il confine

Quantus tremor est futurus (che paura ci sarà)
Uscì dal portone e fuori c’era una città scura. Anche se era giorno.
Grigio. Marrone scuro. Color fuliggine. Aveva piovuto ma faceva caldo.
Quella era casa sua? Ma sì, certo che era casa sua. Di chi altro avrebbe dovuto essere? E quella era la sua città, in una mattina solita.
Si sentiva un po’ confuso, anche perché la sera prima era stato a quella cena e doveva aver bevuto un bel po’.
– Nemmeno mi ricordo di essere tornato a casa. Eppure eccomi qua!
L’edicolante che aveva il baracchino a pochi metri dal portone lo salutò come faceva ogni mattina. – Ciao, Gabri! Hai una faccia, oggi!
Si sentì un po’ meglio.
Gabriele era lui. Si chiamava proprio così, Gabriele Rocca.
– Ciao… ciao… ehm. – Non riusciva a ricordarsi il nome. Aveva davvero bevuto parecchio, la sera prima.
Si girò distrattamente e, appoggiato a un palo della luce, vide un tale, pantaloni lunghi neri e camicia bianca di quelle larghe, leggere.
Non gli piacevano quegli occhi e non gli piaceva come lo guardavano.
Ma lui non aveva nulla da nascondere, no?
Salì in macchina e andò al lavoro.

Uscì dal portone ancora una volta e ancora una volta lui era lì. Quante mattine erano passate? Il caldo non faceva che aumentare ogni giorno.
Il tizio era sempre lì e lo guardava e basta, ma quello sguardo ormai Gabriele non riusciva più a reggerlo. Cosa poteva volere da lui?
Non aveva nulla da nascondere, no? O meglio, come faceva quel tale in camicia a sapere ciò che lui aveva fatto?
Non poteva. Non lo sapeva nessuno.
Quasi quasi non se la ricordava nemmeno lui, la faccia di quella ragazzina. Era un capitolo chiuso da tanto, a caro prezzo. Aveva sofferto abbastanza. Una terribile, lacerante ferita interiore. Forse avrebbe fatto meglio a costituirsi e confessare.
Ormai era tardi per i ripensamenti. Era andata così. Tanto meglio o tanto peggio. Però lui era ancora in giro ed era finita. Tutto sepolto, sottoterra per sempre. Si asciugò la fronte, comprò il giornale.
Prese l’automobile e andò al lavoro.

Ormai non aveva più desiderio di uscire di casa, perché sapeva che quella specie di demonio sarebbe stata lì ad aspettarlo. Sperava di no, ma sapeva di sì. Avrebbe incrociato quello sguardo.
Quella volta però non si diresse verso la macchina. Il caldo lo faceva sragionare. Non dormiva più da giorni. Da quanti?
Le prime volte era stato niente. Poi invece quello sguardo aveva preso pian piano a penetrare i suoi strati protettivi, che non erano resistenti quanto fino a quel momento aveva creduto.
Forse avrebbe dovuto farci sopra una bella risata. Aveva sempre avuto un gran bel senso dell’umorismo. Ma ora non aveva più voglia né di averlo né di usarlo.
L’aveva perso uscendo di casa, davanti a quell’uomo che lo spaventava a morte.
Sì, a morte.
Uscì per l’ennesima volta e quell’uomo per la prima volta si mosse. Veniva verso di lui. Allora salì in macchina e accelerò. Quello fece la stessa cosa.
La macchina di Gabriele Rocca fu trovata a quattrocento chilometri di distanza. Di lui nessuna traccia.

Quando iudex est venturus (quando il giudice verrà)
Gabriele Maria Arnolfini uscì dal portone con addosso uno strano presentimento.
Fuori c’era un tale, pantaloni lunghi neri e camicia bianca di quelle larghe, leggere. Gettò verso di lui uno sguardo torvo e pieno di una strana luce.
– Mamma mia. E chi è?
Il vento gonfiò le maniche della camicia. Sembravano ali, ma non resero la figura meno minacciosa. Anzi, Gabriele fu colto dall’improvvisa paura che quello potesse alzarsi in volo e planargli addosso come un vampiro.
Si sentì ridicolo. – Ma dai!
Lo guardò meglio e si convinse che si trattava di un autista di una macchina di lusso che si era dimenticato a casa la giacca.
La fermata dell’autobus – aveva da tempo rinunciato a una macchina tutta sua perché così aveva un pensiero in meno – era proprio di fronte a casa. Per tutto il tempo che aspettò l’uomo continuò a fissarlo. Quando vide profilarsi la sagoma del 12, Gabriele tirò un sospiro di sollievo. Due minuti più tardi era sulla strada per l’ufficio.

