Interviste Supplementi

Intervista 35. Rosanna Morace

UN COLLOQUIO CON JULIO MONTEIRO MARTINS
di ROSANNA MORACE, in «Un mare così ampio». I ‘racconti in romanzo’ di Julio Monteiro Martins, Lucca, Libertà edizioni, 2011.

Mi piacerebbe cominciare questa nostra conversazione cercando di mettere a fuoco le ragioni per le quali sei andato via dal Brasile. Era il 1994 e il Brasile era tornato ad essere una Repubblica democratica da oramai dieci anni, dopo un ventennio di dittatura militare. E, oltretutto, era appena stato attuato il “Plano real”… 

La questione del mio esilio in Europa è una questione complessa anche per me stesso, e solo a poco a poco, dopo quasi vent’anni dalla mia partenza, comincio a capire l’orchestrazione dei fattori che mi hanno condotto alla intuitiva consapevolezza che un ciclo della mia esistenza si era esaurito e che non restava altro che andarmene. Nel 1994, l’anno del mio trasferimento a Lisbona – l’anno successivo mi trasferirò definitivamente in Italia – guardavo intorno a me, ormai isolato a Niterói, e vedevo soltanto rovine, silenzio sepolcrale, disinteresse, oblio e mancanza dei mezzi indispensabili alla sopravvivenza. Prospettive future nulle. Una terra devastata, come nella poesia di T. S. Eliot che ho riletto allora.

Quel nuovo Brasile, che si preannunciava già nel successo del Plano Real che hai menzionato, non sarebbe stato per me, era un paese per altri. Ero escluso da quell’eredità, anche se avevo collaborato alla sua costruzione. Una canzone di quel periodo, di Cazuza, diceva: “La mia piscina è piena di topi / e i miei nemici ora sono al potere”. Il ritorno della democrazia in Brasile, dieci anni prima del mio esilio – democrazia per la quale abbiamo lottato e rischiato la pelle – al posto di cambiare il sistema ingiusto e pedissequamente filo-americano del periodo dei militari, l’ha confermato e addirittura peggiorato con l’ondata neo-liberale e le privatizzazioni corrotte del patrimonio pubblico. Le ingiustizie si sono aggravate, il paese aveva preso una piega storica opposta a quella che ci aspettavamo, e la mia generazione è stata fregata, travolta da una sensibilità consumistica yuppie che ha trasformato una società di classi in una ancor più squallida società di caste. Era come vivere in un Belgio murato all’interno di un Bangladesh. Eravamo delusi e disperati. Anche perché quei valori, moltiplicati dai media, erano diventati virali e infettavano tutto e tutti, un po’ come succede oggi con il berlusconismo in Italia. Persino tra molti intellettuali e artisti della vecchia sinistra si è fatta strada una sorta di tentazione nepotista, di oligarchia chiusa, così che solo i loro figli e i figli degli amici, scarsi o mediocri che fossero, potevano aspirare alla visibilità pubblica. Nella lingua portoghese per il concetto di “patrizio” si usa la vecchia parola “fidalgo”, che è la contrazione dell’espressione “filho de algo”, “figlio di qualcuno”. Questi privilegi erano diventati moneta corrente nella sinistra culturale brasiliana di allora e lo sono tuttora. E quello che mi destava orrore era il fatto che il merito e il talento non contassero più niente nella nuova società. I nuovi padroni della cultura imitavano il sistema successorio violento dei vecchi fazendeiros nei latifondi dell’entroterra.

Perciò, nei primi anni Novanta, ho capito finalmente, senza più illusioni, che il Brasile democratico non aveva niente da offrirmi, che non sarebbe stato per me il “paradiso promesso”. Per uno scrittore con le mie caratteristiche, sarebbe stato invece ancora più ostile e annientante di quello del periodo dittatoriale. Così, me ne sono andato altrove, con grande sollievo e con nuove speranze. Avevo esattamente 40 anni, e immaginavo – un po’ troppo ottimisticamente – che ero alla metà della mia esistenza, quindi nel momento perfetto per un cambiamento radicale.

