A cura di Armando Gnisci.
Nuovo Planetario Italiano. Geografia e antologia della letteraturadella migrazione in Italia e in Europa.
Troina (En) Città Aperta Edizioni (collana nuovo planetario 1) novembre 2006, 537 p.
Francesco Cosenza
Tu lascerai ogni cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo esilio pria saetta.
Tu proverai si come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.
Dante, Paradiso, XVII° canto, versi 55-60.
Verso la fine del 2006 usciva l’ultima fatica di Armando Gnisci: Nuovo Planetario Italiano. Geografia e antologia della letteratura della migrazione in Italia e in Europa, primo testo di ampio respiro che presenta antologizzati – allo stato attuale della critica, che deve ancora percorrere campi e vie inesplorate – i più importanti scrittori della letteratura della migrazione. Ovviamente ci riferiamo alla critica non accademica: a parte Gnisci e coautori di questa antologia e pochi altri (1), non vi è ancora uno studio sistematico di detta letteratura. E quindi ben venga un’antologia che tenta di sistemare in un quadro organico ancorché provvisorio il materiale narrativo e poetico dei nostri ospiti.
Prima di entrare nella struttura e nei temi del testo alcune parole sulle origini del fenomeno migratorio e sulle sue ricadute letterarie.
Nel gennaio del 1998 Remo Ceserani – autore insieme a Lidia De Federicis del fortunato manuale in più volumi Il materiale e l’immaginario (1993) – licenziava alle stampe un breve ed interessante volumetto dal titolo assai significativo Lo straniero per i tipi della Laterza. In questo breve, agile e lapidario libriccìno l’autore si approccia al tema dello straniero da un punto di vista squisitamente letterario. In questa sede non ci interessano i casi specifici dello straniero in letteratura – casi comunque interessanti: si va dalla bella straniera di una novella del Boccaccio allo straniero perturbante in E. T. A. Hoffmann, dallo straniero alienato nella propria città nella poesia Il cigno di Baudelaire ad alcuni stranieri stereotipati presi da un campionario di autori americani (L’albergo azzurro del 1898 di Stephen Crane, L’inverno delle more del 1945-46 di Robert Penn Warren, I ponti di Madison County del 1992 di Robert James Waller) per finire con un personaggio estraniato della novellaLontano del 1902 di Luigi Pirandello – ma gli aspetti metodologici e teorici enucleati nella prima parte da Ceserani. Per presentare lo straniero come figura letteraria l’autore parte dalla Bibbia dove viene visto come tale non solo Mosè o Giuseppe ma anche tutto il popolo ebraico e Jahweh stesso quando scende tra gli umani. Nulla da eccepire, cosi come ci troviamo d’accordo con l’autore quando definisce lo straniero come immagine o proiezione culturale presente nella psicologia e nell’immaginario delle comunità umane. Ma non riusciamo a seguirlo fino in fondo quando esso diventa anzitutto uno stereotipo culturale, in quanto pensiamo piuttosto esso sia anche uno stereotipo ma solo dopo essere stato – prima e sopratutto – fuori luogo fisico e geografico, storico ed antropologico: emarginato nel nuovo ambiente, considerato strano, estraneo, perturbante ed anzi disturbante.
A fianco ed insieme al testo di Ceserani, ci serve come guida e viatico al nostro argomentare un’altra opera uscita nel 1992 in Germania e tradotta da Einaudi nell’anno seguente. Sto parlando de La grande migrazione di Hans Magnus Enzensberger. Per inciso: è lo scritto citato da Gnisci all’inizio della sua introduzione (pag. 13). Nei primi anni del decennio scorso era forte il fenomeno migratorio dai paesi del sud del mondo e dell’est a causa del disfacimento del cosiddetto blocco sovietico.
Nella Germania occidentale fresca di riunificazione con quella orientale si era in presenza di una forte espressione xenofoba e razzista che si traduceva nella nascita di vere e proprie bande di picchiatori (le ronde padane non ci dicono niente?) contro gli immigrati, da qualsiasi parte del pianeta arrivassero. Il potere politico tedesco osservava tutto ciò con un occhio distratto, se non addirittura di collusa benevolenza.
In questa situazione si alza forte e chiara la voce di denuncia di Enzensberger con il breve pamphlet dal significativo sottotitolo – presente però solo in IV di copertina – La Germania e il modello europeo di violenza xenofoba. Questo libro consta di trentatre segnavia fondamentali per comprendere l’atteggiamento dell’uomo odierno verso un fenomeno antico quanto l’uomo medesimo. La tesi fondamentale di Enzensberger è che l’uomo non ha radici (le radici le hanno le piante, non gli animali e gli esseri umani di cui ne sono una specie e non tra le più riuscite) biologiche: nel dna degli uomini vi è il movimento, l’eterno andare, la perenne migrazione. Per Hans Magnus Enzensberger non vi è al mondo ora, né mai vi è stato in passato, né vi potrà essere in futuro, un gruppo etnico puro: tutte le affermazioni contrarie sono ideologiche e strumentali a questa o quella parte del potere politico. E come dargli torto: la storia umana è stata una eterna lotta per il territorio, per la conquista di nuovi spazi per allargare il potere. Enzensberger spiega con questa pulsione atavica al movimento anche gli attuali fenomeni (presenti dalla metà del secolo scorso) di turismo di massa. La condizione normale dell’uomo è la turbolenza. Come lo è dell’atmosfera e dell’ambiente marino. L’uomo fa parte a pieno titolo della biosfera. Ma a tutti i razzisti e xenofobi della terra il nostro Autore (che andrebbe studiato obbligatoriamente in tutte le scuole del pianeta di ogni ordine e grado) fa presente come l’uomo nella sua evoluzione storico-biologica ha come punto di irradiamento l’Africa. E da allora non si è più fermato. Si è insediato nei posti più improbabili oltre che nei più accoglienti.
Comportandosi non sempre bene: se si pensa alle infinite guerre di conquista, alla tratta degli schiavi, alla distruzione di massa di interi popoli, alla colonizzazione e alla deportazione di milioni di esseri umani. Negli ultimi cinque secoli, per non andare molto indietro nel tempo, le maggiori opere nefaste le hanno compiute gli europei. Invece di blaterare (come fa sciaguratamente dal suo pulpito Ratzinger) di identità europea minacciata, è ora di iniziare una gigantesca opera di denuncia di tutti i misfatti che le varie potenze europee hanno compiuto dalla scoperta dell’America in poi. Solo con una forte condanna delle terribili nefandezze degli europei si può ripensare la storia del mondo in cui anche i maya e gli aztechi, gli abitanti del continente africano e gli indiani d’America vedano riconosciuta la loro dignità di popoli ormai, per molti di essi, in absenzia: essendo stati massacrati a milioni dai cosiddetti civilizzatori, che invece vanno definiti inequivocabilmente e inesorabilmente colpevoli di genocidio. Alla natura disumana e disumanizzante dell’homo egoisticus bisogna contrapporre l’uomo solidale, accogliente, socievole. Non è per niente facile. Anche alla luce di ciò che Enzensberger ci ricorda:
Ogni migrazione provoca conflitti, indipendentemente dalle cause che l’hanno determinata, dagli scopi che si prefigge,…, dalle dimensioni che assume. L’egoismo del gruppo e la xenofobia sono costanti antropologiche che precedono ogni motivazione.
Bisogna prendere atto di ciò e – ricordandosi che l’uomo ha anche inventato i tabù e i rituali di ospitalità senza i quali non sarebbe stata possibile la sopravvivenza della specie – operare per una politica opposta. Di educazione all’accoglienza, di tolleranza (tranne nei confronti degli intolleranti: chi vuole escludere chicchessia si autoesclude da solo dal convivio umano), di incontro con l’altro in nome della semplice appartenenza alla specie.
Ma perché l’abbiamo presa cosi alla larga? Come avvicinarci altrimenti, se non per cerchi concentrici al materiale magmatico e incandescente di cui è fatto il libro curato da Armando Gnisci? Diciamo subito che ci troviamo di fronte ad un testo fondamentale, una pietra miliare e una miniera per la letteratura nascente, dei migranti, degli zingari e dei girovaghi del pianeta terra, di cui nessuno che si interessi ad essi potrà fare a meno nei prossimi anni. Questa è la prima sensazione ad una rapida lettura dell’antologia pubblicata nel novembre scorso per una nuova collana della casa editrice Città Aperta di Troina (En) dal significativo nome di nuovo planetario. L’antologia si avvale della collaborazione di conoscitori della materia quali, per citarne subito alcuni e scegliendo solo tra gli stranieri, Amara Lakhous, Ali Mumin Ahad, Jean-Jacques Marchand e Marie-José Hoyet.
