L’autore, di origine brasiliana, insegna portoghese all’università di Pisa, e ha scelto come città d’adozione Lucca, dove ha fondato una scuola di scrittura creativa: Sagarana e una rivista web, che porta lo stesso nome della scuola.
In Italia ha già all’attivo due libri di racconti: “Racconti italiani”, del 2000 e “La passione del vuoto”, del 2003.
“madrelingua” (“proprio così, con la ‘m’ minuscola”) è il suo primo romanzo in italiano. Avverte con una bella introduzione che si tratta di scrivere un romanzo incompiuto: “Un libro che descrive la mutilazione di un altro libro”. Avremo personaggi che compaiono e spariscono, situazioni che rimangono sospese, frammistioni tra i personaggi e l’autore stesso.
Mané, il primo che incontriamo, compie sessant’anni. Ha un’amante che si fa chiamare K43 e chiama lui Y87, la quale torna a riprendersi il suo nome solo nel momento in cui lascia l’appartamento di lui per tornare a casa.
È quella l’occasione, per Mané, di guardarsi intorno. Non gli piace il conformismo che rode e consuma il nostro Paese. Il governo Berlusconi (“Lui”) è riuscito a diffondere una sonnolenza, un’apatia tra i cittadini, i quali una volta che hanno votato, si disinteressano e lasciano fare. Anche l’amico Salvo la pensa come lui e si scambiano le loro opinioni. Se potessero, entrambi lascerebbero l’Italia. Come già sappiamo dall’introduzione, l’autore si inserisce spesso con propri brevi commenti finalizzati a ribadire il pensiero dei suoi personaggi. I capitoli sono brevissimi, piacevoli a leggersi, e tali da costituire dei veri e propri lampi che illuminano una scena, un individuo, un pensiero, un’idea.
Sembra che l’autore si sia abbandonato ad uno stato semicontemplativo e metta per scritto ciò che la mente riproduce tra presente e passato. Una tecnica resa gradevole anche dalla possibilità che l’autore si è concessa di intervenire, tra due parentesi che in realtà diventano consustanziali al testo. Entra in scena la focosa Miranda, dai capelli rossi, si accenna a Carlo Giuliani, il giovane rimasto ucciso a Genova durante i disordini in occasione del G8, poi l’autore avverte che siamo arrivati al punto in cui il romanzo ha da sgretolarsi per avviarsi su di un percorso che condurrà “il lettore in bellezza a un vicolo cieco.”
Fino a questo punto, abbiamo assistito ad una specie di conversazione spontanea del sessantenne Mané con il lettore, filtrato dagli interventi dell’autore. Mané, in ogni caso, è ancora lui, l’autore, sicché ci troviamo di fronte ad un dialogo che è anche il monologo di una identità che si frazione nei suoi multipli. È l’aspetto di gran lunga più interessante dell’opera. Un Monteiro Martins che si guarda allo specchio e si vede un po’ diverso da quanto immaginasse, e allora scherza col suo sosia, il quale gli appare più vecchio di lui, con una esperienza di vita che somiglia in tante cose alla sua, ma è trascinata più avanti nel tempo. I dialoghi-monologhi che attengono alla vita di tutti i giorni traggono una loro specificità proprio dal fatto che sono espressione di un individuo che si offre al lettore visibilmente suddiviso nelle sue molteplicità. Perfino l’amico quarantenne Salvo è un po’ l’autore stesso, quando esprime i suoi giudizi su un’Italia governata da Berlusconi. Salvo decide di lasciare tutto e di andarsene in Colombia, dove Marquez si dice tenga una scuola di scrittura, e dove vivono i fratelli e i cugini della sua amante Mercedes, che lo ospiteranno nella loro casa. Mercedes lo vorrebbe trattenere, perché è una donna a cui non basta un uomo solo e, a suo modo, ama Salvo. Ma anche perché in Colombia ha vinto le elezioni Artemio Ybarra e “il Paese è diventato un campo di battaglia.” C’è pericolo che Salvo venga ucciso nel corso dei continui disordini. Invece Mané è d’accordo con Salvo: “tu sarai meno straniero lì di quanto non lo sia di qua”, e aggiunge: “oggi è quasi impossibile non essere straniero a questo mondo. Questo mondo ci fa sentire stranieri perché ci esclude e non ci ascolta mai.” Che è il motivo che collega questo romanzo ai libri precedenti e forma con essi un corpo unico di rammarico e di denuncia: “Sì, perché non dobbiamo avere paura delle parole: va in esilio il mio amico Salvo Rizzo.” Non dimentichiamoci che è il giorno in cui Mané compie sessant’anni. Salvo, prima di partire, gli regala un dvd che contiene i film di Fellini, e allora lui ricorda quanto disse Fellini, in un’intervista, sul significato dei compleanni, e cioè che non avvertiva il passare degli anni: “mi pare di essere sempre con me stesso”. Non è un caso che sia proprio in questo momento in cui si ricorda il trascorrere e non trascorrere del tempo, che l’autore scriva: “E qua, con questo omaggio a Fellini, la nostra storia si interrompe.” Si dà la sensazione di una sparizione attraverso un salto nell’infinità del tempo. Tutti i personaggi non spariscono, non muoiono, ma vanno in quello spazio della indeterminatezza e della non conoscenza che appartiene al tempo. Questo libro si rivela l’opera più significativa di Monteiro Martins. Condotto sul filo di una leggerezza sorridente, contiene soluzioni strutturali e stilistiche di alto spessore; intuizioni che immergono il lettore in una fascinosa inconsapevolezza di sé, che lo proietta dentro un vuoto immaginifico che riguarda tanto il suo essere uomo che la realtà che lo circonda, così che egli intuisce che in quel vuoto si nasconde la sua esistenza nella parte più misteriosa e irraggiungibile, che è quella destinata alla sua immortalità. È la risposta che io, lettore, mi sento di dare all’autore quando si domanda: “Perché i miei romanzi più recenti, al contrario dei primi, mi si presentano all’immaginazione con un’architettura asimmetrica, irragionevole, ovvero con un bel vestibolo, il salotto ben arredato, un corridoio, e poi il nulla, porte che si aprono direttamente sulla strada, nell’aria, come quei palazzi palermitani mezzo distrutti dai bombardamenti americani degli anni ’40, che ancora oggi espongono ai passanti l’intimità delle loro stanze da letto con le carte da parati mezze strappate, dei bagni e delle cucine, senza la parete esterna che prima li proteggeva dagli sguardi della gente per strada.” Quest’ultima immagine, delle abitazioni, ossia, squarciate dalle bombe, mi fa ricordare l’incipit di quel bel romanzo di Guglielmo Petroni: “La casa si muove”, del 1950.
