Babbo Natale e l’Uomo nero, ovvero dell’incontro

«Dai, prendilo, sono sicura che ti piacerà!».
Era diventato abituale, nello scorrere dei lunghi anni che li avevano visto affiancati, scambiarsi i testi da leggere con quella sua giovane amica. A tal punto che si domandavano  a vicenda, di tanto in tanto, ove fosse andato a nascondersi il tal volume che non si riusciva a trovare, e se potesse trovarsi sepolto in qualche anfratto della casa dell’una o dell’altro.
L’uomo se ne tornò a casa con quel libro stretto in mano, già impaziente di iniziarne la lettura. Lungo il percorso si imbatté in uno degli innumerevoli e soffocanti ingorghi stradali che mortificano in un’avvilente morsa giornaliera la vita di quella città mediterranea adagiata sul mare e onusta di millenarie stratificazioni di etnìe e di culture, colorandola delle tinte della follìa collettiva d’una umanità sempre più incapace di carpire gli impalpabili tesori della vita. Resosi conto che la sosta forzata sarebbe stata, per l’ennesima volta nel suo andirivieni settimanale, piuttosto lunga, assordato dal frenetico e sconcio concerto dei clacson impazziti, prese in mano con un gesto di stizzosa rivolta interiore il volume che aveva deposto accanto a sé sul sedile anteriore dell’auto e, quasi a voler difendersi dall’umanità ferina che lo circondava, iniziò a sfogliarne le pagine, soffermandosi poi sulla quarta di copertina, dedicata come sempre all’autore: a quello scrittore del quale tanto gli aveva parlato –  rilevandone le doti di scrittura sostenute dalla leggerezza dei toni intrisi di pungente ironia – l’amica. Insieme alle brevi note bio-bibliografiche e alla canonica nota editoriale, la pagina riproduceva la foto, una bella foto, dell’autore: un uomo dall’aspetto gioviale, dalla scura pelle color della terra, dal sorriso aperto e accattivante, dallo sguardo penetrante e colmo di umanità. Un viso, insomma, che ispirava immediata fiducia; e uno sguardo che sembrava penetrarti nell’animo, quasi volesse porti domande sulla tua vita, sulle tue ascose pene, sui tuoi sogni.
Divincolatosi a fatica dalla ferrea morsa del traffico impazzito, riuscì ad avvicinarsi alla mèta agognata, ove sperava di poter trovare finalmente quel riposo che aveva bramato nelle lunghe ore della giornata di lavoro. Prima ancora di fare ingresso nel proprio appartamento, si sorprese a rimemorare la paura dell’Uomo nero che ossessionava i bambini nelle lontananti stagioni delle Scuole Elementari: una paura che ghermiva le compagnette (anche quella deliziosa bimbetta dagli ammalianti occhi cangianti, che gli faceva battere forte il cuore e ch’egli si precipitava, ogni volta che l’angoscia la soffocava, a rassicurare…) e i compagnetti di scuola ai quali, di lui meno fortunati, i genitori continuavano ad instillare terrore con l’evocazione di quell’Uomo nero che incombeva minaccioso al calar delle ombre, pronto ad intervenire su puntuale richiesta genitoriale per investirli con rimbrotti riservati alle loro marachelle e per comminare tremende punizioni, la più temuta delle quali consisteva nel fatto che proprio lui, l’Uomo nero, avrebbe finito per accusare i discoli a quel brav’uomo di Babbo Natale. Girando la chiave nella toppa della porta d’ingresso dell’appartamento silente e solitario, gli tornò in mente d’un tratto che fin da allora, fin da quei tempi ormai così lontani, aveva preso a nutrire una istintiva simpatia, fra quei due personaggi incombenti sulla vita giornaliera delle stagioni infantili, proprio per il terrificante Uomo nero, piuttosto che non per quel pacioso Babbo Natale che, sotto i pacchiani e ridicoli paramenti indossati nelle raffigurazioni che all’approssimarsi delle Festività di fine anno iniziavano a sorgere ad ogni angolo della strada ossessionandolo, gli dava sempre l’impressione, anno dopo anno, di essere un personaggio mellifluo, un portatore di maschera, uno dei tanti portatori di maschera che, crescendo, avrebbe poi finito per incontrare nel corso del suo faticoso cammino da adulto. Ma c’era anche una domanda che, per lunghi anni, aveva preso a frullargli in mente: «Ma sarà vero, poi, che l’Uomo nero e Babbo Natale si incontrano e si soffermano a parlare tra di loro ?». Dopo essersi dedicato alle abluzioni e aver  mandato giù di mala voglia un boccone, distesosi finalmente sul letto chiuse la giornata iniziando la lettura di quel libro che l’amica lo aveva spinto a portare con sé. Lesse voracemente, pagina dopo pagina, non accorgendosi del trascorrere delle ore. Spense l’abat-jour quando il tenue luccicore dell’alba aveva preso già ad insinuarsi tra le fessure delle persiane. L’indomani, appena incontrata la donna, non aveva potuto fare a meno di dirle, restituendole il volume, che sentiva il bisogno di ringraziarla per il prezioso consiglio di lettura che aveva voluto donargli. «Te l’avevo detto ! Ti conosco bene, ormai, ed ero certa che ti sarebbe piaciuto. Posseggo altri scritti di quest’autore, anche un romanzo. Te li passerò», fu la replica immediata dell’amica.