La struttura del libro è tale per cui non possiamo parlare di una antologia scolastica – e questo non è certo un demerito – bensì di un’antologia di testi di scrittori provenienti da tutti i mondi che disegnano il nuovo (primo) planetario letterario italiano (Gnisci, pag. 28). E’ costituito di tre parti precedute da una ampia introduzione critica, che in realtà è composta da tre saggi che occupano le prime cento pagine. I tre capitoli introduttivi sono dovuti in successione allo stesso Gnisci, a Maria Cristina Mauceri e a Franca Sinopoli.
Scrivere nella migrazione tra due secoli (pag. 13-39) è il titolo del primo intervento dovuto al curatore. In esso Gnisci torna sui suoi temi più cari e forti: la poetica dei mondi, la creolizzazione e la decolonizzazione europea e la natura storico-antropologica della migrazione e cosa ciò comporta nella produzione letteraria dei migranti. E’ una miniera per vedere in una nuova luce autori conosciuti (e fors’anche amati da un pubblico non di soli specialisti) come Salman Rushdie, Josif Brodskij, Derek Walcott, per citare solo alcuni degli autori di culto per Armando Gnisci. Gli lascio la parola per illustrare la sua poetica: Sostengo che i migranti, e i migranti-scrittori così come gli scrittori-migranti, sono definiti nel loro importante ed eccezionale destino da loro stessi: Rushdie e Kristof, Brodskij e Walcott, Sachs e Ockajova, o la sapiente e deliziosa antropologa camerunese-calabrese Genevieve Makaping, che troverete antologizzata in questo volume (pag. 31).
La poetica di Armando Gnisci non si può certo liquidare con due righe di citazione. A pagina 30 indica espressamente che tutte le questioni e i temi della sua introduzione vanno ampliati nel suo Mondializzare la mente. Via della Decolonizzazione europea n. 3 (Cosmo Iannone editore, 2006). Qual è il filo che si dipana tra le molte pagine scritte dal curatore sui temi della migrazione? Prima di tutto fa sua l’affermazione di Salman Rushdie per cui l’emigrante è forse la figura centrale o qualificante del XX secolo e che ciò ha influito cosi tanto da far sì che negli scrittori dell’ultima fase del Novecento, la coscienza dell’importanza storica e antropologica della grande migrazione-esodo della parte della specie umana mossa dal disagio, dalla fame e dalla miseria … è diventata sempre più forte e ardita (Gnisci, pag. 14). L’emigrato patisce secondo Rushdie un triplice sconvolgimento: perde il proprio luogo, si immerge in un linguaggio alieno e si trova circondato da individui che posseggono codici e comportamenti sociali molto diversi dai propri, talvolta perfino offensivi. (Gnisci, pag. 15). Nel definire la propria poetica, Gnisci si avvale anche e giustamente della forte denuncia di Iosif Brodskij sul fenomeno dell’emigrazione. Il premio nobel del 1987 nel suo “Dall’esilio” (Adelphi, 1988) cosi affronta il problema (Gnisci, pag. 17):
… Soffermiamoci ad immaginare coloro che non ce l’hanno fatta … certi Gastarbeiter turchi che si aggirano per le strade di Germania, incapaci di afferrare la realtà che li circonda o solo capaci di invidiarla. O i boat people del Vietnam, sballottati dal mare e già insediati in qualche plaga dell’entroterra australiano. O gli straccioni messicani che strisciano negli anfratti della California per eludere le guardie di frontiera e sgattaiolare dentro … O i pakistani – interi piroscafi – che sbarcano su qualche costa del Kuwait o dell’Arabia Saudita, pronti a tutto per procurarsi un lavoro troppo umile per i signori del petrolio. Immaginiamo le moltitudini di etiopi che attraversano a piedi qualche deserto per arrivare in Somalia – o è tutto il contrario? – e sfuggire la carestia … Nessuno ha mai contato questa gente, e mai la conterà. Costituiscono quello che – in mancanza di un termine migliore o di un grado abbastanza alto di misericordia – viene chiamato il fenomeno dell’emigrazione.
Incredibile l’attualità di ciò che Brodskij già diceva vent’anni fa. Oggi possiamo aggiornare il suo catalogo con nuovi popoli che si aggiungono e altri che si avvicendano. Tutti comunque costretti alla deriva. Ieri erano altri, domani saranno altri ancora: il neoliberismo mondiale non fa che produrre nuovi poveri e nuovi migranti. A noi il compito di una denuncia continua anche attraverso la voce di chi ha il coraggio di raccontare l’orrore prodotto dal sistema mondiale della depredazione di tutti i sud da parte di tutti i nord del mondo.
La prima introduzione finisce riportando la poesia The Migrants (Santa Lucia dei Caraibi, 16 giugno 2000) di Derek Walcott in inglese, con traduzione italiana.
La seconda introduzione, Scrivere ovunque. Diaspore europee e migrazione planetaria (pag. 41-85), è di Maria Cristina Mauceri. Il suo campo di indagine è l’Europa ed il mondo, il suo tempo è sconfinato: parte dal medioevo per arrivare all’oggi. I titoli dei paragrafi mantengono ciò che promettono: Dai chierici vaganti ai grandi umanisti del Cinquecento; Commedianti, commediografi e librettisti italiani nell’Europa del Seicento e del Settecento; Il Grand Tour e il mito dell’Italia negli autori inglesi, francesi e tedeschi; Gli esuli italiani in Inghilterra e in Francia; Due scrittori nati fuori dall’Italia: Marinetti e Ungaretti; L’esilio volontario di Joyce e Lawrence; La migrazione trans-atlantica verso l’Europa e in particolare l’Italia; Esuli italiani durante il fascismo; Profughi, espatriati in fuga da regimi totalitari e dal passato; Scrittori italiani migranti tra l’altrove e l’Italia; Diaspore letterarie europee e migrazione planetaria a confronto.
Segue una breve bibliografia da cui si possono trarre utili suggestioni e suggerimenti di ulteriori approfondimenti. Gli autori citati sono tanti e gli argomenti trattati molteplici e richiederebbero una trattazione che non è negli scopi di questa recensione. Mi piace però citare il plurilinguismo di Mozart (pag. 49): in una lettera alla sorella riesce ad alternare l’italiano al tedesco, il francese al dialetto di Salisburgo: l’effetto è stupefacente. Passo la parola alla Mauceri:
“Molti scrittori europei la cui vita è stata caratterizzata dalla mobilità fanno parte del canone letterario occidentale, mentre gli scrittori appartenenti alla recente ondata migratoria non sono letterati canonici: alcuni avevano appena iniziato a muovere i primi passi nell’ambiente letterario del loro paese d’origine prima di espatriare, altri sono maturati come scrittori e scrittrici dopo la migrazione. …gli attuali scrittori migranti sono accolti con indifferenza dal mondo letterario istituzionale, tutt’al più sono considerati un fenomeno etnico-esotico che alcune case editrici sfruttano secondo le mode del momento; sono anche ignorati dal paese di provenienza per cui si trovano nella condizione di essere scrittori senza patria. In effetti non hanno più un’unica patria, se con questo termine si intende esclusivamente il paese d’origine, in realtà, hanno trovato una patria comune e priva di confini: la letteratura“.
Che bel finale. Con cui non possiamo non essere d’accordo. Ma allo stesso tempo bisogna sempre ricordarsi che molti migranti, scrittori e non, vivono male il quotidiano, il semplice sbarcare il lunario e sovente non riescono nemmeno ad arrivare sulle nostre ricche e belle coste. Spesso ci lasciano la pelle prima: la nostra denuncia deve essere assoluta e senza cedimenti (come ad esempio fa Erri de Luca nel bel libro Solo andata: righe che vanno troppo spesso a capo, Feltrinelli, 2005). Sono tra 20.000 e 40.000, secondo un calcolo approssimativo per difetto, i profughi scomparsi nel Mediterraneo negli ultimi quindici anni. Dieci anni fa se ne inabissavano circa trecento nei pressi di Portopalo di Capo Passero. E giacciono ancora in fondo al mare! A soli cento metri di profondità! Dopo che per più di un lustro se ne è negata persino l’esistenza! Ottima la ricostruzione del giornalista de la Repubblica Giovanni Maria Bellu nell’inchiesta I fantasmi di Portopalo: Natale 1996, la morte di 300 clandestini e il silenzio dell’Italia (Mondadori, 2004).
