Bruce Meyer – I nidi terreni del canto

 

     “Ai poeti”, scriveva Saba nel 1911, “resta da fare la poesia onesta”.

     Poesia onesta è quella che nasce da una passione autentica, da un’intima necessità; la poesia del poeta fedele alla sua voce interiore e alla radice umana di ogni canto (Homo sum, humani nihil a me alienum puto); poesia i cui nidi, secondo la lezione di Unamuno, siano sulla terra e le cui alate sillabe non si perdano nell’azzurro quando spiccano il volo verso il sole, l’ideale in oro puro.

     Ai lettori di poesia resta, invece, da fare la lettura onesta: quella la cui alfa e omega siano incise nell’orbita della lettera d’autore. In altri termini, una lettura ancorata alle parole del poeta. Non solo quelle strettamente poetiche, ma quelle auto-esegetiche che a volte i poeti pronunciano su di sé.

     Dunque, da lettori onesti, volgiamoci ai testi di Bruce Meyer proposti nella versione originale e in traduzione. Si tratta di tre poesie Dawn, Myth, Fox in the Fallen Snow scelte dalla raccolta Testing the Elements (Exile Editions, 2014). La raccolta di articola in cinque sezioni: Earth, Water, Fire, Air (i quattro elements, appunto) e The Movie Being Filmed across the Street, dal titolo della penultima poesia[1]. Le cinque parti sono precedute da un Prologo. Da rilevare, in merito alla struttura del libro, le dediche a Kerry, Katie (moglie e figlia) Margaret, Carolyn, e a Seamus Heaney (amico e mentore). A quest’ultimo è dedicata la poesia Dawn che precede la pagina con gli esergo c desunti rispettivamente da Marlowe e da Rilke. Colpisce in specie la citazione da Tamberlaine the Great (Part One, II. vii, 17-29: «Nature, that fram’d us of four elements/Warring within our breast for regiment/Doth teach us all to have aspiring minds») che conferma la fedeltà del poeta alla radice umana (vita) di ogni ispirazione, ma esprime nel contempo la tensione, innata nell’uomo, a cercare qualcosa che trascende gli elements (in costante conflitto fra loro) di cui è sostanziato.

     Materia  e Mente, dunque. Una Mente (sede della scintilla spirituale precipitata nelle plaghe d’inconscio) a cui la Natura deve insegnare a protendersi verso l’altrove, di là dalla mera materia, e ad ambire (aspiring mind) a una sfera (essere) che sovrasta l’esistere (quegli “un contro gli altri armati” elementi nel cosmo prima che nell’uomo).

      Non è stato facile selezionare tre testi fra i quarantasei che compongono la raccolta. Ogni poesia ha infatti una ricchezza emotiva e un incanto iconico tali da rendere ardua la scelta. Nei versi di Meyer sentimento, percezione, intuizione si convertono, come per magia, da eventi esistenziali privati in immagini comunicabili agli altri. Questo micro-miracolo di fruibilità e visibilità, Meyer lo attua – a partire da una visione interiore – con un uso preciso, parco, vero  – onesto –  del linguaggio.

     Merita qui citare le parole del poeta su quella che potremmo definire la temperie creativo-immaginativa[2]:

Nicole Birch-Bayley: Let’s talk about poetic composition. When does a sentence become a poem?

Meyer: I’m not sure. If you’re asking how poems begin for me it is usually with an idea and an image. Something catches my attention, and it starts to become something entirely different. I walk around with those elements in the back of my mind until the words come, usually the first line. Then, after the draft is down on paper – and I write very quickly because I permit my mind to carry me through the flow of a poem – I do a lot of redrafting. […] I want to know what goes on inside a picture, or an idea, or a sentence. I want to walk inside the language and, like Dr. Who’s tardis, find it is much bigger on the inside and try to comprehend how it is built and marvel at its architecture.

     In effetti, le parole di Meyer hanno il dono di evocare scenari più vasti, una volta che il lettore è all’interno del suo Tardis testuale,  e di far intuire figure ideali a partire da una circostanza concreta. La vita, bacino di occasioni grazie a cui si rivelano inopinati squarci d’orto, non è mai rimossa o mortificata nei suoi versi; al contrario, essa è solido punto di partenza per ogni volo immaginativo

     La raccolta Testing the Elements tocca temi come l’amore, la natura, il bullismo, la crescita, il passare degli anni, la letteratura (si vedano Myth, In defence of Narrators, Homage to Charles Darwin). Temi umani, tutti, perché Meyer, terenzianamente, non rifugge dall’umano. Forse per questo i suoi versi raggiungono il cuore del lettore spingendolo a interrogarsi sul senso dell’esistere e resistere a un male di vivere (Deguy direbbe “resistere al presente”) da attraversare, ineludibilmente, per cogliere barlumi d’immenso in una vita che – è vero – non lesina affanni e delusioni, ma ha in serbo anche inopinate gioie: gratuite perle di bellezza celate negli anfratti della consueta selva oscura.