«La vita comincia a quarant’anni»… Tu, però, parli del tuo allontanamento dal Brasile come di un

 “suicidio amministrato”.  Cosa intendi?

Un essere umano non è solo la sua massa biologica visibile, ma anche, e soprattutto, una gigantesca identità immateriale e invisibile, composta dalla storia dell’inserzione di quell’identità nel corpo sociale, e dalla rete di rapporti tessuta nel quotidiano dalle identità che lo formano e lo fanno operare, che lo fertilizzano. Ecco, rompere violentemente quella rete di rapporti, rinunciare ai vecchi ruoli, scomparire dal paesaggio sociale per sempre – Fernando Pessoa diceva che “morire era non essere più visto” – può accadere sia attraverso la morte fisica, sia attraverso l’emigrazione o l’esilio. Nel primo caso, rimane solo la “memoria”: spesso tristi narrazioni manipolate dal sistema. Nel secondo caso invece il “suicidio”, la morte voluta, desiderata dal “morto”, è soltanto illusoria e apparente perché lui è vivo per rinascere altrove. Sarà lui il padrone della propria “scomparsa”, il maestro della propria morte, la gestirà lui, nei suoi ritmi, selettivamente. Alla fine avrà cancellato l’identità marcia e sterile per poter riscrivere se stesso in altri continenti, reinventandosi un’identità. Il lutto per se stesso c’è, e a volte può essere anche pesante, ma non di rado diventa come quello del protagonista del magnifico romanzo di Machado de Assis  “Quincas Borba”. Lì sin dalla prima pagina l’anima del protagonista, già disincarnata, guarda dall’alto il mondo che gli è sopravvissuto, la vita dei parenti, delle sue donne, e si diverte tantissimo con quello che vede. Scrive un’autobiografia dall’oltretomba, un po’ come faccio io nei miei romanzi italiani.

Dopo il “suicidio amministrato”, uno finalmente può “riposare in pace” dalla vecchia vita, la può rivisitare da una prospettiva inedita e molto istruttiva, e allo stesso tempo può godersi le avventure e le disavventure della vita nuova.

Ma, oltre alle ragioni politico-ideologiche, ve ne sono state anche di più intime e personali?

Come dicevo all’inizio di questo dialogo, il flusso delle motivazioni che si sono mescolate e coagulate intorno al mio esilio è molto complesso e variegato. Qualche motivazione profonda mi ci sono voluti anni per scoprirle. Per esempio, ho sempre avuto con mia madre e con mia nonna un rapporto intenso, di simbiosi. Quando entrambe sono morte, negli anni ’80, sono rimasto interamente solo in quell’immenso appartamento di Icaraí, che era diventato una sorta di mausoleo. Ero stato seppellito lì, insieme a loro, e ogni giorno dovevo riprovare quel lutto e quel vuoto irrimediabile. Mi sorprendevo spesso a cercarle istintivamente con lo sguardo tra le stanze, e non le trovavo mai dove dovevano essere, dove sono sempre state. Così, dopo l’esilio, pensando a loro non da dentro il sarcofago comune, ma da un’enorme distanza, con un intero oceano di mezzo, il mio sguardo si rasserenava e non le cercava più. Il mio inconscio era ingannato dal distacco ed era convinto che loro erano vive e stavano bene, anzi sempre più giovani, ad aspettarmi lì, nella nostra casa. E allora il lutto cessava, si trasformava nella sottile e innocua nostalgia dei viaggiatori.

Com’è Niterói?

Niterói è una città strana. Si affaccia sulla stessa baia di Rio de Janeiro, Guanabara, ma non è propriamente una città periferica, ha una sua tradizione culturale e una vita autonoma. Era l’antica capitale dello stato di Rio, e ha un centro storico con palazzi ottocenteschi, circondato da quartieri modernissimi, anche avveniristici, come Icaraí, dove sono nato. Nel periodo della mia infanzia aveva 50 mila abitanti, oggi ne ha più di mezzo milione. È diventata irriconoscibile, come se fosse scomparsa, inghiottita nel suo processo di sviluppo, trasformata in qualcos’altro che non conosco né capisco, una metropoli straniera. Oggi somiglia molto alle grandi città costiere della Florida, come Miami Beach o Fort Lauderdale.

