TRA GLOBALIZZAZIONE E RICERCA DELLE RADICI
di LUCIANO LUCIANI
Parole di testimonianza, perdita, mutamento.
La scrittura migrante in un’intervista a Julio Monteiro Martins
Per ‘letteratura della migrazione’ si intendono quei lavori, in prosa e poesia, realizzati da scrittori stranieri presenti, per motivi diversi, in Italia e che utilizzano l’italiano come lingua di espressione letteraria.
Un fenomeno del tutto originale, ricco di contenuti eticamente motivati, fortemente innovativo sul piano linguistico, di recente origine – i primi anni Novanta – ma che sta crescendo velocemente in ampiezza e qualità.
Protagonista e interprete di questa importante novità letteraria, Julio Monteiro Martins (Niteròi, Brasile, 1955), che, dopo aver vissuto in Francia, negli Stati Uniti, in Giappone, in Portogallo si è stabilito a Lucca dove ha fondato la Scuola di scrittura “Sagarana” e una importante rivista on line che porta lo stesso nome. Docente all’università di Pisa, scrittore fertile con numerose pubblicazioni al suo attivo tra romanzi, racconti e saggi, (la sua ultima, L’amore scritto, Besa, 2007 è in libreria da pochi giorni), Julio Monteiro Martins insieme a Portofranco e alla Regione Toscana è tra i promotori del Seminario degli scrittori e delle scrittrici migranti, la cui VII edizione si è tenuta a Lucca, in Palazzo Ducale tra il 9 e l’11 luglio: tre giorni intensi di interventi, dibattiti, confronto di esperienze che, proprio attraverso le parole di Julio, intendiamo partecipare ai lettori di “Arcipelago”.
1. Nel corso dell’ultimo seminario degli scrittori migranti, tu hai parlato della loro letteratura come una delle novità artistiche più importanti apparse sullo scenario europeo negli ultimi 15/20 anni. Confermi questo giudizio? Lo puoi articolare con qualche esempio significativo?
Sì, è proprio così. A giugno sono tornato da un incontro a Francoforte, promosso dalla RomanFabrik, che riuniva scrittori “migranti” di tre paesi dell’Europa, Italia, Francia e Germania. Dalla forte e qualificata presenza del pubblico, dai dibattiti, dalla profondità politica e letteraria degli argomenti trattati, si vedeva chiaramente che in tutta l’Europa oggi questa letteratura emergente rappresenta il nuovo, scuote il canone e rivitalizza una letteratura stanca, sclerosata e manierista, quella europea degli scrittori stanziali apparsi dagli anni ’80 in poi, con pochissime eccezioni. Si può già parlare di una vera rivoluzione letteraria, in tutti i sensi, anche in quello della sociologia della letteratura, superando la lunga stagione delle “letterature nazionali” per aprire spazio a una letteratura veramente mondializzata. Una letteratura esplosa nei primi anni del XXI secolo, a partire dalle opere dei brasiliani e degli albanesi in Italia, dei turchi e dei curdi in Germania, dei maghrebini in Francia e degli indiani e pachistani in Inghilterra.
2. Tu hai definito la letteratura come “la più libera delle arti, la più coraggiosa. Gli scrittori non hanno nulla da perdere e volano più alto. Sono loro le voci più lucidamente critiche contro l’impero dei media, la pubblicità, la propaganda politico-religiosa. Contro i mascheramenti forzati che ci nascondono perfino a noi stessi”.
Non ti sembra di sopravvalutare il ruolo, l’importanza della parola scritta?
In nessun modo, perché questa è la realtà storica del nostro tempo. Alla migliore letteratura – e non solo in Occidente – è rimasto questo ruolo impegnativo, questa grande responsabilità. Dopo il fragoroso crollo di prestigio e la riduzione dell’efficacia dei vecchi discorsi ideologici e illuministi – in una realtà dominata dal più becero misticismo e dalla ragione di guerra e di sfruttamento –, ma soprattutto dopo la perdita di credibilità dei ruoli istituzionali tradizionali, politici, capi religiosi, militari, editorialisti delle grandi testate, giuristi, militari e scienziati sociali, sono rimasti solo gli scrittori – i narratori e i poeti – a svolgere il compito ingrato e difficilissimo di contrastare criticamente il “lavaggio del cervello” onnipresente in corso. Oltre alle giuste ragioni che hai ricordato nella tua domanda, c’è anche il fatto che la letteratura difende – ormai praticamente da sola – la complessità, contro una falsa semplicità, contro le risposte prête a penser, difende l’ambiguità contro la visione manichea e senza sfumature del mondo. Salman Rushdie, parlando di questo nuovo ruolo degli scrittori, ha scritto una volta che “in un mondo in cui chi doveva raccontare i fatti inventa bugie, è giunta l’ora in cui chi inventa storie di mestiere cominci a raccontare la verità”. Sì, perché altrimenti non ci sarà più nessuno in grado di farlo, tutti “leggeranno” la realtà secondo le versioni filtrate e le interpretazione di comodo del sistema.
Il mio ultimo romanzo, che sto finendo di scrivere proprio in queste settimane, “Vetro di latte”, parla dell’impossibilità per l’uomo contemporaneo di avere accesso ai fatti, la sua condanna a dover decidere e agire a partire da “versioni” di fatti, da “favole moderne”, fortemente ideologizzate, raccontate dai media. Il vetro di latte è un tipo di vetro fabbricato a Murano che permette il passaggio della luce, attraverso il quale si possono scorgere le sagome, ma non le immagini, un vetro senza trasparenza. Una metafora dei nostri limiti epistemologici in questi tempi.