      Va detto, tuttavia, che il dato esistenziale non ha mai in Meyer valore evenemenziale: non è aneddotico, cronachistico, né meramente pittorico-decorativo. Mayer non indulge  a quadretti d’ambiente intrisi di svenevole sentimentalismo, né al bozzetto, né (peggio) all’arte per l’arte. La circostanza (realtà ordinaria) è transustanziata in un’immagine che libera altre immagini. Così, l’occasione diventa evento epifanico, mitopoieticamente produttivo e il dato concreto un hazard objective (Breton) o rendez-vous (Duchamp[3]) con qualcosa che ti viene incontro. Questo quid, che incontri per caso, innesca la circostanza creativa, consentendo di intravvedere, per il velame delle apparenze sensibili, la verità di un ideale invisibile, non meno vero tuttavia del reale visibile.

     Si pensi  all’immagine che apre la poesia dedicata a Heaney

Yellow hedgerow gorse blinked and fell
at summer’s end on a hill slope waking wet
in dewy blessing.

     D’un tratto, sul ciglio dell’estate, sul pendio di un colle irrorato dal divino dono della rugiada, balena, e subito muore, il giallo di una ginestra. Il fiore (in Leopardi simbolo di resistenza ai misfatti di Malanatura) che manifesta il suo oro all’alba, e poi decade, è emblema di una solarità (fuoco) che brilla inopinata fra gli elementi: colle (terra), rugiada (acqua) e vento (aria: seconda strofe). L’elemento solare, che nasce e muore, e la rugiada stessa che svanirà all’avvento pieno del sole, esprimono la fugacità della vita nel suo corso eterno ciclicamente si ripete sui crinali terreni. Del resto, anche nella raccolta The Seasons (Ontario, Erin, The Porcipine’s Quill, 2014) il nucleo tematico è la ciclicità (stagionale) dell’esistere

     Quanto alla poesia Fox in the Fallen Snow, emblematica è la figura dell’interrogazione, da parte dell’uomo, circa il mistero dell’essere e dell’esistere. La domanda sul senso si infrange però su un limite o barriera invalicabile per la mente umana:

So we stand at the window
with the question of snow
on our minds and have no
answer.

     E questo stare dei soggetti senzienti alla finestra dice l’anelito dell’uomo a svincolarsi dall’orbita degli elementi di cui è composto (materia che ne limita il volo intuitivo), a uscire dall’asfittica prigione dell’Io (The Prisoner Dreams) e a guardare fuori da un’egotico guscio di monade per intuire ciò che rimane inafferrabile all’intelletto: l’insolubile riddle sul senso. La question of snow affiora alla mente di chi specula sull’assoluta niveità, su un bianco che non dà risposta, ma su cui, nondimeno, si scorgono tracce di un passaggio (impronte): segni scuri sul candore dell’infinito, segni d’inchiostro su bianchi fogli di carta. Neri segni di transiti dell’esistente sull’immacolato mistero dell’essere

     La neve torna nella poesia Myth, in cui è descritto l’arrivo di Charles Dickens a Toronto: epifania della parola al cospetto di una folla zuppa, sotto la neve che cade, nel pungente freddo novembrino. Epifania che sembra deludere: the words were disappointing . Pure, è tramite le parole dei dead writers che vita e morte arrivano a toccarsi ed entrano in contatto. Il poeta, a ogni modo, è sulla soglia che separa l’al di qua e l’aldilà, sempre svincolato da tempo e luogo reali nei momenti creativi.

     Lo confermano le parole di Meyer

Birch-Bayley Describe a place where you are most at home? Most creative?

Meyer: […]  The world of ideas and poetry is at my fingertips. […] A poet should not belong to a particular place nor even to a particular moment. A poet should be able to travel between worlds and ideas and mythologies. Two summers ago, I climbed Dreamer’s Rock at La Cloche. […] Once up on top, the view is dizzying […]. At the top of the rock is a hollow, the size and shape of six-foot tall human. I’m six feet, well, almost. I lay down in the hollow and looked up into the blue. It was like being catapulted into eternity. That’s when the rock does its work. I had a dream vision. A raven came and hovered above me, motionless in the clear air, and he drew closer and closer on a down-draft until I thought we were going to collide. In a way we did. The raven, according to Objiway beliefs, is the messenger between worlds, the one who carries information from the unconscious world to the conscious world, from the imagination to reality. It is the poet bird. That was a moment of great reassurance for me, at least spiritually. It was the sign that what I had been doing meant something, even if it did not mean as much to this world. Someone or something somewhere was copacetic what my work.

     E questo è il miracolo della poesia onesta: catapultare lo spirito dell’uomo nell’eterno.

[1] Il titolo completo della poesia è The Movie Being Filmed Across the Street from My Hotel Window (TE., Ontario, Exile, 2014, p.95-96)

[2]Citazione da un’intervista di Nicole Birch-Bayley a Bruce Meyer pubblicata su Sunday Crush, settembre 2014

[3] DUCHAMP, Duchamp du Signe, Paris, Flammarion, 1994, p.49