Biafra

QUANDO parliamo di questa donna, cominciamo sempre col dire: In che periodo Arrọ-yo ha messo piede! 1967. La terra si chiama Nigeria e la guerra del Biafra incombeva su di noi. Pesante e sporca. Chiunque si sarebbe dispiaciuto per Arrọ-yo. Non era questo il luogo che ricordava, ma la casa era pur sempre la casa.

‹‹Egoista,›› sibilò tra sé mentre si dirigeva verso casa, trattenendo le lacrime. ‹‹Sono stata così terribilmente egoista!››. Era stata via a lungo, a visitare il mondo. Ora, doveva tornare a casa. Aveva imparato tanto mentre era via. Conosceva il coraggio e la paura, conosceva il guadagno e la perdita, conosceva di certo l’amore e l’angoscia, ma ora si accingeva a conoscere la morte.

Ne aveva letto al ristorante mentre sedeva al sole, bevendo una tazza di tè con il latte. Qualcuno aveva lasciato il Time Magazine sul tavolo dopo aver finito di mangiare. Il titolo di copertina diceva: “L’agonia del Biafra”. Aveva quasi lasciato cadere la tazza calda. Poi, così come molti della nostra gente che erano all’estero, aveva sentito le parole nel profondo delle ossa.

Torna a casa!              

Il resto lo avrebbe imparato strada facendo. Vedete, le nostre terre avevano finalmente ottenuto ciò che gli inglesi chiamavano “indipendenza”. Ma quando un luogo è fatto di confini artificiali tratteggiati in modo strategico e imposti in modo categorico dagli stranieri, prima o poi ci saranno guai. Molti dei nuovi governanti furono scelti dagli inglesi, e questi uomini prescelti erano maghi e stregoni traviati. Si servivano di incantesimi juju come bastoni da passeggio magici per respingere i proiettili e di elisir segreti per prevenire l’avvelenamento. Portavano gli occhiali da sole per nascondere occhi secchi e rossi, occhi che sembravano sempre preoccupati perché riuscivano a vedere le loro vittorie, ma anche le loro morti.

Questi capi avevano rapporti con una donna dopo l’altra, privandole della forza vitale femminile poi buttandone via i corpi avvizziti, tristi. Ma quei corpi infranti partorivano ancora bambini, dando a questi uomini migliaia di figli per garantire che non si sarebbe perso alcun potere se fossero stati assassinati. Ciò, di sicuro, non aveva importanza, poiché i fattori ereditari sono ignorati in qualsiasi coup d’état.

Quando il comando del nostro paese fu carpito da un partito dopo l’altro, la frustrazione alla fine si tramutò in violenza. Il 30 maggio 1967, il capo della nostra tribù proclamò la terra della Regione Orientale della Nigeria come Repubblica del Biafra. Un nome imponente per un luogo imponente. Oh, come ci faceva pensare al grande impero del Biafra di così tanto tempo fa. ‹‹Lo riavremo  !›› gridavamo. Subito dopo, la Nigeria ci dichiarò guerra. Noi, gli uomini, le donne e i bambini della tribù Igbo diventammo i soldati del Biafra.

Domandavamo: ‹‹Igbo Kwenu[A1] ?!››.

Rispondevamo: ‹‹Sì!››.

Proprio mentre Arrọ-yo era di ritorno a casa, anche lei domandava e rispondeva a queste parole: ‹‹Igbo Kwenu?!››. ‹‹ Si!››.

Tornando in Nigeria, mentre era in volo verso casa, c’erano scontri nelle foreste e villaggi sventrati. I corpi erano deturpati e uccisi dai machete, inchiodati alle capanne, violentati, dilaniati dai proiettili e dalle bombe. Nel Biafra, inventammo la bomba Ogbunigwe e missili autoguidati terra-aria in nostro aiuto. Le donne divennero spie e soldati. Anche i bambini fecero la loro parte. Gli scienziati da entrambe le fazioni parlarono di armi nucleari e biologiche in fase di sviluppo. Ma le nostre armi non riuscirono a eguagliare quelle dei nigeriani, che erano fornite dagli stranieri. E così il nemico fu capace di tagliare i nostri rifornimenti di cibo e iniziammo a morire di fame, a perdere più in fretta.