In passato ha dato molti contributi alla storia culturale di Rio. Niterói è una città di grandi scrittori, come Antonio Callado, Geir Campos, José Cândido, Oliveira Vianna e Casemiro de Abreu, di grandi ballerine e di grandi chirurghi estetici, centro mondiale di eccellenza in quest’area. E poi lì, insieme a Rio, è nata la Bossa Nova negli anni ’50 e ’60. I musicisti di Niterói, come Sergio Mendes, Marília Medalha e i ragazzi del MPB4 si riunivano a quelli di Rio, Lucio Alves, João Gilberto o Tom Jobim, e cantavano insieme fino alle ore piccole in un bistrot di fronte al mare chiamato “Le Petit Paris”.

Qual è il terreno culturale in cui sei vissuto? E la letteratura com’è entrata nella tua vita?

Vengo dal paese degli eroi: il ceto medio. Scherzo, ovviamente. Però è vero quello che diceva Gramsci, che l’intellettuale è l’unico eroe possibile del ceto medio. Ma nemmeno quest’origine potrei allegare a mio favore: la mia non era una famiglia di intellettuali. Il mio nonno materno, la grande figura maschile monumentale della mia infanzia, era un dedicato e onestissimo funzionario dello Stato, l’equivalente in Italia a un direttore regionale dell’ufficio Entrate, e mio padre – prima un playboy sempre assente, poi sempre assente e basta – era un imprenditore nel settore edilizio e possedeva delle fabbriche di tegole e di mattoni e una dozzina di camion. Arrivava a casa tutti i giorni alle sette di sera, si sedeva al tavolo e levava da ogni tasca un grosso mazzo di banconote e di assegni ancora non depositati e cominciava a contarli. Non voleva essere disturbato mentre li contava e annotava in un taccuino i risultati della somma finché non era pronta la cena.

L’unica persona che aveva una vera vocazione intellettuale era mia madre Selma, una donna molto bella, di forte carattere, professoressa di letteratura nordamericana all’Università. È stato con lei che ho imparato ad amare la letteratura. Perché lei l’amava non solo intellettualmente, ma con tutto il suo cuore: i libri degli autori che insegnava, Melville, Frost, Steinbeck o Dos Passos, erano il suo vero territorio esistenziale, l’unico in cui provava qualcosa di vicino alla felicità, alla pienezza. E con lei ho imparato anche ad essere felice in una lingua straniera, ad usarla come universo alternativo protetto, al riparo dalle pressioni e dalla grettezza del quotidiano. A volte lei studiava i suoi autori leggendoli a me, a voce alta, e così, piccolino, al posto delle favole per bambini ascoltavo meravigliato – ma senza capire niente, o quasi – The Scarlet Letter, A Streetcar Named Desire o le poesie di Emily Dickinson.

Flannery O’Connor, in risposta a una domanda se per diventare uno scrittore uno doveva ricorrere a grandi imprese, ad avventure o correre grandi rischi – erano gli anni del mito di Hemingway – disse: “Chi è riuscito a sopravvivere all’infanzia, può fare qualsiasi cosa nella vita”. Ecco, aggiungerei, può anche diventare uno scrittore come lei o come me. Bisogna prima sopravvivere all’infanzia però, capire cosa è rimasto dopo tutto, vedere in cosa quell’infanzia, così eroicamente superata, si trasformerà alla fine.

Quando e perché hai cominciato a scrivere? E a pubblicare?