Il terzo intervento, La critica sulla letteratura della migrazione italiana (pag. 87-110), è dovuto alla penna di Franca Sinopoli. La docente universitaria de La Sapienza di Roma, curatrice della bibliografia on-line più aggiornata sulla letteratura dei migranti in Italia, tratta di un argomento in cui il materiale in italiano è pressoché assente. Su circa cinquanta titoli citati nella bibliografia finale una ventina è in inglese o francese o tradotta da queste due lingue. La parte del leone (con otto testi citati) la fa Armando Gnisci che ha dedicato praticamente gli ultimi quindici anni a studiare la letteratura dei migranti. L’introduzione ha il pregio inoltre di fare il punto sullo stato dell’arte della critica letteraria sulla letteratura dei migranti in Italia. La Sinopoli cita anche il breve saggio di Remo Cacciatori: Il libro in nero. Storie di immigrati in: Tirature ’91 curato da Vittorio Spinazzola, definendolo unincunabolo della critica letteraria dedicata alla letteratura della migrazione. Peccato che poi in bibliografia il contributo di Cacciatori venga attribuito al curatore di Tirature 91.
Fin’ora abbiamo parlato solo delle introduzioni. Non è possibile dare conto per esteso delle restanti 400 pagine (le pagine complessive sono ben 537) anche se più si parla di questo libro (come di quello di Raffaele Taddeo) e più si fa un servizio non solo alla letteratura della migrazione, ma alla letteratura mondiale. Conoscere gli autori qui antologizzati, leggerli, farsi accompagnare nei loro mondi letterari ed immaginari, reali e fantastici, è quanto di più gratificante ci possa essere per un lettore.
Maria Cristina Mauceri, Amara Lakhous, Gianluca Iaconis, Ali Mumin Ahad, Mia Lecomte, Silvia Camilotti, Davide Bregola, ancora Silvia Camilotti, Immacolata Amodeo, Luisa Carrer, Pierangela Di Lucchio, Jean-Jacques Marchand, Angela Gregorini, Marie-José Hoyet e Sonia Sabelli per quindici capitoli ci portano in giro a incontrare autori sconosciuti da scoprire o scrittori conosciuti e quasi famosi da frequentare. Tutti quanti tutti insieme – poeti o narratori, drammaturghi o saggisti – a far crescere la letteratura italiana ed aiutarla ad uscire dallo stato non proprio fulgido in cui (tranne poche, lodevoli eccezioni) versa da alcuni decenni.
Dopo i capitoli introduttivi di vera e propria critica letteraria del fenomeno a tutto campo, il testo si divide in tre parti. Qui cerchiamo di tratteggiarne succintamente i contenuti. Ma sarà impresa ardua, sia per la densità sia per l’ampiezza dei contenuti.
Parte prima Il Planetario
La prima parte, l’unica che comprende testi antologizzati (2), definita Il Planetario, consta di otto capitoli che dividono i migranti verso l’Italia in base al continente di provenienza. Una spirale che si irradia dal centro del Mediterraneo (l’Italia è lì al centro e si protende dal nord-ovest dell’Europa verso il sud-est dell’Africa e dell’Asia ed è contemporaneamente calamita e luogo di attraversamento) come un’onda lunga molto anomala o i cerchi concentrici che dal mare nostrum giungono fin quasi agli antipodi superando tutte le barriere naturali e umane. Gli europei (balcanici ed esuli dagli ex paesi del cosiddetto socialismo reale) si ritrovano insieme agli africani (del Maghreb, dell’Africa nera e del Corno d’Africa ex colonia italiana); gli asiatici del vicino oriente si ritrovano insieme agli asiatici del lontano oriente e dei paesi dimenticati; e, ancora tutti insieme, si ritrovano nello stesso libro e sotto lo stesso idioma, quello di Dante e Petrarca, di Ariosto e Tasso, di Gadda e Calvino, unitamente agli scrittori venuti dall’America latina; alcuni dei quali emigranti/immigrati di ritorno. L’ultimo capitolo, l’ottavo, tratta dell’editoria italiana che si interessa del fenomeno migratorio.
Il primo cerchio, per usare la metafora di prima, L’Europa venuta dall’Europa coinvolge i paesi a noi più vicini. Maria Cristina Mauceri ci conduce per mano nei paesi europei. Gli autori antologizzati provengono dall’Albania (Gezim Hajdari e Ron Kubati) e dall’ex Jugoslavia (Vesna Stanic, Bozidar Stanisic e Tamara Jadrejcic), le più prossime a noi; dalla Grecia (Helene Paraskeva) e dalla lontana, ma prossima e affine linguisticamente, Romania (Mihai Mircea Butcovan); dalla Slovacchia (Jarmila Ockayova) e dalla Polonia (Barbara Serdakowski). La Mauceri passa in rapida rassegna anche autori che poi non sono presenti nella parte antologica. Insieme a Pedrag Matvejevic troviamo Kenka Lekovic, Vera Slaven e Melita Richter dell’exJugoslavia; Anilda Ibrahimi, Anila Hanxari, Leonard Guaci, Ornela Vorpsi e Arthur Spanjolli dell’Albania; Ingrid Coman della Romania.
Il primo autore presente in antologia è Gezim Hajdari. E come potrebbe essere altrimenti. L’importanza di Hajdari è conclamata: è senza tema di smentite uno dei poeti più importanti in lingua italiana. La sua poesia è scarna e dura. Le sue parole sono ricercate come le pietre tonde e lisce lanciate sulle calme acque del mediterraneo per farle rimbalzare il più a lungo possibile. I suoi versi rotolano. Risuonano all’orecchio della mente con perduranti vibrazioni diapasoniche. E spesso lasciano in bocca l’amaro distillato del vivere quotidiano. Basta aprire a caso qualsiasi suo testo di poesie per imbatterci in versi intensi come questi:
Nessuno sa se ancora resisto / in questo angolo di terra arsa / e scrivo a notte fonda ubriaco / versi gioiosi e tristi / / Sogno la morte ogni volta / quando torna la primavera / I gemiti si perdono piano piano / nella nudità della pioggia / / Come si brucia in fretta / la mia giovinezza senza richiami / Ovunque attorno mi sorridono / rose e coltelli / / Di fumo e alcool / odora cosi presto il mio corpo / Chissà quale male oscuro un giorno / stroncherà la mia voce (Erbamara, Barihdhur, Fara 2001).
Con Ron Kubati ci troviamo di fronte ad un narratore che ha già pubblicato tre romanzi (Va e non torna,Besa, 2000 e 2004; M, Besa, 2002; Il buio del mare, Giunti, 2007) dal cui impianto autobiografico emerge prepotentemente il dolore della tragedia albanese.
Spostandoci al di là dei balcani troviamo un autore che ha al suo attivo sia opere di poesia che di narrativa. Del rumeno Mihai Mircea Butcovan, il cui brano presentato è tratto dal divertentissimo romanzoAllunaggio di un immigrato innamorato (Besa, 2006), ci piace citare una fulminante poesia – Ungaretti avrebbe sicuramente applaudito – tratta da Borgo Farfalla (Eks&Tra Editore, 2006, vincitore del 12° Concorso letterario per immigrati Eks&Tra):
AUSCHWITZ
Brucio per l’immenso
E v’illumino
Almeno spero
Ma di Butcovan dobbiamo anche citare Dal comunismo al consumismo, edito dalla Biblioteca Dergano-Bovisa quest’anno in occasione dell’incontro con l’autore avvenuto il 14 aprile 2007. L’osservatore romeno ha risposto alle domande del pubblico in un italiano perfetto ben al disopra dell’italiano padano, di cui parla nel suo romanzo. Questo primo capitolo passa in rassegna altri sei autori – Vesna Stanic, Bozidar Stanisic, Tamara Jadrejcic, Jarmila Ockayova, Barbara Serdakowski ed Helene Paraskeva – tutti meritevoli di essere attentamente letti sia nei brani presenti nel Nuovo Planetario, sia nelle opere da cui i brani sono tratti. Ma un accenno particolare meritano Jarmila Ockayova e Barbara Serdakowski. La prima, per la sua scrittura limpida e favolistica, onirica e cabalistica, con tracce legate al dispatrio – gli oliamondo presenti in L’essenziale e invisibile agli occhi (Baldini & Castoldi, 1997) sono evidente metafora dei migranti – e Barbara Serdakowski, che incarna in forma perfetta ed esemplare l’erranza planetaria. Infatti la Serdakowski, nata in Polonia, cresciuta in Marocco, trasferita in Canada, sposata a un artista italiano emigrato in Venezuela, alla fine approda in Italia e scrive in un plurilinguismo frutto consapevole e sorgente dalla propria esistenza multilingue. Ascoltiamola in questo passo:
“In Canada, a casa e al lavoro, parlavo cinque lingue, tutti i giorni … . Insegnavo francese, inglese, spagnolo, e rudimenti di russo…. A casa si parlava in polacco e in italiano, ma anche in spagnolo … . La mia poesia nasce inevitabilmente dalla coesistenza di più lingue; ad un certo punto non ho più lottato per sforzarmi ad esprimerla in una sola lingua, c’erano troppe forzature, così sono nate le mie poesie multilingue“ (in Davide Bregola, “Il catalogo delle voci“, pag. 112-113, il grassetto è mio).
