avvicinammo al banco Alitalia a chiedere notizie del nostro volo…
«Signore, il volo è partito…L’abbiamo annunciato ripetute volte…».
Ci guardammo. Si udì con eco la nostra risata nello spazio vuoto.
Le hostess non poterono spiegarsi il perché.
Poi, non ricordo come proseguimmo il viaggio sino ad Albenga.