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L’amore scritto – Milva Maria Capellini

Il discorso amoroso, almeno da Barthes in poi, non può essere che frammentario. Anche perché il frammento racchiude sempre, in potenza, un’intera storia; e l’amore è naturaliter narrativo proprio in quanto ha in sé, dall’origine, la qualità del frammento, in quanto contiene, insieme a un  progetto di persistenza, anche la perdita e l’abbandono, in quanto custodisce la quiete e il disordine, l’equilibrio e il suo evento perturbatore. Sembra questo il presupposto dell’ultimo libro di Julio Monteiro Martins, L’amore scritto, che offre (in tre parti: Oro, Incenso, Mirra, ossia regalità, divinità, umanità del dono amoroso) una fenomenologia dell’amore e, al tempo stesso, una meditazione sulla parola e sulla scrittura.
Può darsi che qualsiasi esperienza possa essere assimilata emblematicamente alla scrittura: ma certo l’amore è tra le più adatte, per il comune carattere esperienziale, procedurale e insieme costantemente autoriflessivo. Lo testimonia, nel volume di Monteiro Martins, Seppuku, storia di amori epistolari, transcontinentali e transculturali, che cercano codici comuni (e tuttavia non possono fare a meno del codice della parola) tra il Brasile e la Calabria, Mishima e il ballo del Pão de Açúcar. L’io-narrante vive insieme il disorientamento della lontananza, la tentazione della metaletteratura e il rischio dell’afasia: «Quando cerco di scrivere qualcosa oltre a lettere come questa, mi viene solo da scrivere sull’impossibilità di scrivere qualcosa». Non è mai semplice il nesso tra scrittura e vita: e se da un lato «una vita non è un intreccio, e ciò che è vero ha buone possibilità di non essere verosimile» (L’amica), dall’altro talvolta «le parole non sono all’altezza del miracolo» (Sulla battigia).
Certo la frequenza del tema della creazione artistica, in questi racconti d’amore (si leggano per sincerarsene Mar dei Sargassi, o Pomeriggio a casa, il testo strutturalmente più complesso della raccolta), non sorprende: amore e creatività sono due parallele celebrazioni della fecondità e due affermazioni del senso intrinseco del reale. Il titolo del libro significa già la connessione di due ambiti: l’amore scritto, la scrittura amorosa. Colui che scrive, come colui che ama, cerca un significato nuovo, che abbia attraversato il disordine e sia sopravvissuto: «C’è un nuovo abisso, fatto di discorsi, tra il mondo e il poeta. Il mondo è caos che si vuole intreccio, è libera associazione di idee che si spaccia per strategia. Il mondo è spinto dal caso. Il poeta è mosso dalla volontà. Sono incompatibili, ma si sono ingarbugliati l’uno nell’altro. Al poeta di fronte al mondo resta il richiamo dell’ordine. L’estetica dell’impotenza di fronte al mostruoso arbitrio dei fatti» (ancora Seppuku).
Rimane, insieme alla meraviglia intatta per la creazione del linguaggio poetico («la più raffinata e complessa metamorfosi, la sintesi più straordinaria che l’essere umano sia in grado di produrre»), la difficoltà di creare in un mondo che propone una paralizzante, «spaventosa materia». Sono infatti molte e davvero spaventose le intrusioni della storia e della cronaca negli amori narrati da Monteiro Martins. In Benessere, il secondo racconto del volume (subito dopo il programmatico All’alba), si intrecciano cibi gustosi e lontani gemiti provenienti dal Novecento, «dal fondo di quel maledetto secolo, di quel lager generalizzato», sullo sfondo di un presente disgustoso: l’amore gastro-intestinale risulta sedativo, ma non abbastanza da impedire al protagonista l’«improvvisa rivelazione di un panico melmoso, ristagnato, che lasciava uno strascico di nausea». Quello narrato nell’Amore scritto è anche l’amore al tempo della paura: irrompono nelle vite quotidiane le conseguenze tragiche di una post-modernità globalizzata (Il terrorista, Pomeriggio a casa); sfumano