Ho avuto la fortuna di cominciare a pubblicare – e già allora da una casa editrice grande, l’Ática, di São Paulo – non appena ho cominciato a scrivere “seriamente”. Il mio primo libro, Torpalium, è uscito quando avevo 21 anni, e già nei due anni precedenti diversi racconti miei, e anche poesie, erano stati pubblicati in miscellanee di successo, compresa quella Histórias De Um Novo Tempo, pubblicata da «O Pasquim», il grande giornale di opposizione di allora – correva l’anno 1976 – che aveva venduto più di 30 mila copie nelle edicole e nelle librerie. Quindi il mio esordio è stato veramente esplosivo. Ma guardando la cosa retrospettivamente non saprei dire quanto questo fatto sia stato positivo, perché era una realtà fuorviante, mi ha dato della vita dello scrittore un’idea falsa, l’illusione che ci fosse una comunione tra me e i miei lettori, cosa che in verità non c’è mai stata. Quel “boom” dei miei libri era più di tutto il frutto di una campagna di marketing ben orchestrata dalle case editrici di sinistra che godevano del massimo prestigio tra i giovani di allora. Un’illusione che si è poi mostrata ben amara, ma che per fortuna o per disgrazia non si è più ripetuta. Così, è bastato che i media eleggessero altri autori “alla moda” – nel caso gli ex-guerriglieri appena tornati in patria che pubblicavano le loro autobiografie romanzate – perché la bolla di “successo” si sgonfiasse fino a scomparire, al punto che le case editrici non s’interessavano più nemmeno di dare un’occhiatina ai nostri originali. Quest’ostracismo, incredibilmente, dura fino ad oggi, quasi mezzo secolo dopo “l’editto bulgaro”, e lascia marcire nel limbo dei cassetti e degli hard-disk le opere di autori straordinari come Antônio Barreto, Silvio Fiorani e Domingos Pellegrini, gli stessi che negli anni ’70 la stampa brasiliana aveva sopranominato “i topi pelosi” per la loro capacità di sopravvivere in condizioni molto avverse.

Ironicamente, non sapevamo allora di non essere capaci di sopravvivere all’oblio. Nel mio caso, per non soccombere, ho commesso il “suicidio amministrato” di cui parlavamo, e sono rinato scrittore in Europa. Ma, e gli altri? Sono ancora lì, che invernano, che aspettano… L’ambiente letterario, lì come qui, dovrebbe essere più realistico riguardo alle scadenze biologiche, e capire che 60 o 80 anni è un tempo di attesa eccessivo, rischia di non trovare più l’interlocutore in vita, perdendo così anche la possibilità di un confronto, un dialogo, una voce importante.

Cosa ha significato per te cambiare paese, lingua, vita? E il tuo immaginario si è modificato?

Questa domanda arriva al cuore e al mistero stesso della letteratura dalla migrazione, o per non cedere alle etichette collettive tutto sommato vuote di senso, degli scrittori che scrivono da un altrove rispetto al loro paese di nascita e alla loro madrelingua. Quanto pesa il trauma e la rottura dell’atto dell’esilio, e quanto pesano invece le loro vecchie ossessioni letterarie? Qual è la misura della trasformazione e quale quella della permanenza? Vedo che solitamente si è più attenti alla dimensione della rottura, forse a causa dell’insolito della migrazione, del suo carattere straordinario, anche se oggigiorno è sempre meno straordinario, e comincia a fare parte della definizione moderna di umanità. Quando si pensa agli scrittori “migranti” prima della loro migrazione, sembra che si parli di bruchi in attesa della miracolosa metamorfosi che li farà diventare belle farfalle. È chiaro che non è così. Gli scrittori in questa condizione sospesa scrivono in una sorta di dormiveglia, in una terra di nessuno. La percezione “miracolosa” è frutto della mistificazione della grande “rottura” col passato, con la lingua madre, un fenomeno che desta meraviglia, che tocca da vicino tutti come fatto ma anche come metafora, un “miracolo” che quando non si attua nella vita reale di ciascuno lo fa almeno nei suoi orizzonti esistenziali immaginari. Nonostante ciò, per quelli che scrivevano prima di trasferirsi altrove, come nel mio caso e di tanti altri, tutte le caratteristiche importanti, originali, fondatrici delle loro opere precedevano la loro migrazione. Anzi, direi che qualcuno ha emigrato proprio per cercare di trovare il terreno ideale, o almeno non ostile, per esprimere quella sua soggettività che gli premeva per uscire e si trovava bloccata dalle circostanze culturali, editoriali, familiari. Il paese della rinascita è in verità il luogo dove il potenziale si svela, ed è l’antico represso e non il nuovo quello che dovrà materializzarsi in letteratura. Nel mio caso specifico, le mie tematiche di sempre sono maturate in Europa e si sono espresse in lingua italiana in un modo più profondo, più efficace e superiore a quello di prima, le tematiche del potere, della morte, dell’inesistenza del tempo, dell’incomunicabilità, dei sentimenti estremi che si aggravano nell’inconscio, così come i miei esperimenti formali, stilistici e metaletterari. La nuova lingua, con lo sguardo vergine dei nuovi lettori, mi è servita come un affrancamento dalle inibizioni, come un vero “lasciapassare” per lo sviluppo dell’opera nella fase più matura della vita.