In questa prima sezione la Mauceri non ha inserito un autore che pur essendo nato anagraficamente in Italia presenta caratteristiche tali per cui la sua inclusione in questa antologia non sarebbe stata fuori luogo. Sto parlando di Carmine Abate, di cui la Mauceri ha parlato nella sua introduzione (pag. 77), che è a tutti gli effetti uno scrittore migrante che viaggia tra più mondi e orizzonti linguistici. Ha scritto e scrive nelle lingue ospitanti: in tedesco quando era in Germania, in italiano dopo il suo ritorno. E’ uno degli autori non marginali, pubblica infatti con Mondadori e le sue opere sono spesso ristampate più volte. Perché inserirlo qui? Perché la sua lingua materna non è l’italiano. Nato in Calabria in un paese di origine albanese (Carfizi, comunità arberesh) fino ai sei anni usa solo l’arberesh. A scuola impara l’italiano come fosse una lingua straniera. Emigra in Germania e scrive il primo libro di racconti in tedesco: Den Koffer und weg, tradotto da lui stesso nel 1993 col titolo programmatico:Il muro dei muri. Torna in Italia e va a vivere e insegnare in Trentino. Scrive i suoi romanzi in italiano con molti inserti arberesh e tutti gli anni si reca al suo paese d’origine dove organizza insieme ad altri una festa del ritorno(titolo di un altro suo romanzo). L’erranza è l’essenza della vita e dell’opera di Abate e il tema della migrazione è presente in tutti i suoi romanzi. Nel formidabile romanzo storico-picaresco: Il mosaico del tempo grande(Mondadori, 2006) l’autore opera un continuo spostamento geografico e temporale tra la città di Hora (in arberesh hora significa paese) fondata in Calabria dagli antenati del protagonista alla fine del ‘400 e Hora la città originaria d’Albania da cui provengono i primi migranti in fuga dall’invasione turca. Il reiterato spostamento tra l’Hora di ora l’Hora di allora e l’Hora sotto il regime di Enver Hoxha in un movimento circolare da capogiro comporta uno forte spaesamento emotivo, mitigato però da una sapiente scrittura musicale e polifonica in cui convivono l’italiano, l’arberesh e il dialetto calabrese. Infine citiamo un suo contributo in La letteratura dell’emigrazione: gli scrittori di lingua italiana nel mondo curato da Jean-Jacques Marchand (vedi sotto).
Il secondo capitolo affronta gli autori del Maghreb. L’algerino Amara Lakhous, autore del saggio, ha pubblicato i romanzi: Le cimici e il pirata (Roma ARLEM, 1999) e Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio (E/O, 2006). Ci avverte subito di due assenze. Non ci sono mauritani e libici tra gli scrittori migranti. E, mentre per i primi una spiegazione plausibile è data dalla quasi inesistente loro presenza in Italia, per i secondi la spiegazione va cercata nella colonizzazione italiana della Libia che non ha prodotto, per i libici, ciò che per i paesi francofoni è stato il bottino di guerra della decolonizzazione: la lingua francese. Ma veniamo alle presenze. Algerini, tunisini e marocchini sono ben rappresentati in quest’antologia. Dall’Algeria provengono Amor Dekhis, Brahim Achir e Tahar Lamri; dalla Tunisia Salah Methnani e Mohsen Melliti; dal Marocco Mohamed Bouchane, Mohamed Akalay, Abdelkader Daghmoumi, Mina Boulhanna e Bouzidy Aziz.
Tra essi troviamo le prime opere scritte in collaborazione con giornalisti o scrittori italiani, quindi a quattro mani. Sono testi di denuncia e testimonianza senza veri intenti letterari ma che hanno già in nuce gli sviluppi futuri. Se alcuni di questi autori, dopo il primo libro, appagati, si sono inariditi – come Mohamed Bouchane che nulla ha prodotto dopo il suo esordio con Chiamatemi Ali (Milano, Leonardo, 1991) scritto in collaborazione con Carla De Girolamo e Daniele Miccione; e Salah Methnani che ha esaurito la sua vena con Immigrato (Theoria, 1990) scritto in collaborazione con Mario Fortunato – altri invece hanno sviluppato nel tempo una propria scrittura e poetica ben definita.
Come l’algerino Abdelmalek Smari che ha firmato vari testi inediti (3) con lo pseudonimo di Sam Tawfik e pubblicato nel 2000 il romanzo: Fiamme in paradiso con il Saggiatore (4). E’ inoltre presente in almeno un’antologia collettanea (5). La poetica di Smari la troviamo nel testo di Davide Bregola: Da qui verso casa(Edizioni interculturali, 2002). Costruito come un mosaico di interviste reali e immaginarie – a Younis Tawfik, Alice Oxman, Ron Kubati, Jadelin Mabiala Gangbo, Helga Schneider, Jarmila Ockayova, Tahar Lamri, Christiana de Caldas Brito, Julio Monteiro Martins, Helena Janeczek, Armando Gnisci – Abdelmalek Smari afferma che gli scrittori migranti propongono questioni etiche senza trascurare l’estetica e aggiunge: io scrivo da emigrato per la mia società d’origine ma sento la necessità di scrivere e pubblicare in italiano per comunicare con chi mi ospita. A Smari non sfugge il divario creato dai cinque secoli di colonialismo euro-occidentale ai danni dell’Africa. Ma la sua risposta è assolutoria – e andrebbe discussa e approfondita, ciò che non mancherà di fare Gianluca Iaconis nel successivo capitolo del Nuovo planetario – quando sostiene: non voglio incolpare l’Occidente, anzi, ormai mi sono reso conto che la colpa della nostra arretratezza è solo nostra. Amare parole dette da un algerino che proviene da quelle terre che hanno visto una dura e tenace lotta per scrollarsi di dosso il piede straniero dalla testa. E tornano in mente i versi di Alle fronde dei salici di Salvatore Quasimodo: E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore, / fra i morti abbandonati nelle piazze / sull’erba dura di ghiaccio, al lamento / d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero / della madre che andava incontro al figlio / crocifisso sul palo del telegrafo? Al di là di questo Smari è portato naturalmente alla costruzione di dialoghi naturali e pregevoli al punto che il regista Marco Bechis ne ha chiesto la collaborazione per la scrittura dei dialoghi del suo interessante film: Garage Olimpo. Un aspetto da tutti trascurato, ma assolutamente interessante oltre che divertente da studiare, è dato dall’incertezza dei nomi degli autori delle più diverse nazionalità ed etnie. Smari ad esempio, che all’inizio della propria carriera letteraria in Italia aveva deciso di scegliere uno pseudonimo legato all’infanzia (invece che Abdelmalek avrebbe preferito chiamarsi Tawfik), ha avuto in sorte di vedersi invertito nome-cognome sia nei nostri inediti che nel testo edito dal Saggiatore. Smari è il cognome, Abdelmalek (invece di Abdel Malek) è il nome.
Il terzo cerchio ci porta verso L’Africa nera oceanica e lontana. Gianluca Iaconis antologizza autori usciti allo scoperto e ormai giustamente famosi: i brani di Pap Khouma (Senegal), Kossi Komla-Ebri (Togo), Mbacke Gadji (Senegal), Yogo Ngana Ndjock (Camerun), Genevieve Makaping (Camerun), Pedro Miguel (Angola) e Jean Leonard Touadi (Congo-Brazzaville) ci danno solo un assaggio della loro scrittura e dell’avvenuta maturazione dal 1990 ad oggi (6). Pap Khouma è presente con alcuni brani tratti dal testo ormai considerato il capostipite della letteratura della migrazione in Italia, quel Io, venditore di elefanti: una vita per forza fra Dakar, Parigi e Milano scritto insieme al giornalista Oreste Pivetta (Garzanti, 1990) giunto ormai alla ottava edizione. Col secondo romanzo, scritto senza collaborazione, Nonno Dio e gli spiriti danzanti (Baldini & Castoldi Dalai, 2005) il cerchio momentaneamente si chiude. Mentre nel primo si affrontava il tema della partenza, nel secondo ci troviamo di fronte ad una testimonianza del ritorno. Argomento già affrontato da altri autori, come il togolese Kossi Komla-Ebri in Neyla (Edizioni dell’Arco, 2002) (7). Indubbio merito di Kossi Komla-Ebri, ormai famosissimo autore dei vecchi e nuovi Imbarazzismi, è di avere pubblicato i suoi testi presso una piccola casa editrice come le Edizioni dell’Arco. Dagli Imbarazzismi è in gestazione una piece teatrale a cura del gruppo ‘bovisateatro’ di Milano in collaborazione con La Tenda.