La conclusione a cui arriva Monteiro Martins è, invece, ancora una volta una denuncia: egli non riesce più a trovare la capacità, la probabilità e il desiderio di scrivere un romanzo compiuto “Giacché non le trovo più nella mia stessa vita, non posso esprimerle nella mia letteratura, la quale altro non è che luce irradiata sulla vita.” L’autore ha ora preso direttamente la parola, dunque; cerca disperatamente di capire le ragioni di quei personaggi spariti tra le suggestioni del tempo, si sforza di trarli a sé con una logica che, si rende conto, è, tuttavia, inadeguata alla grandezza del loro mistero. È uno sforzo che si riproporrà emblematicamente nel Post Scriptum. Gli era già successo in passato di lasciare un’opera incompiuta, e il ricordo di quei momenti, in realtà disvela l’inizio di una avventura che forse ha raggiunto, proprio con questo romanzo, la sua definizione. L’autore, infatti, sembra incamminarsi ora verso una scelta consapevole e definitiva: “L’adozione di una scrittura rivolta alla metaletteratura e senza mentire, mi permetteva di trovare l’evasione in un genere che, allontanandomi dal dramma della vita, mi faceva immergere nella letteratura stessa.”
Il romanzo continua con due parti solo apparentemente distinte: Appendice e Post Scriptum. L’autore confessa che “Due miei amici di fiducia” gli avevano consigliato di toglierle, soprattutto Appendice. Non sono d’accordo, e l’autore ha fatto benissimo a lasciarle. Appendice approfitta di alcune parole, personaggi e così via, ma non solo, contenuti nel testo principale, per dar vita ad un altro testo che in quello si incastra per la omogeneità dei temi trattati (e che spesso sono un’espansione di esso), con la stessa leggerezza, con la stessa soffusa, discreta, intima, memoria di sé. Ciò vale anche per Post Scriptum, in cui si riprende il dialogo tra Mané e Salvo, allorché quest’ultimo si trova già in Colombia, e Mané al telefono gli dice: “Forse a questo punto dovrei andarmene anch’io.”, ma soprattutto in cui l’autore ribadisce il tentativo di recuperare a sé, traendoli da quella specie di ignoto in cui sono scomparsi, i suoi personaggi, per poter affermare sopra di essi la sua ormai manifesta multipla identità. Quando lo fa, attraverso il Post Scriptum, essi non sono più gli stessi. Salvo soprattutto si rende conto, a Bogotà, che è necessario un suo impegno, non si deve restare a guardare o fuggire addirittura; e così tutto può ricominciare da capo, anche se l’esito resterà sempre lo stesso, come su di una piattaforma circolare sospesa nel vuoto, sulla quale chiunque può salire, ma, nel momento in cui si è costretti a scendere, si interrompe la visione della nostra vita, che non si esaurisce, tuttavia, ma si trasferisce nel mistero: “Cosa mi mostra davvero la mia sfera di cristallo? Oh, Dio! Mi mostra un uomo solo come un albero della savana. Solo fino alla vertigine. Davanti a lui c’è poco tempo, e io non riesco a scorgere la sua donna, né le montagne innevate, né il prato verde della villa toscana. Non riesco a vedere nient’altro che lui, fermo con le braccia aperte, un uomo vecchio con le braccia aperte, pronto ad accogliere l’etere, ad abbracciare il nulla.”
In Appendice, l’autore ricorda anche il fiume dei Lucchesi, il Serchio, diventato anche il suo fiume: “Il Serchio per me è un amico intimo, un vero compagno in questo mio soave esilio”. Sulle sue rive, seduto “su una seggiolina pieghevole che tengo sempre nel baule della macchina” “scrivo le mie cose (gran parte di questo stesso libro è stato scritto lì)”.
Vorrei aggiungere che Appendice e Post Scriptum, per come sono stati strutturati e per i loro contenuti, sono parte non indifferente di quell’originalità creativa che fa di questo libro un ragguardevole e stimolante punto di partenza, non solo per l’autore.