In ogni modo, più che mai prima, la letteratura, quella seria, non quella “di intrattenimento estivo”, è diventata una sorta di sacerdozio e di missione. Bisogna vedere se essa sarà in grado di portare a termine questa immensa sfida.
3. Durante il dibattito ho colto due affermazioni problematiche e spiazzanti:
“Scrivere dopo l’espatrio è scrivere dopo un movimento sismico”;
“Il passato è una terra straniera da cui tutti noi siamo migrati”.
Ti riconosci in queste parole?
Sì, senz’altro. Un “movimento sismico” è una valida metafora per l’espatrio e l’esilio. Un’altra metafora, che potrebbe rendere conto del trauma di questa frattura esistenziale e psicologica è quella del “suicidio amministrato” che ho usato una volta: al posto di lasciarsi uccidere da un sistema incompatibile e spietato, anticiparsi ad esso e gestire la propria morte, non quella biologica ma quella culturale e sociale, offrendo a se stesso in questo modo la possibilità di rinascere altrove, con una nuova, ancora sconosciuta identità.
Quanto al passato, quello che ci ha formato, non rappresenta soltanto qualcosa che abbiamo già vissuto, ma qualcosa che siamo, la materia stessa di cui è fatto oggi, nel presente, il nostro spirito. Credo che ogni essere umano, senza eccezioni, ha il suo decennio, e rimane intimamente un uomo o una donna di quel decennio. Per alcuni gli anni ’50, ad esempio, e per altri gli anni ’70, con i valori consolidati di quel periodo conclusivo della formazione e dell’ “educazione sentimentale” della persona , rappresentano quel decennio intimo, impregnato di una vera identità, una forma di “patria”, spesso più che un paese, che non è altro che una finzione politica e geografica. Un decennio felice, individualmente e collettivamente – per esempio il periodo a cavallo tra gli anni ’50 e gli anni ’60, della “Dolce vita”, della Vespa, di via Veneto – è una patria dello spirito. E quindi per molti, da questo punto di vista, il presente rappresenta una forma di esilio, un territorio ostico, pieno di insidie.
Allora, se analizzi la situazione di uno scrittore in esilio, sei dinanzi a una forma multipla di sradicamento: dal suo tempo, dalla sua lingua materna, dal suo paese d’origine, dalle persone che ha amato. La mia domanda è: che letteratura produrrà un’intelligenza in una tale situazione limite, estrema? Sicuramente una letteratura di spessore umano, non è vero? Leggiamola e scopriamola, è il mio invito.
4. Dicci qualcosa di “Sagarana” che è, al tempo stesso, scuola di scrittura e rivista on line.
Sagarana, oltre a una scuola di scrittura, rivista culturale on-line (www.sagarana.net) ed ente organizzatore di eventi e seminari come quello di luglio scorso che hai menzionato, è soprattutto il contenitore fisico e istituzionale di un grande progetto, quello dell’affermazione in Italia della letteratura in tutte le sue forme, come territorio di trasformazione e di libertà.
Sagarana è l’universo reale e allo stesso tempo virtuale dove questo progetto raccoglie adesioni, trova gli intellettuali e gli artisti con cui è in sintonia, sviluppa le future iniziative, apre spazio alle nuove opere e si presenta come una grande vetrina aperta di fronte a un pubblico rimasto senza molte opzioni intelligenti e critiche dato l’attuale stato di cose.
5. Quale il tuo rapporto con Lucca? Perché la scuola di scrittura “Sagarana” ha recentemente trasferito a Pistoia le sue attività?
Io amo Lucca, la città natale di mio figlio Lorenzo. Sono uno scrittore lucchese ormai da un decennio. Tutti i miei libri del periodo “italiano” descrivono Lucca, la città e la sua gente. Nel romanzo “madrelingua” c’è un omaggio al nostro fiume, il Serchio, che è il mio fiume – come lo è stato di Ungaretti – che va avanti per dieci pagine. Nel libro “Il percorso dell’idea” chiamo le mura di Lucca “la mia mandala di pietra”, e più avanti “la placenta di mattoni rossi, che nutre, riscalda, protegge e prepara la nascita definitiva”.
Ecco, fors’è arrivato il momento del parto? L’inaugurazione di una filiale della Sagarana a Pistoia, la pubblicazione dei miei nuovi libri da una casa editrice pugliese, la Besa, tutto questo è parte di un’apertura verso l’esterno, verso il “Lucca fora”. Ma è vero anche che nel caso di Pistoia la città ha offerto a Sagarana un appoggio e un’adesione entusiasta come non trovo a Lucca sin dagli anni ’90, quando abbiamo realizzato qui l’evento precursore dei festival letterari italiani, lo “Scrivere oltre le mura”, a Villa Bottini e nelle casermette sulle mura, il cui ricordo è ancora ben vivo nella memoria dei lucchesi.
Forse sarà questa l’occasione per riallacciare il mio vecchio legame stretto con la città, e realizzare nuovamente cose importanti qui? Non lo so. Spero di sì. Ho fatto la mia parte e continuo a farla, è ora che anche Lucca faccia la sua, riconoscendo Sagarana come una sua indispensabile e valorosa risorsa culturale.