Qui vogliamo riprendere completamente una poesia di Yogo Ngana Ndjock che racchiude infinite variazione sulla vita-mondo, tratta da: Foglie vive calpestate. Riflessioni sotto il baobab (UCSEI, 1989):
Vivere una sola vita, / In una sola città, / In un solo paese, In un solo universo, /Vivere in un solo mondo è prigione.
Amare un solo amico, / Un solo padre, / Una sola madre, / Una sola famiglia, / Amare una sola persona è prigione.
Conoscere una sola lingua, / Un solo lavoro, / Un solo costume, / Una sola civiltà, / Conoscere una sola logica è prigione.
Avere un solo corpo, / Un solo pensiero, / Una sola conoscenza, / Una sola essenza, / Avere un solo essere è prigione.
Troppo lungo sarebbe analizzare questo capitolo che rimane fondamentale anche e soprattutto per il gioco dei reciproci, il cosiddetto gioco del rovescio di Gnisci. Fin’ora abbiamo visto il mondo con i nostri occhi occidentali, occhi da conquistatori ed egemoni. Ma è giunto il momento di considerare come ci vedono gli altri. Lo sguardo di Genevieve Makaping, di cui va letto non solo il brano presentato ma tutto il libro (Traiettorie di sguardi: e se gli altri foste voi? Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001), è fulminante e chiarificatore. Basta una frase per intravedere cosa si possa nascondere dietro il mondo degli altri – Guardo me che guarda loro che da sempre mi guardano – e iniziare quel processo di decolonizzazione mentale che faccia sì che nell’altro noi possiamo guardare un nostro simile senza nessun timore di vederlo diverso. E poi proseguire il discorso con le parole di Edouard Glissant: oggi una poetica della relazione mi sembra più evidente e più avvincente di una poetica dell’essere (8).
Il quarto capitolo ci porta ad esplorare il Corno d’Africa ovvero l’ex-impero italiano. L’autore, il somalo Ali Mumin Ahad, presente con un lungo brano tratto da un suo inedito: Memorie del Fiume ed altri Racconti del Benadir, include testi di Garane Garane, Gabriella Ghermandi, Cristina Ali Farah, Habté Weldemariam e Ribka Sibhatu. Un filo comune, declinato in varie forme espressive, narratologiche o saggistiche, si dipana da questi autori. E’ il filo dell’italiano appreso nel proprio paese come lingua coloniale ed usato in sostituzione degli idiomi d’origine, eritreo, somalo o amarico. Questi autori hanno una padronanza dell’italiano che nulla ha da invidiare agli autoctoni. Il loro apporto è principalmente di natura culturale e storico-antropologica. Ma non mancano gli influssi sulla nostra lingua. In Madre piccola (Frassinelli, 2007) Cristina Ali Farah (somala nata a Verona) usa inserire parole somale struggenti ed evocative. Ne è affascinato anche Ali Mumin Ahad che dedica numerose e intense pagine ai due brani proposti. Cosi come è rapito dal brano dell’etiope Gabriella Ghermandi Un canto per mamma Heaven (in Kuma, creolizzare l’Europa, rivista on-line). Cosi ne parla Ahad: In questo breve racconto Gabriella Ghermandi, con una sensibilità e uno stile mirabilmente poetici … offre ai lettori una storia interessante dal punto di vista dei contenuti perché parla dei problemi attuali e drammatici, soprattutto per le popolazioni del Corno d’Africa, come la guerra, l’esilio, l’identità il conflitto permanente tra tradizione e modernità. Nella produzione della Ghermandi ci sembra che vi sia un’attenzione particolare alla trasposizione sulla carta di un’oralità che si richiama esplicitamente alla cultura favolistica e alla tradizione animista della terra d’origine.
Del somalo Garane Garane, di cui Ahad presenta un brano tratto dal romanzo: Il latte è buono (Cosmo Iannone, 2005), diciamo solo che dopo aver studiato in Somalia e a Firenze con una tesi su Dante, Petrarca e Boccaccio è andato a trovar miglior fortuna in America (direttore del Dipartimento di Umanistica della Allen Univerity, Carolina del Sud). Destino comune anche ad altri migranti come lo stesso Ali Mumin Ahad (autore anche del primo studio postcoloniale italiano per la parte somala) che dal 2006, dopo aver conseguito unmaster all’Università Cattolica di Milano, è emigrato in Australia. Dell’eritreo Habte Weldemariam, attivo collaboratore di Nigrizia e delle Acli, oltre a: La Terra di Punt: miti, leggende e racconti dell’Eritrea (EMI, 1996), ricordiamo: Stranieri come noi. Dal pregiudizio all’interculturalità (EMI, 1994), scritto in collaborazione con Antonio Nanni. E’ uno dei primi tentativi di educare alla accoglienza e all’interculturalità, superando le barriere del pregiudizio, nella prospettiva di costruire le basi per una conoscenza reciproca tra noi e i migranti.
In questa sezione dell’Africa avremmo, forzando leggermente lo schema che non è ancora un canone ma lo sta diventando, volentieri inserito un’autrice dal cognome italiano, Erminia Dell’Oro, che è nata da genitori sì italiani ma ad Asmara e ha vissuto fino ai vent’anni in terra eritrea. E ci ritorna avendo mantenuto un fortissimo legame affettivo con le terre d’origine. Possiede un doppio registro linguistico: il tigrino, insieme all’italiano, è stato per lei come una seconda lingua materna. Non solo: la Dell’Oro segue da sempre nei suoi romanzi e racconti, letti da adulti e ragazzi, studiati, tradotti in varie lingue e giustamente famosi, il fenomeno della scrittura dei migranti. Nella sua produzione letteraria è presente non solo la riflessione sul meticciato visto dalla parte del meticcio, ma anche, di importanza fondamentale, il discorso sull’esperienza del colonialismo italiano in Africa. Facendo sì che questo aspetto della storia italiana, rimosso per anni, uscisse, a far tempo dagli ultimi decenni del secolo scorso, dagli ambiti dei soli pochi storici specializzati, per raggiungere un uditorio più ampio. Chiudiamo infine il quarto cerchio con una breve poesia dai versi incantevoli (Ahad) dell’eritrea Ribka Sibhatu:
L’OASI
Lungo Il viaggio, / sulla fontana del canto, / zio Sicomoro mi cullò / coi profumati cori secolari / che fecero crescere i miei avi.
Protetta dal Sicomoro, / cantastorie del passato mistero, / nel cammino e nell’esilio / canto l’immensità / nell’oasi della scrittura.
Nel quinto capitolo Mia Lecomte ci porta a conoscere L’Asia mediterranea o vicino Oriente. E privilegia, lei poetessa in proprio, la produzione poetica. Gli autori presentati sono Hasan Atiya al Nassar (Iraq), Alon Altaras (Israele), Nader Ghazvinizadeh (Iran), Rula Jebreal (Palestina), Thea Laitef (Iraq, Samare 1953, Roma 1994), Muin Madih Masri (Nablus, Cisgiordania), Parviz R. Parvizyan (pseudonimo, Iran), Younis Tawfik (Iraq), Yousef Wakkas (Siria). Tra questi autori, alcuni peraltro già conosciuti ad un pubblico ampio come Tawfik e Wakkas, forse domani emergerà un Salman Rushdie in lingua italiana. Ma non potrà essere Thea Laitef scomparso, esule, a Roma nel 1994. Ma è di lui, autore di versi delicati e intensi oltre che traduttore in arabo di Pasolini, Pavese, Gramsci e Quasimodo, che vogliamo presentare un brano dal romanzo Lontano da Baghdad (Sensibili alle foglie, 1994) in cui emerge prepotentemente il tenero amore per la città natale:
La gente qui se ne stava incollata davanti ai televisori. Quando ho visto la famosa scena del cielo di Baghdad formato cartolina illuminato a giorno da letali fuochi d’artificio (si, quasi come la festa dell’anniversario della rivoluzione davanti alla mia Scuola elementare, tanto tempo fa), io non ho potuto resistere. Non avevo altra scelta: o correre di là a vomitare, o spegnere il video e mettermi a scrivere. Oppure entrambe le cose. Ho scelto la seconda, ma in prosa, contrariamente alle mie abitudini. Non avevo alcuna voglia di comporre versi. Più che altro, questi erano inadeguati al flusso d’immagini che prorompeva dal fondo della mia memoria, in cerca di un loro ordine e significato purché fosse…Ho amato Baghdad come solo si può amare un amore da cui ti senti respinto. In ogni città in cui ho soggiornato, in realtà non ho cercato struggentemente che lei.