Dunque tu non senti delle differenze tra il tuo modo di fare letteratura in Brasile e in Italia?

Le differenze ci sono, ma meno importanti di quanto si possa supporre, perché nel mio lavoro la continuità prevale sulla rottura. E questo anche dopo aver cambiato paese e lingua. Credo che il fattore “tempo” sia quello più determinante, nel senso del mio processo di maturazione ma anche nel senso del periodo storico in cui ho cominciato a scrivere: una dittatura imposta nel contesto della Guerra fredda, insieme alle prime delusioni del progetto libertario degli anni ’60, tutto questo mentre si diffondeva il “boom” letterario ispanoamericano. Già oggi, nel secondo decennio del Duemila, il mondo è ben diverso, l’“ethos” imperante è un altro, i problemi sono altri, o si presentano diversamente e la letteratura vive una crisi in preda alla banalità e agli stereotipi, e sembra aver rinunciato alla sua missione umanistica per mettersi al servizio di una fantomatica “industria dell’intrattenimento” che dovrebbe essere invece la sua più acerrima nemica.

Che senso ha, allora, per te la parola «migrante»? E tu, ti senti ancora migrante?

Un senso molto vasto: “migrante” è la condizione esistenziale necessaria dell’uomo contemporaneo. Siamo tutti migranti, quelli che cambiano migrano in avanti, mentre migrano a ritroso quelli che si illudono di essere riusciti a non migrare, a rimanere fermi mentre ogni cosa si spostava, pietrificati quando in verità si sbriciolavano, preoccupati di aggrapparsi a origini e radici che gli sfumavano tra le dita. L’ha capito benissimo Karl Marx già nell’Ottocento, intravedendo un nuovo tempo nel quale “tutto che è solido si scioglie nell’aria”. Ero migrante prima di emigrare, ero migrante già quando la mia anima libera era spiazzata nel paese straniero della dittatura (dove tutti sono stranieri, e tanti sono stranieri e nemici), sono migrante oggi in un tempo che non mi riconosco, e che forse non ha più gli strumenti per capire i miei valori, le mie priorità, i miei gusti ormai incomprensibili. Un uomo migra quando da uomo diventa a poco a poco sfinge, quando il suo discorso diventa un enigma, un codice disperso. Ogni letteratura che non è complice, che non “collabora”, è migrante. Qualcuno, venuto da un altro paese, da un’altra lingua, magari mostra i sintomi sulla propria pelle, ma il virus è diffuso dappertutto. La “migrazione” è la vera epidemia del nostro tempo. Non è possibile non essere migrante oggi, come non era possibile non amare l’Enciclopedia nel tardo Settecento, non essere romantici nell’Ottocento o avanguardisti nel primo Novecento.

Ma se la migrazione è l’‘epidemia’ della nostra epoca, come credi che la letteratura, oggi, possa darle voce? Le tue opere, pur muovendosi al bivio tra romanzo e racconto e sperimentando la commistione dei generi, sono decisamente tese verso il racconto: per una tua intima propensione, o perché ti sembra la forma narrativa più adatta a rappresentare la post-modernità?

