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madrelingua – Rosanna Morace

madrelingua («proprio così, con la “m” minuscola») è stato definito un «antiromanzo», «un metaromanzo», «un attacco premeditato» al genere: esso narra, infatti, la crisi, la frattura interna, la non più possibile organicità del romanzo. E l’autore mette subito le mani avanti:
La storia del romanzo, così com’è stata raccontata finora, è la storia dei romanzi finiti, ossia la storia delle opere che sono giunte alla compiutezza e alla conclusione desiderata dai loro autori. È quindi una storia parziale, che esclude e ignora quei più di due terzi di romanzi scritti e mai conclusi, abbandonati a metà strada, ingarbugliati su se stessi […], di sbilenca architettura. (p. 11)
Giustamente Raffaele Taddeo ha posto in parallelo madrelingua sia con Sei personaggi in cerca d’autore, di Pirandello, sia con Se una notte d’inverno un viaggiatore, di Calvino, mettendone però in luce tutta la peculiarità (la recensione è consultabile in questo supplemento). E, infatti, quel che in Cavino è gioco combinatorio, in Julio Monteiro Martins diventa metaromanzo, e una dichiarazione di poetica che abbraccia ragioni più profonde:

Potrei chiedere a me stesso, a questo punto, perché oramai da molti anni non riesco più a finire in modo convenzionale i miei romanzi. Ma sarebbe una domanda fuorviante. La domanda giusta invece dovrebbe essere: perché i miei romanzi più recenti, al contrario dei primi, mi si presentano all’immaginazione con un’architettura asimmetrica, irragionevole […] come quei palazzi palermitani mezzo distrutti dai bombardamenti americani degli anni ’40, che ancora oggi espongono ai passanti l’intimità delle loro stanze da letto con le carte da parati mezze strappate, dei bagni e delle cucine, senza la parete esterna che prima li proteggeva dagli sguardi della gente per strada? Appunto perché c’è stato un bombardamento, anche nel mio caso.
Cosa sono state le “bombe”? Il disagio crescente di fronte a una proposta narrativa “organizzata” che non mi lasciava spazio per quello che dovevo fare, che non poteva in nessun modo corrispondere a quello che la vita tutti i giorni mi presentava […]. Giacché non le trovo più nella mia vita stessa [inizio, sviluppo e fine; compiutezza e generale coerenza] non posso esprimerle nella mia letteratura, la quale altro non è che luce irradiata sulla vita. (pp. 58-59)