Mentre il nostro poeta componeva queste parole d’amore per una città da cui era stato costretto a fuggire in esilio per motivi politici, da noi un meschino essere gongolava perché era riuscito a dare quelle immagini cartolina, nel suo telegiornale, prima della concorrenza. E io, a differenza di Laitef, fui catturato dall’imbecillità demenziale, tragicamente comica, di un giornalista che di fronte alla drammaticità epocale dell’evento (erano lì, in quella guerra umanitaria, in nuce i prodromi di quella che sarebbe stata successivamente definita guerra preventiva, forse la peggiore invenzione moderna, paragonabile per gravità al colonialismo ed agli olocausti del secolo scorso), di fronte a una guerra chiaramente scatenata per gli interessi petroliferi americani, si beava di essere stato il primo a dare quelle immagini.
Yousef Wakkas, oggi ritornato in Siria, ha scritto per anni in cattività, essendo stato in prigione per traffico internazionale illecito. La sua voce è allo stesso tempo dolente della condizione di vita vissuta e consapevole di avere un ruolo importante quando sostiene che “la scrittura ci colpisce e ci scolpisce, ci rende quelli che siamo, quelli che saremo in futuro. Le parole, come sta succedendo da anni con la nascente letteratura dei migranti, sono trasformate in colori vivaci, suoni di rabbia e di gioia che echeggiano dalle pianure dell’Asia, alla savana dell’Africa, dai ghetti dell’Europa dell’Est, fino alle montagne maestose dell’America Latina. Cercare il futuro nella calca del passato, non è stato facile, sebbene siamo stati straordinari nel far palpitare di verità e di amarezza, d’amore e dolcezza le nostre poesie, i nostri racconti, superando con successo l’aggravante di essere migranti”.
Non vogliamo lasciare però quest’area geografica senza citare un autore non presente, purtroppo, nell’antologia. E’ un poeta schivo, appartato, di cui poche cose sono state edite ma molte pagine aspettano di essere pubblicate. Hossein Hosseinzadek, nato nel nord dell’Iran nel 1957, vive come esule politico, sfuggito alla repressione khomeinista, a Milano. La sua attività artistica principale è la pittura, ma ha scritto un romanzo tutt’ora inedito (Campi di fiori campi di sangue a cura del Centro Culturale Multietnico La Tenda, Biblioteca Dergano-Bovisa, 1997, Quaderno n. 10) e una piccola opera da cui si evincono le potenzialità poetiche di Hossein: O Joyce: lacrime rosse: poesie, poemetti, canti… inediti (sempre a cura del Centro Culturale Multietnico La Tenda, Biblioteca Dergano-Bovisa, 1998, Quaderno n. 15). I testi editi di Hosseinzadek sono presenti in antologie come La lingua strappata: testimonianze e letteratura migranti (a cura di Alberto Ibba e Raffaele Taddeo, Leoncavallo libri, 1999) e il Quaderno mediorientale II a cura della stessa Mia Lecomte (Firenze Loggia de’ Lanzi, 1998). Hossein è probabilmente l’autore più trascurato. A me personalmente la sua poesia densa e forte ricorda i Canti di Maldoror di Lautréamont. Pochi versi daranno l’idea della forza e dei contenuti di questo autore. Da O Joyce prendiamo due brevi poesie, la prima è Io e gli altri:
Come l’avida gente che ben sa nascondere ciò che ora ti occorre e fra i piedi ti
mette ciò che non ti serve e né mai ti servirà, ebbene: io voglio essere florilegio.
Carattere, parola, virgola, punto virgola, punto, punto esclamativo, punto
interrogativo, puntino, frase, riga, paragrafo, sezione, capitolo, parte, libro.
Gli altri sono sempre spenti vilipési. Io sono sempre più ombroso e vile. Oh,
com’è complicato il povero cosmo! Sarò mai sublime? lucente? un libro?
La seconda è La manifestazione, il cui tema è sempre attualissimo:
Esseri di diverse vesti e culture
esseri di diversi colori e odori
esseri di marciapiedi e balconi
esseri di divise militari
esseri di arnesi micidiali
marciammo gridando Morte al razzismo!
Chi ha poi saputo che, marciando insieme,
potevamo scompaginare il covo del potere catti.
Senza armi né striscioni?
Silvia Camilotti ci porta ancora più lontano, tra Continenti asiatici e popoli dimenticati. E’ il sesto capitolo e tratta dei pochi autori provenienti dalla Cina e dall’India. Con la significativa presenza di un autore zingaro, Alexian Santino Spinelli, rom abruzzese, in considerazione del fatto che la provenienza geografica degli zingari si perde nella notte dei tempi e la si fa originare dal subcontinente indiano. Giustamente Gnisci definisce il popolo rom come l’unico invasore pacifico dell’Europa. Gli altri autori antologizzati sono la cinese Bamboo Hirst e l’indiana Lily Amber Layla Wadia. La prima, figlia di un diplomatico cattolico italiano ed una cinese buddista, si trasferisce in Italia a quattordici anni. Attualmente vive tra Londra e l’Italia. La sua vasta produzione (ha al suo attivo già sei testi pubblicati dalle maggiori case editrici italiane) avrebbe bisogno di una ampia trattazione. La Camilotti rivendica la sua presenza in questa antologia più o meno per le stesse motivazioni per cui andrebbero inclusi nel costituendo canone dei migranti autori come Carmine Abate ed Erminia Dell’Oro: “essa (la Hirst)raramente è stata inserita nei circuiti della letteratura della migrazione: il fatto che sia nata da padre italiano e madre cinese, probabilmente e, forse, assurdamente, non le ha conferito la <patente> di scrittrice immigrata“. E ne sintetizza l’importanza nella dimensione biografica che si riflette nella finzione letteraria del suo primo romanzo Inchiostro di Cina uscito ormai vent’anni fa, nel 1987, per La Tartarugaedizioni. Dimensione biografica che porta la Hirst a cercare nella scrittura la terapia che la salvi dall’essere considerata doppiamente diversa nei due luoghi fisici della propria esistenza: non del tutto cinese in Cina e non del tutto bianca nel resto del mondo.
Lily Amber Layla Wadia nata in India (a Mumbay) nel 1966, vive e lavora a Trieste. Ha sempre scritto in inglese ma da alcuni anni scrive anche in italiano. E che italiano! Preciso e tagliente, ironico e dissacrante, forbito e accattivante. Qualità della scrittura che le sono valse con il racconto Curry di pollo il I° premio del concorso Eks&Tra nel 2004. Ecco l’incipit del racconto:
“A volte vorrei essere orfana. E’ una cosa terribile da dire, lo so. Non sono un’ingrata, forse mi sono espressa male. Voglio un bene da matti ai miei, lo giuro. E’ solo che vorrei che fossero … diversi. Normali, cioè. Come i genitori di tutti gli altri ragazzi della mia classe al Liceo Petrarca. Ho sedici anni e vivo a Milano, diamine. Non posso non andare in discoteca, non posso non farmi il piercing, non possonon avere un ragazzo – lo fanno e c’è l’hanno tutte le mie amiche”.
Con America latina in Italia Davide Bregola ci porta quasi agli antipodi del mediterraneo. E’ l’ultimo capitolo antologico e siamo dalle parti del continente scoperto da Colombo, terra di colonizzazione selvaggia da parte di spagnoli, portoghesi, inglesi e francesi. Gli autori presentati da Bregola, non solo attraverso brani tratti dalle loro opere ma anche da dichiarazioni a lui fatte e riportate nei suoi due testi sulla letteratura della migrazione (9) o prese da vari siti e riviste, sono i brasiliani Heleno Oliveira, Vera Lucia de Oliveira, Marcia Theophilo, Rosana Crispim da Costa, Christiana de Caldas Brito, Julio Monteiro Martins; l’argentina figlia di immigrati italiani Clementina Sandra Ammendola e il paraguaiano Egidio Molinas Leiva (Paraguay 1942, Roma 2006). Partiamo dalla poetica di quest’ultimo, tratta dal III° Seminario degli scrittori migranti (Lucca, 2003):
La questione della letteratura della migrazione è … una rivoluzione fatta dagli scrittori negli anni Novanta. … Noi scrittori e poeti migranti in lingua italiana abbiamo un gran rispetto per la lingua ospite. E’ come entrare in una casa per non fumatori e dover rispettare certe regole minime, ma se questa lingua non mi permette di esprimere certi concetti nati dalla sintesi culturale permanente che porto avanti (dagli anni Ottanta), qualcosa devo modificare. Devo concettualmente rendere utile questo strumento e forzarlo. L’italiano è bello proprio per questo, perché ha degli angoli non ancora esplorati. Penso sia più ricco dello spagnolo, perché mi permette ampi margini di parola. Naturalmente io sto esplorando. Nella mia scrittura voglio recuperare del tutto le atmosfere del racconto orale che ha bisogno di pause, di silenzi, di esitazioni, di frasi ad effetto, mistero e suspence, per tenere vivo l’interesse dello spettatore. Sto cercando di rendere l’italiano uno strumento adatto a me. Sto stravolgendo un poco la vostra lingua madre (pag. 364).