i residui conflitti ideologici (Guerra fredda a Genova); si preannunziano scenari apocalittici in un’Europa «che brucia da un bel po’ di tempo a questa parte ormai» (Marasma a Milano); si fa più grave il peso del modello occidentale, poiché «quando non c’è più futuro, è il denaro che prende il sopravvento, e cerca di sostituirlo» (Sentimento). L’amore, d’altra parte, per natura ossimorico, contiene in sé l’avvertimento della morte. E la morte aleggia in questi racconti, non solo come esperienza storica (Il soldato; Ombra e acciaio), ma anche come intuizione dell’inconsistenza ontologica del reale: «In un decimo di secondo il distinto diventerà l’indistinto. Allora ciò che non esiste non potrà più esistere, e ciò che esiste non potrà più raccapezzarsi» (L’indistinto).
L’amore, proprio come la morte, mette a contatto con istanti di verità. L’amore dà accesso a zone oscure, ai territori dove nascono le dinamiche complicate del possesso, per cui il lutto del tradimento «può anche accendere la fiamma della passione che, come sappiamo, vive di possessione e di competizione, e può gettare una luce sinistra e magica sull’infedele» (La morte nel cuore). Così, nella quotidianità amorosa, oggetti e luoghi possono divenire correlativi oggettivi di inquietanti futuri (la cantina adibita a domestico macello, luogo di turpi operazioni in Il mattatoio), nella confidenza possono riaffiorare eventi spaventosi come il pasto della scrofa in Le galline della Vergine Maria, che allude a una bestialità pertinente non solo alle bestie e allena alla fuga dal pericolo imminente, «giacché siamo passati a chiamare pace l’attesa vigile dello spavento».
Ma l’amore, anche, recupera ai nostri tempi increduli la magia della nominazione (Il nome smarrito); celebra la festa dei sensi e degli umori, il riconoscimento del corpo amato come «casa» (Assorbire in me); garantisce agnizioni magari tardive ma non meno sconvolgenti (Liberazione); cura la solitudine dell’adolescenza, quando «Al buio, isolati da tutti, parliamo una lingua segreta, anche a noi stessi, un balbettare patetico peggio del mutismo» (L’amica). L’amore recupera il passato per via onirica e simbolica (Il richiamo), l’amore rende percepibile il tempo, che « ti gira e ti rigira così, con gli occhi bendati» (I boccoli dei cherubini) e, a un passo dal doloroso atto del rimpiangere, ti ricorda che «Dopotutto, il paesaggio qua intorno è così bello tutto l’anno, c’è ancora il sole a restituirci la vita» e, soprattutto, «c’è il potere evocativo di tutto, a riproporcela infinite volte, e sempre» (Sunshine Memories).
Nella pratica, l’amore è forse una questione, più che di contraddizioni, di asimmetrie. Spesso le storie d’amore di Monteiro Martins sono, di fatto, apparentemente asimmetriche, relazioni in cui si può fare a meno perfino della presenza dell’altro (la gravidanza della Tigre dai denti a sciabola, l’amplesso di Sulla battigia). Sono squilibri di età, di condizione sociale e di conoscenza, oppure di provenienza. Ma il dato profondo è che «L’amore vero sconvolge tutto, fa incazzare tutti. La gente accetta di vedere al cinema un’imitazione dell’amore piena di cliché, ma quando lo vedono dal vivo, nella vita reale, diventa qualcosa di insopportabile» (Rémy e Virginia). L’amore è scandaloso, trasgressivo, sovversivo. Non consolatorio, semmai salvifico, come nel bellissimo Antenne, asciutta allegoria della vita che scivola inesorabilmente verso il vuoto ma lascia i propri semi amorosi contro la morte. È la vita il vero grande amore, è il mondo, a cui il racconto finale – Uno spettacolo immenso – dedica un’ode struggente in limine mortis: «Oh, mondo, spettacolo immenso. Gli sguardi più belli se ne vanno mentre altri ancor più belli si presentano. Dove ti porteranno, mondo mio, in quale nulla? E poi, come farai senza di me? Chi ti guarderà come ti ho guardato io?».

L'autore

Milva Maria Capellini