La meditazione su questi principi accompagna Monteiro Martins già dagli anni brasiliani, tanto che nel 1987 pubblica O espaço imaginário, ponendo i medesimi densi interrogativi aperti che, però, in madrelingua si risolvono in un’affermazione gravida di conseguenze per il futuro: «non è più possibile scrivere un romanzo, e non è più possibile non scriverlo»: dovrà mutare forma, allora.
La forma di questo esperimento metaletterario è appunto sbilenca, con un narratore-personaggio (Mané, brasiliano ma trasferitosi in Italia nel periodo craxiano) cui continuamente fa da contraltare il narratore esterno metaletterario, che tra parentesi quadre si prende gioco del narratore Mané, dei personaggi, degli scherzi che l’inconscio gioca loro e delle finzioni letterarie, denunciandone i comportamenti paradossali, la natura fantastica, immaginativa, la loro «realtà di carta e inchiostro» (p. 62) − che sembra rimandare al «buco nel cielo di carta» di pirandelliana memoria. E allora mentre Mané narra, il secondo commenta che la passeggiata descritta è stata ricavata da una cartina di Firenze che l’amica Mia gli ha prestato; o che l’immagine di Pocahontas e del genio della lampada di Aladino gli derivano dai cartoni visti la sera prima insieme al figlio, l’allora piccolo Lorenzo. La vita reale dell’uomo Julio Monteiro Martins entra così nella letteratura:
madrelingua è quindi narrativa metaletteraria sulla crisi del romanzo, «è storia letteraria ‘a caldo’, come certi reportage di guerra» (p. 14); ma è anche narrativa impegnata, rivendicazione coraggiosa del ruolo dell’intellettuale oggi, che ha il dovere di commentare il presente. E l’antiromanzo è allora, anche, storia a caldo della nostra Italia del berlusconismo, con nomi, cognomi e continui riferimenti a «Lui» (quest’«“esca” per l’inconscio collettivo degli italiani […] che finirà per definire questo scorcio della storia del paese» (p. 27) –. È intervento sul presente, che vuole dichiaratamente mettere a fuoco la banalità e la pochezza in cui lentamente il «pensiero unico» ci fa immergere.
Per sfuggire a tutto ciò, Salvo deciderà di andare in esilio in Colombia: «Sì, perché non dobbiamo avere paura delle parole: va in esilio il mio amico Salvo Rizzo» (p. 57). La sua scelta è infatti coatta, obbligata dalle condizioni italiane, come è stata imposta dalle condizioni brasiliane la necessità della migrazione per Julio Monteiro Martins: che, non a caso, la chiama il suo «suicidio amministrato». L’amletico dubbio, infatti, era se uccidere se stesso, il proprio pensiero e i propri ideali per rimanere in un paese in cui si sentiva straniero; oppure rinnegare la madrelingua e la madrepatria per salvare se stesso, spostandosi alla ricerca di un nuovo territorio adottivo che gli appartenesse realmente, seppure con la m minuscola.
madrelingua è, quindi, un testo che non ha paura di sperimentare, di porre domande, di dire e denunciare; e che si interroga invece con coraggio sulla travagliata morfologia dell’opera d’arte, della nostra «vita liquida» e della nostra Italia:
le sue esitazioni – tutto questo andirivieni di voci narranti – sono le stesse della vita (toh… e la nostra Italia non è poi rimasta impigliata anch’essa in una grottesca morfologia? Siamo quindi anche noi emblematici dei tempi che corrono)». (p. 88)
Monteiro Martins gioca quindi con la letteratura, i narratori, personaggi, luoghi e situazioni che rimangono sempre sospese, aperte, sulla soglia dello smembramento. A pag. 40 il primo ammonimento: «[e qui comincia una sorta di sgretolamento del romanzo]», che a pag. 58 diviene una sentenza: «[E qua, con questo omaggio a Fellini, la nostra storia si interrompe. Lo sapevate già dal preambolo che prima o poi sarebbe dovuto accadere]».
E invece, tutto si svela nel Post scriptum, che è come una traccia nascosta al termine del cd: qui, il secondo narratore toglie la maschera da Mané e le parentesi quadre per annunciare di voler «tradire allegramente una mia decisione (e a che servono altrimenti le decisioni di un romanziere?)», (p. 88), raccontandoci la ‘fine’ dei personaggi grazie alla sua sfera di cristallo: breve virgola che apre verso altri periodi non scritti e non narrati.
E qui la persona Julio Monteiro Martins presta un tratto reale del suo vissuto a Salvo: suo alter ego della vita reale, Mané essendo quello letterario. Salvo si è felicemente esiliato a Bogotà accanto a Marta. Sono in una scuola media che serve da rifugio ai meninos de rua dopo l’eccidio che si è compiuto qualche giorno prima, ad opera dal sergente responsabile per la sicurezza delle filiali bancarie, con la connivenza dei benpensanti locali, a cui quei bambini che scippano, rubano e sniffano colla non piacciono. Uno solo è stato testimone di quel massacro di otto piccoli innocenti, e grazie a lui due degli aguzzini sono riconosciuti e incarcerati.  Ma se qui la strage è ambientata a Bogotà, essa è davvero avvenuta, a Rio, nel 1993, ed è celebre col nome della «strage della Candelaria». E Monteiro Martins è stato avvocato dei Diritti Umani proprio in questo contesto.
Nonostante la realtà del vissuto, però, nelle pagine dello scrittore non c’è indignazione esplicita, ma un forte coinvolgimento emotivo che trapela per diventare poesia nella pagina. E, come scrive Carla Benedetti, questo «significa collocarsi e fare crescere una zona di forza della parola, del pensiero, della virtù, della verità: una zona piena che è la forma organica della conoscenza» (Disumane lettere, p. 55).

 

 

 

L'autore

Rosanna Morace