Tutte e due le cose. Il racconto è il genere narrativo più congeniale alla odierna sensibilità generale, e alla mia in particolare, di scrittore ma anche di lettore. Il dominio di una soggettività frammentaria, in perenne tensione tra libero pensiero e manipolazione, fa sì che essa si possa rispecchiare soltanto nel modo di narrare frammentario dei racconti, piuttosto che in quello artificiosamente integro e coerente del romanzo tradizionale, di stampo ottocentesco. Anche perché noi, uomini di questo nuovo secolo, non abbiamo una storia, ma solo storie. Proprio come nei racconti. E c’è un’altra ragione che mi ha spinto ad approfondire le tecniche del racconto breve: noi latino-americani – ed io non sfuggo alla regola – consideriamo il racconto breve l’apice della scrittura narrativa, la sua massima sfida. Il racconto è allo stesso tempo sintesi e parabola. Non ammette la “flaccidezza”, la retorica autocompiacente e il “grasso diegetico” presenti nei romanzi di oggi, con rare eccezioni. Il racconto invece è teso, tondo, fulminante e tentato dalla perfezione. Dico sempre che lo scrittore di racconti è un romanziere posseduto da un poeta.

Non si può certo dire che in Italia il racconto goda della medesima considerazione e fortuna…

L’Italia è tradizionalmente refrattaria al racconto (sempre meno, però, e il successo di Sagarana lo dimostra). La ragione di fondo, secondo me, va oltre le questioni strettamente letterarie e risiede probabilmente in una inclinazione storica dell’Italia al conservatorismo culturale. Così come l’Italia non ha mai avuto una vera rivoluzione sociale e rimane velatamente elitaria e aristocratica, anche il genere romanzo, di stampo manzoniano, resiste nell’inconscio italiano come parametro letterario ideale, e il racconto, secondo questa visione retrograda, sarebbe una sorta di “cugino povero” del romanzo, oppure una sua manifestazione sottosviluppata, o magari un “assaggio” in miniatura, o un abbozzo, o un esercizio preparatorio. Al genere racconto non è concessa la dignità di grande arte che da molto tempo gli è riconosciuta altrove per la stessa ragione per cui l’Italia è ferma e bloccata nel cambiamento, quasi immobile. Ma c’è una guerra silenziosa – e a volte anche rumorosa – tra il vecchio e il nuovo, e questa è la vera guerra civile italiana, una guerra polverizzata, sorda, onnipresente, che finirà con la vittoria del nuovo, come inevitabilmente accade sempre. Ma non prima di feroci battaglie, anche in campo artistico, senza risparmio di colpi.

Pensi che, anche se lentamente, in Italia la lingua si stia trasformando a contatto con la nuova realtà ed i cambiamenti sociali, antropologici,  artistici?

Lo sta già facendo. È un processo sottile e sotterraneo. Il mondo e le lingue del mondo sono in sintonia e in simbiosi. Il mondo si trasforma e le lingue seguono passo a  passo queste trasformazioni. A volte può darsi che una lingua rimanga ferma, pigra, magari come una forma di resistenza contro l’affermazione dei nuovi concetti che dovrebbe rappresentare, e di conseguenza si scontrerà con realtà insolite che si sono evolute al di fuori dei suoi confini, per più avanti entrare in crisi e trasformarsi, ritrovando alla fine la sintonia e diventando nuovamente comprensibili e traducibili.

L’avvento della cosiddetta “letteratura migrante” in Italia negli anni ’90 del Novecento ha prodotto questo effetto, questo straniamento iniziale, il rifiuto di quell’Italiano che non sembrava affatto italiano, e men che meno Italiano Letterario. Qualcuno l’ha chiamato allora, sdegnato, “pig Italian”. Passato lo shock, questa letteratura, che non è mai stata in soggezione alla pesante “tradizione letteraria italiana”, che non si è mai lasciata intimidire né inibire, si è affermata ed è entrata nella mainstream, o meglio ha creato una sua propria stream parallela al flusso principale del fiume, che sembra però una stream più mondiale che italiana. Il suo arrivo, così, da dove meno ci si potrebbe aspettare, è stato uno spavento, perché essa non rappresentava soltanto una novità culturale ma, si è capito col tempo, anche una trasformazione antropologica.