Dopo essere stata via anni, era questa la terra belligerante in cui la nostra Arrọ-yo arrivò in volo. Non c’era posto per il senso di colpa qui, ma ne portava il peso e la consumava.

Il primo giorno in Nigeria, ancora a centinaia di miglia dal suo villaggio, si imbatté in un esodo. Ora lo vedeva con i suoi stessi occhi. Migliaia di persone stavano andando verso sud-est. Erano Igbo in fuga dal nord, di ritorno alla terra degli Igbo, quella che ora era chiamata Biafra. Erano stanchi, spaventati e affamati. Per un attimo, rimase lì a fissare.

Voleva continuare il viaggio verso casa, ma questa gente era disperata e lei aveva le capacità per poter aiutare.

‹‹Ho smesso di essere egoista››, disse tra sé.

Si avvicinò alla gente dicendo di essere un’infermiera. Trovò ciò di cui aveva bisogno nelle foreste vicine. Erbe, corteccia, fiori, foglie. Fece scendere le febbri, alleviò il dolore, suturò gli squarci da machete con la rafia di palma, estrasse i proiettili, aiutò la gente a combattere le infezioni, e ne vide alcuni morire. Non fu una cosa rapida per questa gente. Ci vollero notti e giorni di dolore, grida e a volte un’immobilità rassegnata.

Una volta Arrọ-yo sedette con una ragazzina di circa dieci anni. Si chiamava Onwuma e la sua famiglia era stata uccisa dai soldati che ne avevano assaltato il villaggio nel nord. La ragazzina non aveva nessuno che badasse a lei se non se stessa. Era troppo piccola e presto iniziò a soffrire di kwashiorkor. La ragazzina aveva mangiato solo delle manciate di riso crudo per settimane e la pancia era gonfia come se portasse un bambino dentro. La nostra Arrọ-yo sapeva che era troppo tardi per provare e aiutarla. La ragazzina giaceva immobile quella notte, con gli occhi aperti che guardavano attraverso gli alberi al cielo notturno. Tutt’intorno a loro, la gente dormiva.

‹‹Morirò presto››, disse Onwuma con dolcezza. ‹‹Mi stanno aspettando››.

Arrọ-yo asciugò la fronte della ragazzina con un panno bagnato. Scottava. Arrọ-yo non era sorpresa del modo in cui la ragazzina parlava. Il nome della ragazzina significava: ‹‹La morte sa››. Era un nome ogbanje. Questa ragazzina aveva forse sentito i richiami dagli amici nel mondo degli spiriti per tutta la vita. Ora che la famiglia della ragazzina era morta, non aveva nessuno che la tenesse in vita. Un bambino ogbanje era sempre dilaniato tra la famiglia e gli amici nel mondo degli spiriti.

‹‹Riesci a vederli?›› domandò Arrọ-yo alla ragazzina.

‹‹Sì››, disse. ‹‹Sono sopra di noi. Negli alberi››.

‹‹Che aspetto hanno, Onwuma?››

‹‹Sono come…›› ridacchiò con dolcezza. ‹‹Come lucertole grosse, graziose e verdi con delle code lunghe lunghe e ruvide››.

‹‹Cosa dicono?›› domandò Arrọ-yo.

‹‹Dicono…›› si affievolì in un sospiro. Rallentò il respiro. Arrọ-yo la scosse con delicatezza.

‹‹Cos’ è stato?›› domandò la ragazzina.

‹‹Ti stavo domandando cosa dicevano i tuoi amici,›› disse Arrọ-yo, lottando per mantenere la voce calma. La ragazzina era così giovane. Non aveva neanche visto tanto del mondo, almeno non in questa vita, pensò Arrọ-yo. E l’ultima parte della sua vita era stata piena di cose che nessun bambino avrebbe mai dovuto vedere.

‹‹Chi?››

‹‹I tuoi amici spiriti››.

‹‹Oh››, disse Onwuma dopo una lunga pausa. ‹‹Ce n’è uno con la zampa sulla tua spalla. Ti dice grazie; che mi si può lasciare andare ora››.

Poi chiuse gli occhi e non li riaprì mai più.