Trascorsero alcuni anni, scivolati via in quell’inesorabile fluire del tempo che sembra volerti crudelmente ricordare, minaccioso, quanto non hai compiuto dei tuoi sogni, quante occasioni hai lasciato ciecamente che ti sfilassero ai fianchi, su quanto di inutile e di vacuo ti sei affannato a sprecare delle tue energie. Con lo scrittore avevano intrapreso a scambiarsi ormai alcune mail, intrattenendosi di quando in quando in cordiali conversazioni telefoniche. Dopo alcuni incontri facilitati dallo svolgersi di eventi culturali nei quali erano stati ambedue coinvolti, quell’uomo, ch’egli aveva già preso a vivere nel proprio animo come un diletto “amico di carta”, era diventato, quasi senza che se ne accorgesse, un vero e caro amico, uno di coloro che vorresti sempre avere accanto, uno di quei pochi individui con i quali vorresti poterti confrontare costantemente su tutto ciò che il Mondo disumano, preda della propria cieca cupidigia, offre ora dopo ora, con inesausta generosità, di ingiustizie e di violenze, di brutalità e di sozzure.
Una serata conviviale, organizzata nella città mediterranea a conclusione di alcune giornate di lavoro che avevano tenuti impegnati individui convenuti da ogni dove, vede riuniti intorno ad un lungo tavolo di una chiassosa trattoria donne e uomini nati in diversi Paesi, di variegate origini etniche e di disparate formazioni ideo-culturali. I conversari si intrecciano (nel frenetico succedersi di succulenti piatti locali scaraventati sul tavolo dal gestore del locale e nell’abbondante fluire delle libagioni, non sempre accompagnate in verità dalla qualità dei liquidi ingurgitati) con andamento che viene assumendo toni progressivamente sempre più confidenziali. Allo scrittore qualcuno degli astanti chiede come e quando avesse fatto la conoscenza di quel suo amico che, seduto al suo fianco, gli stava intanto rabboccando il bicchiere. L’uomo inizia il racconto fin dal primo contatto intervenuto, non celando di esser rimasto sorpreso da quella mail con la quale qualcuno, che viveva in una città lontanissima da quella della sua residenza, gli aveva chiesto di poter fare la sua conoscenza, pronto a raggiungerlo qualora gli fossero stati fissati luogo data e orario di incontro. Aggiungendo anche, con un sorriso malizioso, di poter ormai confessare che alla moglie (che gli aveva chiesto lumi su quello strano appuntamento ch’egli era stato costretto a fissare per l’insistenza di uno sconosciuto) aveva confidato di sperare di riuscire a liquidare quell’individuo dopo un breve incontro formale, giusto per la voglia di non apparire scortese con lui. Risa fragorose si intrecciano da un lato all’altro della festosa tavolata di amici. Gli sguardi dei due uomini, seduti l’uno accanto all’altro, si incrociano nel silenzio ovattato subentrato al lento affievolirsi delle risa corali. Lo scrittore, appoggiato dalle voci degli altri, chiede all’amico di voler essere lui, ora, a continuare il racconto del loro primo incontro. «Bello scherzo che avete deciso di giocarmi tutti quanti, stasera… Va be’, tocca davvero proprio a me farlo, allora?», è la replica immediata di colui che aveva in qualche modo imposto all’amico quel loro primo incontro. Rivolgendosi a quest’ultimo, e lanciandogli uno sguardo colmo di complice affettività, l’uomo si precipita ad aggiungere, quasi fosse piombato d’improvviso nello stringente bisogno di