Christiana de Caldas Brito è autrice di Amanda Olinda Azzurra e le altre (Lilith, 1998, Oedipus, 2004),La storia di Adelaide e Marco per bambini (Il Grappolo, 2000), Qui e là: racconti (Cosmo Iannone 2004) e del romanzo Cinquecento temporali (Cosmo Iannone, 2006). I suoi racconti inducono a sedersi davanti al mare ad ascoltarne la voce e cercare nella sua capigliatura nera e ondulata il ponte che congiunge il continente americano al nostro vecchio continente eurasiatico. L’italiano della Caldas Brito ci racconta storie inaudite – o udite da bambini, tutti i bambini del mondo hanno udito storie magiche da una nonna o una vecchia zia – in un linguaggio fantasmagorico e fantasmatico in cui le parole si uniscono in suoni onomatopeici di espressiva densità. Ma la sua non è una scrittura sperimentale bensì frutto consapevole di ibridazione tra l’italiano e la propria lingua madre. Suoi testi teatrali sono stati messi in scena più volte, in particolare Ana de Jesus presente originariamente come racconto in Amanda Olinda Azzurra e le altre.
Julio Monteiro Martins è nato in Brasile, ha girato il mondo insegnando letteratura e scrittura creativa negli Usa, a Rio de Janeiro, in Portogallo ed infine in Italia dove vi è giunto come importato d’amore. Ha vissuto anche a Parigi e in Giappone. Ha al suo attivo scritti nelle varie lingue che lo hanno ospitato e attraversato. In italiano si segnalano quattro testi: Racconti italiani (Besa, 2000), La passione del vuoto (Besa, 2003),Madrelingua: romanzo (Besa, 2005) e quest’anno L’amore scritto: frammenti di narrativa e brevi racconti sulle più svariate forme in cui si presenta l’amore (Besa, 2007). La sua vita è un romanzo e le sue opere ne danno piena testimonianza. La poetica la si può sintetizzare con queste sue parole: La mia lingua è quella con qui dirò parolacce quando mi pesteranno un piede. … Quella con cui penso il discorsetto che voglio fare a quella ragazza che mi piace … Ora è l’italiano. La mia prima lingua è quella del tempo presente, l’unica dimensione che veramente esiste. Nel ’72 la mia lingua era il francese, quando ho scritto i miei libri in Brasile era ovviamente il portoghese, quando ho scritto “Racconti italiani” era ovviamente l’italiano. La sua mutevole opera presenta un vitalismo che deriva sicuramente dal suo essere giramondo e per lui si può dire senza tema di smentita che l’erranza è l’esperienza più vicina alla vita. Per altri invece vale – e quanto vale!, praticamente la vita stessa – l’affermazione di Monteiro quando sorprendentemente sostiene: Io credo che l’emigrazione sia l’esperienza umana più vicina alla morte.
Quello che Bregola afferma per Egidio Molinas Leiva, autore del romanzo La notte dello Yacaré, – i riferimenti letterari sono da ricondurre a una straordinaria stagione dell’America Latina, cioè a quel momento quasi magico, intorno agli anni Sessanta, contemporaneo al processo di autocoscienza politica, che ha conosciuto una strabiliante fioritura letteraria: Sabato, Cortazar, Roa Bastos, Vargas Llosa, Garcia Marquez, Fuentes e Puig – si può estendere tranquillamente a tutti gli scrittori provenienti dall’America latina. I frutti della scrittura di questi autori sono indubbiamente di alto livello, per cui i brani qui antologizzati devono essere considerati come un invito alla lettura ai testi completi.
Parte seconda La letteratura della migrazione nell’Europa Occidentale
La seconda parte – La letteratura della migrazione nell’Europa Occidentale – in quattro capitoli tratta della migrazione verso la Germania (italiani e non solo), la Gran Bretagna (come sopra) e la Francia. Il quarto ed ultimo capitolo è di Jean-Jacques Marchand, anche curatore ed autore dell’unica opera (La letteratura dell’emigrazione: gli scrittori di lingua italiana nel mondo Torino, Ediz. Fondazione G. Agnelli, 1991. 639 p.) sugli scrittori italiani emigrati nel mondo. La tesi di Marchand è suggestiva. Rifacendosi ad una intuizione di Armando Gnisci a Roma e di Raffaele Taddeo a Milano, l’autore sostiene che il Nuovo planetario italiano è in realtà un dittico: Questo fenomeno di produzione letteraria concepito come un dittico – le opere scritte dagli emigrati italiani in tutto il mondo e le opere scritte da immigrati in Italia da tutto il mondo – rappresenta un unicum nella storia della letteratura europea.
Mentre sul secondo pannello del dittico – gli stranieri che scrivono in italiano – ormai l’interesse e gli studi non sono proprio alle prime armi; per il primo – gli italiani scrittori nel mondo – se non ci fosse stata l’opera pionieristica e praticamente unica di Jean-Jacques Marchand nel ’91 del secolo scorso, il silenzio sarebbe stato veramente assordante. Qui il discorso si allargherebbe molto, ma bisogna pur dire che i nostri emigranti all’estero venivano considerati solo per le loro rimesse economiche e non certo per le loro produzioni letterarie. Eppure in lingua inglese troviamo autori come Mario Puzo o John Fante, tradotti e con molto successo in italiano. Solo ora forse è possibile iniziare un discorso sugli scrittori italiani nel mondo nelle varie lingue di approdo. E forse sono anche maturi i tempi per una bibliografia di orientamento non episodica.
Parte terza Cinema, teatro, musica
La terza e ultima parte – Cinema, teatro, musica – in tre capitoli affronta aspetti fondamentali della produzione artistica dei migranti, con andamento altalenante, nel senso che il cinema è sui migranti, il teatro e la musica sono fatti dai migranti. Chiariamo meglio il concetto.
Il primo capitolo, di Angela Gregorini – Ad occhi aperti. Visioni e ascolti dal nuovo cinema documentario italiano – si incentra sulla produzione documentaristica italiana sul fenomeno della migrazione. Ma su quindici titoli citati solo due vedono la collaborazione di stranieri: A metà (2002), inchiesta a quattro, due autori italiani – Andrea Segre e Francesco Cressati – e due albanesi – Dritan Taulla ed Elidon Lamani; Rom (uomini)(2001) di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Da ricordare anche Rom tour di Silvio Soldini in collaborazione con Antonio Tabucchi, attore e ispiratore del documentario (è suo il testo Gli zingari e il rinascimento: vivere da rom a Firenze, Milano Feltrinelli, 1999): film e libro da consigliare a tutti ma caldamente al sindaco ed agli amministratori della civilissima (!) città di Firenze.
In questo capitolo vi è anche un rapido paragrafo sui film prodotti da registi italiani in questi diciassette anni di massiccio fenomeno migratorio. Si va dal Pummarò di Michele Placido del 1990 al Saimir di Francesco Munzi del 2005, passando per film importanti come L’articolo 2 (1993) di Maurizio Zaccaro (una copia regalata dal regista, autografata, è presente alla biblioteca Dergano-Bovisa di Milano), Un’anima divisa in due (1993) di Soldini, il potente Lamerica (1994) di Gianni Amelio ed ultimo Quando sei nato non puoi più nasconderti(2005) di Marco Tullio Giordana. Nel frattempo sono diventati attivi come registi anche immigrati eccellenti come Ferzan Ozpetek e Marco Bechis. Ed è strano quindi che manchi l’analisi della loro filmografia. I loro film trattano tematiche tali per cui li possiamo considerare nostri amici e sodali nel cammino di decolonizzazione planetaria tanto auspicata da Gnisci. Il quale mette Ozpetek “ormai ai vertici del cinema d’autore in Italia“. Ma ora possiamo aggiornare il catalogo con un altro film girato da un autore straniero, Mohsen Melliti. Intenso e drammatico, girato quasi esclusivamente in mare aperto su di un piccolo peschereccio: Io, l’altro già nel titolo indica l’idea dello scontro e della difficoltà del rapporto tra un siciliano ed un tunisino, in una realtà in cui quasi è possibile lo scambio di vita tra i due pescatori. Ma basta un malinteso causato da una notizia piovuta dall’esterno per far esplodere tutte le paure e le reciproche incomprensioni indotte da una campagna diffamatoria e razzista nei confronti degli immigrati, tutti parificati a delinquenti o a terroristi. Il film girato in mare aperto fornisce però per i temi trattati quasi una sensazione di soffocamento come se fosse un film claustrofobico. Da vedere assolutamente. C’è inoltre da segnalare un altro film, sfuggito all’elencazione della Gregorini, I figli della notte di Rachid Benhadj tratto dal libro di Mohsen Melliti I bambini delle rose, e la collaborazione a vario titolo al mondo cinematografico di altri due autori migranti: Parviz R. Parvizyan e Nader Ghazvinizadeh. Questi ha firmato la sceneggiatura di due film, Drobgnac e Apocalisse in via Orfeo, mentre il primo è venuto in Italia per perfezionare i suoi studi cinematografici iniziati in Iran.