Subito dopo Arrọ-yo lasciò questo gruppo di persone, cercò di continuare verso casa, ma prima che riuscisse anche solo ad avvicinarsi al suo villaggio, si imbattè nella violenza vera. Il combattimento. Gli uomini si colpivano e sparavano a vicenda nelle foreste e nelle città e villaggi in rovina. Arrọ-yo ne vedeva molti morire ogni giorno. Volò in cielo per scappare da chi era disarmato, da chi portava i machete, da uomini disperati, fuori di testa che cercavano di attaccarla. Le spararono addosso alcune volte, ma in un modo o nell’altro fu capace di uscirne illesa. Dietro di lei, mentre volava in cielo, sentiva le grida di choc e di paura. Alcuni fuggivano, altri fissavano solo in alto. Altri ancora si buttavano per terra e le urlavano di perdonarli.

‹‹No!›› aveva urlato a sua volta, in lacrime. ‹‹Perdonate voi me!››.

La spirale di violenza si tramutò in un tornado, e la nostra Arrọ-yo, vulnerabile, piena di sensi di colpa, ne fu travolta con facilità. Non sapeva quanta gente salvava. C’erano bambini con le pance gonfie che trascinò via dalle fiamme. Uomini che faceva a pezzi con la spada per tentata violenza alle donne. Non distingueva più in quale lingua parlasse la gente. Non vedeva i segni tribali sulle guance o le fogge delle uniformi. La gente che combatteva le sembrava tutta uguale. Arrọ-yo prendeva le decisioni in base a chi era aggredito e a chi aggrediva.

La prima volta che vide gli uccelli giganti, pensò di aver messo in qualche modo piede in un altro mondo. Perché dove altro sarebbero esistiti simili mostri? Ma poi si rese conto che erano fatti di metallo. Ricordò che questi erano aerei.

Era stata nella foresta ad aiutare alcuni uomini e donne malati. C’erano anche dei bambini nel gruppo e una donna incinta. Si stava prendendo cura delle donne incinte quando, all’improvviso, ci fu il rumore di ali che sbattevano. Nessun cinguettio, stridìo rauco o fischio. Gli uccelli non facevano rumore eccetto per le ali che cercavano con frenesia di lanciarli in aria nel modo più rapido possibile. Non doveva guardare in alto per sapere che questi erano avvoltoi. Solo gli avvoltoi si comportavano così.

La donna che Arrọ-yo stava aiutando, respirò con affanno e sobbalzò. Così fecero tutti gli altri.

‹‹Cos’è stato?›› domandò, mentre teneva il braccio della donna incinta per non farla cadere. Prima che la donna potè rispondere, Arrọ-yo sentì il grido di guerra di una bestia enorme.

Grrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr!

Poi tutto esplose. Arrọ-yo fu scagliata contro un albero. Nell’istante in cui riorganizzò le idee, balzò in alto più in fretta che potè. I suoi vestiti erano coperti di sangue e grossi pezzi di carne umida. Tossì, le narici piene di fumo e sangue. Ma continuava a volare, sempre più in alto, il cuore le batteva come se le esplodesse dal petto. Respirava con la bocca aperta. Non appena fu abbastanza in alto da non sentire più l’odore del fumo, si voltò indietro.

Sfrecciavano avanti e indietro per la foresta, distruggendo ogni cosa vivente. Alberi, arbusti, cavallette, rampicanti, esseri umani, piante, gufi. Per alcuni istanti, la sua mente non riuscì a comprendere ciò che vedeva. Aveva visto così tante cose strabilianti nei suoi viaggi ma questo… disastro prodotto dall’uomo… non riusciva a capirlo.

Quando gli uccelli di metallo volarono via, lei volò in basso. Erano morti tutti. Proseguì nel volo. Non voleva essere nei paraggi quando gli avvoltoi sarebbero ritornati come sapeva avrebbero fatto. E altrove, c’era gente che era ancora viva e che aveva bisogno di lei. Aveva dimenticato che aveva bisogno di andare a casa. Per lei, qualsiasi luogo era diventato casa, erano tutti parenti che aveva abbandonato per andare a visitare altri luoghi.

Vide gli uccelli di metallo della distruzione molte altre volte dopo quella. Sapeva di non poterli fermare. Erano troppo grandi. Troppo veloci. Troppo crudeli. Iniziò a pattugliare i cieli. Dovunque gli uccelli di metallo fossero andati, ci sarebbero state persone bisognose, semmai fossero sopravvissute.