aggrapparsi ad un incipit necessario alla prosecuzione della narrazione: «Prendi atto del fatto, caro amico mio, che l’hai voluto tu. E ben ti stia, allora… Non avrei mai potuto immaginare che mi sarebbe toccato di rivelarti a mia volta qualcosa, e  proprio questa sera… ». Il racconto viene snodandosi lentamente attraverso una minuziosa rimemorazione d’ogni minuto particolare, tra gli scherni affettuosi di coloro che, da sempre, accusano con affetto, e altrettale sincerità, il narratore di non riuscire a non essere prolisso: il suo prendere al volo, saltando all’ultimo istante utile sul predellino, il treno che lo avrebbe condotto dalla metropoli nella quale s’era trovato per ragioni di servizio alla stazioncina della cittadina ove risiedeva lo scrittore; l’arrivo a destinazione del treno con notevole quanto inusuale anticipo sull’orario schedulare; l’inutile ricerca, una volta sceso sul marciapiede rimasto vuoto in pochi minuti, della figura dello scrittore, fissata nella memoria dopo averne più volte consultato il blog sul web; l’immediata decisione di tirargli uno scherzo, trovandosi nelle condizioni di poter godere del vantaggio concessogli da quella che, ridacchiando tra sé e sé, aveva preso a definire come l’indubbia “diversità cromatica” esistente fra sé e l’altro. Uscendo in modo guardingo dall’edificio della stazioncina ferroviaria, aveva lanciato sguardi impazienti a destra e a manca, deluso dal fatto di non scorgere nei paraggi alcun individuo che potesse essere lo scrittore. Una larga piazzetta circolare s’era materializzata innanzi ai suoi occhi, al centro della quale lussureggianti aiuole fiorite facevano tenue barriera allo sguardo. Dal lato opposto alla facciata della stazione aveva adocchiato alcune panchine, discretamente adagiate ai piedi dei lindi edifici che facevano da corona alla piazzetta. Gettato un nuovo sguardo furtivo verso l’ingresso della stazione, e rassicurato dal fatto di vederlo ancora del tutto  vuoto di sagome umane, aveva iniziato a passeggiare in circolo, guardando le vetrine dei negozi che stavano riaprendo per l’approssimarsi dell’orario postmeridiano di apertura. Un oggetto aveva attirato la sua attenzione, attizzando immediatamente in lui l’idea di acquistarlo per farne omaggio, al rientro nella sua città, all’amica lontana ch’era responsabile, in fin dei conti, della decisione di effettuare quella sua trasferta allo scopo di far conoscenza dello scrittore. Aveva varcato la porta del negozio con aria decisa ma frettolosa, lanciando ad intermittenza ripetuti sguardi in direzione della piazza, che continuava ad apparire ancora deserta. La commessa, impegnata a confezionare il regalino ch’era stato acquistato, andava chiedendosi, non vedendo l’ora che uscisse dal negozio, cosa mai potesse nascondere quell’individuo dal comportamento inquietante. Una volta uscito dal negozio, accompagnato da un malcelato sospiro di sollievo della commessa, l’uomo s’era indirizzato con decisione verso una delle panchine, finendo per occuparne una e fingendo di immergersi nella lettura di un quotidiano che utilizzava, invece, da schermo protettivo per restare occultato agli occhi di coloro che avevano ripreso lentamente a transitare nei pressi della stazione. Pochi istanti dopo essersi seduto, s’era accorto del sopraggiungere dello scrittore, trafelato dalla fretta del passo. Non aveva avuto alcun dubbio: non