Atarassia

(…) Poi abituati a pensare che la morte
non costituisce nulla per noi, dal momento che
il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire,
e la morte altro non è che la sua assenza.(…)
Epicuro Lettera sulla felicità

Tutto è cominciato quando è bruciato l’arrosto. Stavo sbrigando più faccende insieme. Per questo è successo. Avevo appena messo i panni nella lavatrice. Mentre ne stendevo altri ho sentito l’odore di bruciato. Sono corsa a vedere. Era nero, ma con pazienza la parte superiore si sarebbe salvata.
È stato in quel momento che ho capito.
Non ero più Maria del giorno prima o dell’anno passato.
Maria di tutta una vita.
Devo spiegare.
Mio marito è un uomo particolare. Gran lavoratore. Faceva tutto lui. Anche ora sarà così. Io non dovevo nemmeno uscire per la spesa.
Ci ha sempre pensato da sé.
A volte l’ho potuto accompagnare.
È un uomo organizzato. Sono sicura che sta bene anche ora.
Ha sempre saputo cosa è meglio.
Io non sono mai stata intelligente.
Lavoravo bene in casa, a letto non gli ho mai detto di no.
Anche se mi sentivo male. Tanto non se n’è mai accorto.
Sembra una vita comoda è vero?
È così, non mi sono mai lamentata.
Ricordo anche che abbiamo un figlio. Chissà cosa ha pensato quando è successo. Vive in città. Somiglia molto al padre. Adolfo, mio marito, è contento di come è venuto su. Un uomo davvero. Somiglia a lui perché se avesse preso da me di certo sarebbe uno smidollato.
Ha sempre avuto ragione mio marito.
E anche sull’arrosto aveva ragione. L’aveva comprato per la cena e per il giorno dopo e anche per l’altro ancora. Una pietanza noi l’abbiamo mangiata di continuo finché non finiva. Dunque non potevo nascondere che ne era rimasto poco.
Sapevo già cosa avrebbe fatto.
È stato mentre ragionavo su questo che mi sono resa conto.
Non avevo più paura di lui. Una paura bonaria s’intende.
Non sentivo niente.
Quasi come ora.
Ricordo che spensi il fornello, misi l’arrosto nel vassoio, quando fu pulito dalla carne bruciacchiata rimasi a guardarlo come se ne valesse la pena. Senza disperarmi.
Poi tornai fuori a finire di stendere i panni .
Maria non ti riconosco. Pensai.
Ma era un pensiero senza nervatura. Come quando dici una cosa a cui non credi.
Nel campo dove c’è il filo per i panni ci sono i susini. Mi sembra di vederli. Tutti fioriti. Erano spuntati anche i narcisi, quelli li ho piantati io, i bulbi intendo. Sarà stato autunno. Però Adolfo li ha concimati se no non sarebbero mai nati.
Deve avere ragione anche su quello.
Ma io non la sentivo la primavera.
Magari dipende proprio dalla primavera ho pensato, ma poi ho appoggiato una mano sul cuore e non era lì a battere, allora l’ho cercato nel polso. Muto. Per questo non sentivo niente. Sono morta. Ho detto.
Sinceramente non mi importava. Ma poi ho ragionato che è impossibile morire e restare in piedi senza qualcuno che ti tiene.
Una cosa la sentivo al posto del cuore però. Una certa pesantezza. Non come si fa per dire. Ma proprio come un sasso. Più tiepido. Come un pezzo di legno forse. Esiste anche un legno che non galleggia tanto è pesante. Devo averlo sentito dire da mio padre una volta. Mi sembrava che il mio cuore si fosse trasformato in una roba che non galleggia. Però funzionava lo stesso. Camminavo.
E’ cominciata così questa storia. Me ne sono accorta subito dopo l’arrosto che non avevo più paura ma neanche qualcos’altro. Non avevo più niente che mi importava.
Quel giorno ho lavorato come sempre. Solo più lenta. Alla sera non ero stanca come al solito.
Quando Adolfo è arrivato a casa non ha visto che avevo pulito tutto e stirato e cambiato le tende, avevo messo quelle che lui dice: della bella stagione. Avevo fatto la pasta al ragù.
Ha visto solo che non piangevo per l’arrosto bruciato, ha urlato che sono una cretina e che dopo tanti anni non ho ancora imparato. Io lo guardavo ma non mi faceva paura. Non mi venivano le lacrime. Mi ha dato un calcio e non ho sentito dolore. Solo un rumore dentro al corpo. Le mie gambe erano già dure.
Me ne ha dati due o tre di calci negli stinchi. Non si è accorto che ormai era inutile.
Dalla rabbia mi ha rovesciato in testa l’olio dell’arrosto. C’erano anche dei pezzettini neri. Sui miei capelli grigi non si vedevano tanto. Però si sentiva l’odore, era buono. Ma io non avevo fame. E nemmeno sete. E non dovevo andare al bagno.
È stato facile, mi sono trasformata senza dolore né poesia. Sono salita in camera, le gambe si piegavano male su per le scale. Mi sono appoggiata alla finestra. Stare immobile era una novità. Ascoltavo. Tutto in me si irrigidiva. Lo accettavo. Non avevo paura.
Ma nemmeno ero contenta.
Dall’altra parte della stanza c’è l’armadio con lo specchio. È stato allora che ho capito. Ho visto riflesso un mobile sconosciuto. Un comò di legno nero con i gambi un po’ storti. Come le mie gambe ho detto. Mi sono venute storte anche da mobile. E poi non ho più potuto vedere. Gli occhi sono diventati pomelli. O nodi del legno. All’inizio sentivo gli odori e anche mio marito che urlava. Pensava che fossi scappata dalla finestra. Era infuriato perché credeva che avessi speso i suoi soldi per quel mobile lì che non serviva a nulla. Aveva anche sbatacchiato i miei cassetti vuoti.
Adesso tutto è silenzio, il legno ha riempito i buchi delle orecchie. E quelli del naso. Se ne sta andando anche la memoria. Ricordo questo che è successo dopo aver bruciato l’arrosto.
Tutta la mia vita è ferma nelle venature del legno.
Sono di ebano. E’ nero l’ebano. È pesante. È quello che non ce la fa a galleggiare. Mi è tornato in mente. Lo diceva mio padre. Una delle poche cose che ricordo di quando ero piccola insieme a un burattino di Pinocchio. Lo vedo ancora. Stava sul letto.
Chissà cosa volevo da bambina.