Quelli erano giorni di sangue. Lei faceva quel che poteva, ma alla fine volava sempre via. Come un uccello perso alla ricerca della casa. Ma c’era un uomo che non riusciva a convincersi di lasciare. L’aveva visto correre, voltarsi indietro verso il cielo mentre gli uccelli di metallo si avvicinavano. Ce n’erano molti altri che correvano. Ma quest’uomo l’aveva colpita mentre gli sfrecciava accanto.

Il volto non le era familiare. Era un uomo come un altro. Aveva la pelle scura, gli occhi erano spalancati, e urlava mentre correva. Poi le bombe esplosero e non riuscì più a vederlo. Dovette aspettare mentre gli uccelli di metallo lasciarono cadere il resto degli escrementi di morte. Poi si girarono e volarono via. All’orizzonte, ne vide arrivare un altro, ma non le importò. Volò comunque in basso.

Lo trovò ed era quasi morto. Era coperto del suo stesso sangue, i vestiti bruciati, il corpo tremante. Gli era scoppiato l’addome e non aveva più metà del volto. Invocava il Creatore in una lingua che Arrọ-yo non capiva. Dove trovò il respiro per parlare, lei non lo seppe mai. Gli tremava la voce e le labbra erano ricoperte di sangue. Arrọ-yo gli stava addosso, a bocca aperta. Senza parole.

Si strinse al petto. Il vestito azzurro era macchiato del sangue secco degli altri e del suo stesso sudore. Aveva volato per così tante miglia. Non ricordava l’ultima volta che aveva dormito. Riusciva a malapena a ricordare il proprio nome. Ma qui un altro uomo stava morendo, solo, ai suoi piedi. Fermo.

Cadde in ginocchio e prese la testa dell’uomo tra le braccia. L’uomo la guardò con il solo occhio aperto e smise di invocare il Creatore. Arrọ-yo sedette con la testa dell’uomo sul grembo finché il corpo dell’uomo smise di tremare.

Quando l’uomo morì, per lei fu come un risveglio. Ricordò di essere Arrọ-yo dalla regione di Calabar. Ma svegliarsi può essere doloroso. Si piegò in avanti sull’uomo morto, sentendo il vestito azzurro teso e lacerato. La stoffa era vecchia ora.

Sperava che l’aereo che aveva visto all’orizzonte si sarebbe affrettato a scaricare i suoi escrementi esplosivi. Così sarebbe finita. Fa’ che sia così, pensò. Ne ho abbastanza. Ne ho abbastanza. Ne ho abbastanza. Fa’ che rinasca in qualcosa di diverso da me stessa. Ma continuò a vivere e a respirare. E persino quando il corpo dell’uomo si fece freddo sul grembo, riuscì a sentire il richiamo del cielo.

Qualche minuto dopo, con attenzione, con premura, poggiò l’uomo a terra. Poi rimase in piedi diritta, finalmente libera da ciò che si era impossessato di lei da quando era tornata nel paese belligerante delle origini. Liberata dal senso di colpa. Poi volò verso casa.

Quelli di religione cristiana che lei salvava la invocavano come un angelo. Dicevano che era stata mandata dai cieli per aiutare chi aveva bisogno. I musulmani erano sicuri che fosse una serva di Allah. Altri la invocavano come Yemeja, Mami Wata, e molte altre cose. La gente ora poteva paragonarla a una supereroina di qualsiasi genere.

Ma era solo una donna. La nostra donna, la nostra Arrọ-yo.

E persino dopo tutto ciò, la nostra Arrọ-yo rimase. Restò. Non volò via; che vantaggio c’era per tutti a fuggire da casa? Persino quando la casa è in tumulto? Quando questa donna che sapeva volare trovò la sua casa, trovò bambini con la pancia gonfia, alcuni erano suoi nipoti. Trovò la madre con una pistola e lo sguardo selvaggio. Trovò il corpo del padre per terra, pieno di proiettili. E Arrọ-yo non volò mai più via.

Almeno è quello che dicono alcuni. Raccontiamo tutti storie su di lei. È una leggenda. Non tutti crediamo comunque che una simile donna possa essere mai caduta in terra; ma sono successe cose peggiori.


 [A1]Una sorta di grido di incoraggiamento e d’ identificazione tribale che prevede domanda e automatica risposta.

traduzione di Angela Caputo

versione in lingua originale