Dall’argine dove pochi pioppi
graffiano il cielo con tenere
supplici dita,
vergini sorelle
nel vuoto grigio azzurro;
dall’argine male carreggiato
dove s’aprono brecce e goccia
tra le nubi la luce;
dall’argine ripenso il grande fiume
guadato nella notte – a Galaţi
chiatte scivolano nel buio
a pelo d’onda si respira il fiato
d’una vita sommersa
eternamente viva
ripullulante d’ombra,
e odori della terra palude,
odori d’ambra
e grida di fenici invisibili,
sussurri a fior di labbra.
La voce è il solo
profilo delle cose,
modalità dell’occhio nel nero
fluire di là da ogni pupilla,
se perdessi il tuo filo sarei
per sempre perduta.
Ripenso le secche aride gole
spiegate nel duro metallo,
spietate nell’orrida fossa,
il monte verticale che dirupa
nel cavo profondo,
l’asse del mondo trafitto
del nostro cuore.
L’universo è un mosaico
di lame di schegge,
incassati tra alberi rocce,
siamo sospesi nel punto che regge
nel cardine del nulla il nostro
disperato dolore.
La storia s’affolta senza uscite
alle Porte di Ferro
alle porte del sogno
da cui più non puoi
tornare.
E ripenso l’esile Nussschale
sbalzata dalla corrente
controcorrente à rebours,
mio amore – se potessimo discendere
le cause e gli effetti
che ci portano in queste
crespature punte di mercurio vivide
livide riscossi tra l’aria e l’acqua
tra la vita e la morte
tra ieri e domani;
se potessimo discernere e ritessere
le rotte reti
su un arenile d’erba e ciottoli,
la mano che tende una fune,
il cuore che pulsa e s’inabissa,
procellaria d’una tempesta
mai iniziata mai finita,
dove Traiano pose i suoi riguardi:
siamo naufraghi
sul nostro stesso abisso –
padre-madre della parola
fino alle fonti ti scongiuro,
fino nel miro gurge.
E dopo – prima, la foce,
il nero litorale dell’esilio,
spiagge dove s’affacciano relitti
di sogni algebrici,
fumo grommato sul perpetuo
fallimento dell’uomo
e serpenti con gli occhi di fanciulla,
mentite profezie nelle piazze incantate
dove era un domani.
Ora, in questo anno 2021
della nostra mortifera incarnazione,
qui, dalle tue rive,
Po, mio fiume,
ti scongiuro.
File si intrecciano ferme,
invisibili, inudite,
le schiere chine dei morti,
dei malvivi, ombre solide in attesa,
pellegrine sul sabbione.
Una pioggia fine ci trapassa,
prefazio forse dell’oceano
che battezzi
la nostra vanità,
la grande secca.
Qui, in questa Pasqua
senza redenzione,
ti scongiuro:
taccia la guerra
delle passioni, l’infinito schianto
d’uomini-uccello; ci liberi
Dio dal male.