La mattina dopo non ricordava più l’incontro con l’individuo, ma gli bastò incontrare il suo sguardo per provare la stessa inquietudine del giorno prima. Altra interminabile attesa alla fermata del bus. E poi via.
Altri giorni, stessa scena. Solo il caldo aumentava.
Ma Gabriele aveva imparato a cronometrare la sua uscita in modo da farla corrispondere con l’arrivo del 12. Tutto si consumava in un paio di minuti, che bastavano a rovinargli la giornata. Non dormiva più, aveva un perenne male allo stomaco.
Colpa dell’uomo dalla camicia bianca.
Un giorno Gabriele mancò la coincidenza tra la sua uscita dal portone e il passaggio del 12. Il tipo, come al solito, lo fissava.
Decise di fare come se niente fosse, ma dopo dieci minuti – Il pullmann aveva avuto un incidente, c’era traffico o era stato il tale con la camicia? – fu preso dal panico. Rientrò nel portone. Non salì neppure in casa. Rimase lì in piedi in attesa.
Fu solo dopo qualche ora passata a pensare nel vuoto che si decise a uscire. Il giovane era ancora lì.
Gabriele si mise a correre. L’altro gli fu subito dietro. Scappò, ma quello lo tallonava. Dopo quasi una notte di fuga senza meta, si trovò in una strada di campagna. Era solo. Non ce la faceva più dalla stanchezza. Si sentiva come quella volta che aveva fatto quella cosa che in ogni modo si era sforzato di dimenticare. No, non poteva pensarci. Si era lasciato alle spalle quel terribile sbaglio, lo aveva allontanato con discreto successo dalla sua vita.
Non riusciva più a correre, ma non poteva smettere di tenere un passo affrettato, tanta era la paura che quello spuntasse da dietro un albero. Gli voleva sicuramente fare del male e lui non poteva sedersi. Doveva stare in guardia, ma gli si chiudevano gli occhi.
Arrivò una macchina. Comprese che lui era in difficoltà e si fermò. Gabriele salì.
– Come ho fatto a non pensarci? – sibilò con voce piena di paura.
Alla guida c’era il giovane. Gabriele Maria Arnolfini scomparve nel nulla.

Cuncta stricte discussurus (A chiedere conto di ogni singola azione)
Gabriele Niccoli uscì dal portone per andare al lavoro e incontrò gli occhi di uno strano giovane con la faccia e la camicia bianche. Salì sulla sua automobile e scappò subito il più lontano possibile da quella visione sgradevole. Non sapeva perché. Sapeva solo che doveva correre. Lui era un coraggioso di natura e solo un’altra volta era scappato. Di fronte a una colpa, ma quello era un capitolo chiuso.
Un interminabile viaggio lo condusse a una spiaggia. Era giorno e la gente si divertiva. La gente rideva e prendeva il sole. Faceva solo un gran caldo, ma c’era il sollievo dell’acqua. Il posto era rassicurante, pieno di sole.
Gabriele però non si sentiva tranquillo.
Iniziò a camminare sulla sabbia, zigzagando tra gli ombrelloni. Risate, partite di pallone, sdraio, asciugamani. Arrivò a un baretto dove comprò una bottiglia di Coca Cola e iniziò a rilassarsi.
Più avanti c’era un campo di beach volley. Appoggiato a uno dei pali che sosteneva la rete, c’era lui, proprio l’uomo del portone.
Tutto svanì, eccetto l’angoscia.
Continuò a camminare, con quello sempre dietro. In un raptus, lanciò la bottiglia di vetro contro il giovane, che non si scompose nemmeno un po’.
– Vattene! – gridò lanciandogli contro manciate di sabbia. Niente.
Quello lo tallonava. Niente tregua, non gli restava altro da fare che fuggire.
Improvvisamente Gabriele perse di vista il suo persecutore. Si guardò intorno, ma niente. D’un tratto lo trapassò la sensazione di non essere nel posto giusto. Dov’era finito? Diede un’altra occhiata intorno. La spiaggia sembrava essersi allungata a dismisura, pareva chilometrica. Vide poi una lunghissima striscia bianca.
La oltrepassò. Dall’altra parte c’era una scritta: confine 5, distretto 56, sezione 4, Inferno.
– Cos’è, uno scherzo? – si domandò a voce alta.
– No, c’è molta scenografia, ma è tutto vero ciò che si legge e si dice qui. – Era il solito uomo, comparso dal nulla.
– Tu come ti chiami? – domandò Gabriele Niccoli. È incredibile come, trovandosi in una situazione terribile e assurda, a uno vengano da fare solo domande idiote.
– Gabriele, come te. Sono un angelo.
– Ma gli angeli non sono buoni? E allora perché mi perseguiti?
– Gli angeli sono giusti, e, sì, sono buono. Il cattivo sei tu, se è questo che vuoi sapere. Conosco la tua colpa. La conosciamo tutti, qui dentro.
Gabriele Niccoli si guardò intorno. Tutti ridevano, facevano il bagno e prendevano il sole. La sabbia era incandescente, sì, ma niente di insopportabile. L’angelo spiegò le ali e scomparve.
La prima mezz’ora fu una delizia pura. Poi Gabriele scoprì che non c’era niente da fare, oltre alla vita da spiaggia. Il popolo del mare, non avendo alcuna occupazione, si lamentava.
Il caffè non era buono, il sole era troppo forte, la crema solare non aveva il filtro giusto, la sabbia era più bella prima, le file di ombrelloni troppo poco distanziate, il gelato troppo sciolto. E ancora, ancora e ancora frasi inutili. Gabriele iniziò a ricordare cosa aveva fatto.
L’inferno è l’incapacità di vivere l’estate, di godere della luce.
Gabriele Niccoli occupò una sdraio e si presento ai vicini d’ombrellone, Gabriele Rocca e Gabriele Maria Arnolfini (stesso nome, stessa strada verso l’abisso). Poi si spalmò la crema e si unì al coro dei lamenti.