poteva che essere lui, come certificava ai suoi occhi quella benemerita differenza cromatica che poteva permettergli di dar prosecuzione all’idea che gli era balenata in mente quando non lo aveva trovato ad attenderlo innanzi al binario. Preso gusto al benevolo scherzo partorito dalla sua mente, tornata in quel pomeriggio alle felici stagioni della spensierata fanciullezza, aveva assistito, immobile, al precipitarsi dell’uomo all’interno della stazione. S’era immediatamente imposto di continuare a schermarsi il volto dietro i fogli spiegazzati del quotidiano, restando immobile anche quando l’altro, uscito precipitosamente dall’edificio della stazione, aveva iniziato a lanciare sguardi febbrili, preoccupati e infine decisamente furiosi a destra e a manca alla ricerca di quell’individuo del quale pensava forse, in quegli istanti, che, dopo averlo importunato, aveva finito per tirargli uno scherzo da prete, un classico scherzo da pretaccio. Immedesimandosi nello stato d’animo che aveva potuto impadronirsi dello scrittore, egli aveva capito che sarebbe stato opportuno non indugiare oltre. Alzatosi dalla panchina, aveva attraversato la piazza con passo deciso, raggiungendo sul marciapiede l’uomo, il cui atteggiamento, con le pieghe del viso contratte, tradiva ormai un viluppo di delusione, di fastidio e, perché no, di comprensibile risentimento. Gli si era parato di fronte, sorgendo d’improvviso innanzi a lui nel superamento delle aiuole e scandendone il cognome con tono interrogativo (ma perché mai, poi? Nessun dubbio poteva sussistere sull’identità di quell’individuo rimasto ad attenderlo interdetto all’ingresso della stazione, privo ormai d’ogni labile traccia di anima viva). Un largo e sincero sorriso, involandosi dagli occhi vivaci e penetranti dello scrittore, s’era schiuso innanzi a lui, precedendo la vigorosa stretta di mano che i due stavano prontamente per scambiarsi. Decidendo di andare a consumare qualcosa di caldo, i due avevano raggiunto un locale. Erano rimasti a parlare per alcune ore, in modo guardingo da ambo le parti, agli inizi: per scrutarsi, per sondarsi negli animi. La conversazione era venuta indirizzandosi poi, a poco a poco, verso aperture progressive e forse non prevedibili, approdando infine a toni d’una naturale confidenzialità che nessuno dei due, prima di quello strano primo loro incontro,  avrebbe mai potuto lontanamente sospettare. Ad un certo punto, lanciando uno sguardo preoccupato sul quadrante dell’orologio, lo scrittore s’era premurato di ricordare al suo interlocutore che l’ultimo trenino utile per il rientro nell’algida metropoli del Nord del Paese avrebbe effettuato la sua rapida sosta alla stazioncina di lì a poco. S’erano precipitati insieme in direzione della stazione ferroviaria a passo sostenuto, sempre più sostenuto, continuando a parlare in modo concitato ed instancabile, a dispetto del fiatone che rischiava ormai di sopraffarli. Poi, sul marciapiede del binario, storditi dallo stridente sferragliare del trenino giunto alla sua fermata, era scoccato il più immediato, spontaneo e affettuoso degli abbracci. Col ricordo di quel primo, frettoloso eppur caloroso abbraccio, scambiato mentre la stridula sirena del trenino in partenza s’era già fatta viva, il narratore proclama a quel punto di ritenere di avere assolto a quanto gli era stato richiesto con insistenza dalla gioiosa brigata di amici.