Ora le acque sembrano calmarsi e si può sperare in un periodo futuro di più attenzione reciproca, con maggior qualità, con più rispetto, più curiosità, più conoscenza vera e meno preconcetti e stereotipi cattivisti o buonisti che siano. E forse potremo dire finalmente: “Benvenuta nel nuovo secolo, cara Italia. Lo so, è tutto ben diverso da quello che volevi o immaginavi, ma vedrai che alla fine piacerà anche a te!”.

Perché fare letteratura oggi?

Vedi, nel mio periodo di vita, che non è nemmeno lunghissimo, ho osservato il progredire di uno spegnimento, sottile ma innegabile, dei valori prevalenti nella mia gioventù, ma non solo, anche delle conoscenze di allora. Questo impoverimento è stato offuscato dai ritmi storici frenetici e dal luccicante consumismo degli anni ’80 e ’90. Così, una preziosa ricerca collettiva di sapere profondo sull’uomo è stata rallentata e in certi casi interrotta alla fine del Ventesimo secolo. Per esempio, durante la mia gioventù i meccanismi dell’inconscio erano diffusi nella cultura media, nozioni di psicanalisi come i concetti di archetipo, di atto mancato, di complesso di Edipo erano moneta corrente, così come le interpretazioni dei sogni quali rappresentazioni simboliche di strati più profondi dell’essere. Oggi, costernato, verifico che queste nozioni sono praticamente scomparse dall’orizzonte di conoscenze dei giovani, o sono persino regredite ai cliché mistici e superficiali precedenti alla nascita della psicanalisi nell’Ottocento. Lo stesso oscurantismo dilagante si può trovare nella filosofia e nelle riflessioni sul senso possibile dell’esistenza e della sua fine, oppure nella comprensione dei meccanismi politici e economici che operano alle trasformazioni del capitalismo e che se svelati tanto potrebbero aiutarci a capire per esempio il fenomeno migratorio attuale.

Mi guardo intorno e mi trovo in un mondo diverso, che sembra più ricco e sfavillante, ma che invece è molto più povero, ridotto all’egemonia dei cliché, al pensiero unico modellato dai media e dalla pubblicità, che diventa un’inedita forma di autocensura dell’immaginazione. Siamo assorditi da un traffico incessante di informazioni inutili, come le trivialità e i pettegolezzi.

Siamo distanti ormai quasi tre generazioni dall’ultima ondata di intelligenza collettiva, un distacco pericoloso. Se non ci sarà in breve una reversione di questa tendenza, se non sarà ripristinato il pensiero critico e la fantasia utopica, fra poco non resterà nemmeno la loro memoria da tramandare alle future generazioni, e rischia che l’oscurantismo si consolidi poi per secoli senza alcun dissenso.

Ma la letteratura è in grado di sfatare questo rischio, operando come antidoto ai luoghi comuni e alla propaganda mascherata da intrattenimento e riproponendo la complessità e l’ambiguità, riaprendo prospettive sorprendenti, aggiungendo all’immaginario voli e immersioni ardite e appassionanti. L’arte letteraria è rimasta la sola a potere svolgere questo compito immenso di redenzione e di ricostruzione; gli altri discorsi hanno ormai perso ogni efficacia, si sono adattati al vuoto dei tempi, nutrito dal cinismo e dall’infantilizzazione forzata di tutti. Anche la letteratura ha sofferto gli effetti di questa banalizzazione, ma una sua parte importante ancora resiste e cresce nelle lacune lasciate dalle altre sfere di pensiero.

Ma sarà sufficiente? Penso di sì. La letteratura può sembrare oggi una piccola particella, quasi irrilevante, quasi impercettibile, ma è una particella dotata di una potentissima energia, che dal punto marginale dov’è riesce a muovere ogni cosa, a trasformare il simbolico e a guidare le grande narrazioni. E se è vero che ci siamo tutti ammalati con i miasmi delle narrazioni insalubri, solo le nuove narrazioni avranno il potere di farci guarire.

L'autore

Rosanna Morace