Nel secondo capitolo – Voci africane in scena. Per una prima ricognizione – Marie-José Hoyet affronta la scrittura teatrale delimitando il campo alla sola Africa. Ma anche così il panorama è molto vasto. La scrittura teatrale, pur essendo apparsa in tempi più vicini a noi rispetto alle altre forme letterarie (poesie, racconti, romanzi brevi compaiono già alla fine degli anni ottanta mentre i testi teatrali e la loro messa in opera si presentano sulla scena italiana dieci anni dopo) e pur vivendo aggravate le ristrettezze economiche del settore, mostra una vivacità non indifferente che la porta ad uscire dai luoghi canonici del volontariato, delle scuole e delle biblioteche. Il capitolo della Hoyet offre una rapida ed esauriente carrellata di autori, compagnie, rassegne e progetti sparsi per tutta l’Italia. Aspettiamo in una prossima edizione l’apertura al mondo intero.
Il terzo capitolo – Vibrazioni da altrove: un’inchiesta sulla musica dei migranti in Italia – di Sonia Sabelli, traccia un quadro articolato e approfondito della musica dei migranti in Italia. Il meticciamento e la creolizzazione sono praticamente ubiqui nella produzione musicale di singoli musicisti o gruppi musicali. Le sonorità attraversano fiumi e mari, deserti e oasi, valli e montagne, prendendo modulazioni nuove e impensate, fisse e cangianti, in un caleidoscopico crescendo in cui il suono si sostituisce alla luce. Bene dice la Sabelli che la musica registra e conserva le tracce dei flussi migratori che attraversano la terra: esse sono le uniche vere novità in una cultura come quella occidentale, per troppo tempo chiusa su se stessa. Ma subito dopo aggiunge che la sua disseminazione dall’Africa nera è avvenuta con gli schiavi e come reazione alla schiavitù.
A mo’ di conclusione – e prendendo alla lettera Gnisci quando nei ringraziamenti (pag. 9) sostiene che le mancanze e gli errori vanno caricati sul mio conto. E spero che me li segnaliate – non possiamo non lamentare l’assenza di un apparato di consultazione all’altezza dell’argomento trattato. Un’opera di tal fatta – in una prossima auspicabilissima edizione – avrà bisogno di un indice analitico ben articolato. E non sarebbe affatto superfluo aggiungere delle brevi note bio-bibliografiche sugli autori dei contributi. E’ inoltre da rilevare che mentre i saggi sono ben evidenziati non altrettanto avviene per la parte antologica: questa andrebbe evidenziata tipograficamente per una migliore leggibilità complessiva. Sono peccati assolutamente veniali rispetto all’importanza dell’opera nel suo complesso.
(1) Basta ricordare qui l’altro studio sistematico – ma non antologico – di Raffaele Taddeo “Letteratura nascente: letteratura italiana della migrazione. Autori e poetiche” uscito nel marzo 2006 per la casa editrice Raccoltoedizioni. Oltre alle due antologie citate dal curatore alla nota 29 (pag. 34), ricordiamo un’altra antologia scolastica della Mondadori uscita nel 1995, curata da Marcella Cavagnera e Laura Morasso – Voci dal Sud del mondo – con testi di Francis Bebey, Luis Bernardo Honwana, Mouloud Mammeri, Salwa Salem, Rigoberta Menchù, Luis Sepulveda, Ravinder Randhawa, Pap Khouma, SalahMethnani, Ousmane Sembene, Buchi Emecheta, Isabel Allende, Leonardo Sciascia, Peter Abrahamas, Zoe Wicomb, Bessie Head, Thomas Mofolo. Testo corredato di un apparato didattico curato da Tea Noja (in grassetto gli autori migranti in Italia).
(2) Autori antologizzati:
Capitolo I° L’Europa venuta dall’Europa di M. C. Mauceri: Gezim Hajdari, Ron Kubati, Mihai Mircea Butcovan, Vesna Stanic, Bozidar Stanisic, Tamara Jadrejcic, Jarmila Ockayova, Barbara Serdakowski, Helene Paraskeva.
Capitolo II° Maghreb di A. Lakhous: Salah Methnani, Mohamed Bouchane, Mohsen Melliti, Tahar Lamri, Mohamed Akalay, Abdelkader Daghmoumi, Mina Boulhanna, Amor Dekhis, Brahim Achir, Bouzidy Aziz.
Capitolo III° L’Africa nera oceanica e lontana di G. Iaconis: Pap Khouma, Kossi Komla-Ebri, Mbacke Gadji, Yogo Ngana Ndjock, Genevieve Makaping, Pedro Miguel, Jean Leonard Touadi.
Capitolo IV° Corno d’Africa. L’ex-impero italiano di Ali Mumin Ahad: Garane Garane, Gabriella Ghermandi, Cristina Ali Farah, Habté Weldemariam, Ali Mumin Ahad, Ribka Sibhatu.
Capitolo V° L’Asia mediterranea o vicino Oriente di M. Lecomte: Hasan Atiya al Nassar, Alon Altaras, Nader Ghazvinizadeh, Rula Jebreal, Thea Laitef, Muin Madih Masri, Parviz R. Parvizyan, Younis Tawfik, Yousef Wakkas. Capitolo VI° Continenti asiatici e popoli dimenticati di S. Camilotti: Bamboo Hirst, Lily Amber Layla Wadia, Alexian Santino Spinelli.
Capitolo VII° America latina in Italia di D. Bregola: Heleno Oliveira, Vera Lucia de Oliveira, Marcia Theophilo, Rosana Crispim da Costa, Christiana de Caldas Brito, Julio Monteiro Martins, Clementina Sandra Ammendola, Egidio Molinas Leiva.
(3) Smari ha al suo attivo i testi inediti, stampati come letteratura grigia dalla Biblioteca Dergano-Bovisa, a cura del Centro Culturale Multietnico La Tenda: Il poeta si diverte: commedia in tre atti, Quaderno n. 14, 1997; I ragazzi dell’Atlantide: racconti inediti, Quaderno n. 11, 1997. Il versatile impegno di Abdelmalek Smari si è rivolto anche alla traduzione. E’ sua per esempio la versione di un testo di Rachid Boudjedra Gente dov’è la fuga? La battaglia dello stretto, anch’esso a cura del Centro Culturale Multietnico La Tenda, Biblioteca Dergano-Bovisa, Quaderno n. 9, 1996.
(4) Quest’ultimo romanzo era già apparso, quasi uno samizdat, nel 1995 col titolo leggermente diverso Fiamme nel paradiso, a cura del Centro Culturale Multietnico La Tenda, Milano, Biblioteca Dergano-Bovisa, Quaderno n. 2.
(5) Come ne La lingua strappata: testimonianze e letteratura migranti a cura di Alberto Ibba e Raffaele Taddeo, Leoncavallo libri, 1999.
(6) Ricordiamo qui un altro autore senegalese Saidou Moussa, che insieme a Alessandro Micheletti, ha pubblicato La promessa di Hamadi nel 1991 per la De Agostini e nel 1995 La memoria di A. (De Agostini e Gruppo Abele).
(7) Già uscito in versione reprografica a cura del Centro Culturale Multietnico La Tenda e della Biblioteca Dergano-Bovisa nel 2000, Quaderno n. 16.
(8) Di Edouard Glissant segnaliamo in italiano almeno Poetica del diverso (Meltemi, 1998) e Il quarto secolo (Edizioni Lavoro, 2003).
(9) Da qui verso casa’ (Edizioni interculturali, 2002) e Il catalogo delle voci. Colloqui con poeti migranti (Cosmo Iannone 2005).
Milano 09-10-2007 (f. c.)
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