La comitiva, una volta ascoltato fino in fondo il racconto e vista l’ora fattasi davvero ormai tarda, lascia libero il tavolo che aveva tenuto a lungo occupato – provocando sguardi ansiosi e preoccupati del gestore del locale – ed esce dalla trattoria. La gioiosa atmosfera dei commiati amicali non riesce a tener del tutto celato il rimpianto per le giornate trascorse insieme e giunte ormai al termine, né il desiderio di nuovi incontri. Scambiati circolarmente gli abbracci, il gruppo finisce con lo sciogliersi. Il narratore stanco rientra lentamente verso casa. Si sorprende a pensare, passo dopo passo, di aver forse esagerato nel condire di tanti particolari il racconto di quel suo primo incontro con lo scrittore. Ma, a lui, quell’incontro iniziale con l’“amico di carta” aveva schiuso subito, fin dal primo istante, nuovi orizzonti, nuovi sentieri di conoscenza. Quell’uomo gli aveva fatto riscoprire parti di se stesso rimaste a lungo silenti negli anfratti più ascosi dell’animo: non poteva che nutrire gratitudine nei suoi confronti. Così come avvertiva di nutrirne nei confronti di quella sua amica che, per prima, gli aveva messo in mano uno scritto di quell’autore. E pazienza se, ancora una volta, gli amici avrebbero detto di lui che quella sera, lanciandosi nella fluviale narrazione di quell’incontro, aveva dato loro l’ennesima conferma d’una connaturata ed inguaribile prolissità…
Pieno di dubbi e di incertezze sull’eventualità di aver finito per annoiare la brigata amicale rimasta eroicamente in ascolto della sua diffusa narrazione, inizia ad armeggiare con la chiave, nel tentativo di fiaccare la cocciuta resistenza che ogni sera, al rientro a casa, la toppa della porta  d’ingresso del suo appartamento gli oppone, in una sorta di crudele sfida alla stanchezza da lui accumulata nel corso dell’intera giornata. Inizia a svestirsi degli abiti che gli si son cuciti addosso fin dal mattino, accendendo con gesto meccanico il televisore, per apprendere cosa fosse accaduto nel mondo nel corso della giornata ormai languente. Muovendosi fra le stanze, in un andirivieni lento e pensoso, gli giungono in sottofondo, come ovattate, le roboanti frasi d’un qualche politicante di turno che si diffonde (irrefrenabile e non poco prolisso, a sua volta) sulla indilazionabilità di riforme da attuare, sulla necessità assoluta di stroncare la sempre più virulenta violenza messa in atto contro le donne, sui provvedimenti urgenti da varare per far fronte alla “piaga” dell’immigrazione, sulla necessità assoluta di ridare “centralità” alla Scuola e all’Università, sulla drammaticità della disoccupazione giovanile, e ancora, e ancora … Nulla di nuovo, insomma: un disco sbrecciato, come quelli la cui puntina bisognava spostare con delicatezza sul giradischi utilizzato durante le feste giovanili d’un tempo ormai inesorabilmente svanito. Tutti quei luoghi comuni, tutti quegli slogans triti e ritriti, tutto quel nauseante coacervo di moralismi e pregiudizi, tutta quella boria spavaldamente messa in scena iniziano a giungere attenuati a poco a poco al suo udito, in modo sempre più sfumato. Ad un certo punto, mentre si trova impegnato ad indossare il pigiama, gli giunge dall’apparecchio rimasto acceso nello studio, e in modo chiaro e distinto stavolta, una frase che stenta a credere sia stata davvero pronunciata da qualcuno intervistato nel corso di un qualche servizio andato in onda durante il suo andirivieni fra le stanze: «Chi può avere ancora paura dell’Uomo nero? Chi, se è proprio l’incontro con l’Altro a schiuderti lo spiraglio di conoscenza di quello che hai tenuto dentro?». Si precipita nello studio per verificare cosa fosse andato in onda, ma è ormai troppo tardi: la sigla di chiusura del telegiornale della notte sta già scorrendo sullo schermo. Spento il televisore, raggiunge la stanza da letto. Un libro è rimasto ad attenderlo sul comodino. Prima di distendersi sul letto, ritorna col pensiero allo scherzo che aveva fatto all’amico, a quello scherzo che aveva potuto architettare ai suoi danni, ben sapendo di poter godere di un privilegio: quello che aveva deciso di definire, fra sé e sé, della “diversità cromatica”. Preso in mano il libro (un poliziesco alla cui lettura sa di doversi aggrappare nel tentativo di vincere la sempiterna tenzone che notte dopo notte è aduso da anni ad incrociare con Morfeo), giura a se stesso che se mai dovesse avere la ventura di tornare ad incontrare, un giorno, la compagnetta delle Elementari (quella maliosa bimbetta dagli occhi seduttivi, sì proprio lei: era così carina e indifesa…), non avrebbe ormai più nessun dubbio sul modo da utilizzare, dopo averla fermata, per intrattenerla. Sì, le direbbe immediatamente, e tutto d’un fiato: «Te lo dicevo che non dovevi aver paura dell’Uomo nero, ricordi? È di Babbo Natale che avresti dovuto diffidare. E ti consiglio di continuare a diffidarne. Diffida di tutti i Babbi Natale, bimba mia, dei Babbi Natale che indossano parrucche e barbe posticce, che sono abili ad indossare maschere, e ancor più a diffondere mielosi fiumi di ammalianti parole: parole, sempre e soltanto parole…».