Cara Mafalda

lo sai che mi piace e condivido (nella vita, non su facebook) il tuo sguardo sul mondo.
Sei una bambina davvero simpatica, anche se prima pensavo fossi un po’ “anomala”.
Questo prima; prima di avere dei nipoti. Ma da quando ho conosciuto Asia, la mia nipotina di tre anni, mi rendo conto che forse per voi bambini il mondo è molto più chiaro che per noi. E soprattutto riuscite sempre a dire chiaramente e senza paura quello che pensate.
Su una cosa però non sono d’accordo con te. O meglio, non la capisco.
Perché non ti piace la minestra? A me, anche quando non mi andava di mangiare, è sempre piaciuta. Una specialmente. Quella dove si buttavano le letterine di pasta.
Perché è così che ho cominciato a leggere e a scrivere. Con quelle letterine così piccole. Sarà per questo che sono diventata miope? Non so. E comunque non me ne pento neanche un po’. Tanto esistono gli occhiali. Ma il piacere di leggere, di scrivere, quello non me lo toglie nessuno.
Ho cominciato col mio nome, il più facile. Bastava ripetere le stesse due lettere e metterle nell’ordine giusto. Avrei potuto anche essere araba, qualunque direzione andava bene. Poi tutti i nomi della mia famiglia, alcuni davvero difficili. Mia sorella e mia mamma avevano due “a” come le mie, quindi era più facile. Mio padre di “a” ne aveva una sola però le due “n” del mio nome c’erano, e anche la lettera nuova, la “o”, la potevo ripetere due volte. Certo quella lettera alta alta col trattino mi riusciva più difficile, ma una volta ritrovata sulla pastina mi era possibile ricopiarla tante volte finché non riuscivo a farla diventare dritta.
Poco a poco scoprivo e riproducevo i nomi di tutte le cose che mi circondavano. Era come se quelle cose cominciassero ad esistere solo nel momento in cui riuscivo a dar loro un nome. E a scriverlo, a leggerlo.
E pensare che bastavano solo 21 letterine, allora c’erano solo quelle.
C’era poi questa cosa incredibile e meravigliosa: bastava che cambiavi una lettera o ne aggiungevi o toglievi un’altra … e tutto cambiava. Che magia!

“Mamma”, “papà”, “nonna” – facilissime -, e “casa”. Quando imparai a scrivere anche “sorella”, lì c’era già un mondo. Bisognava imparare “porta” e “finestra”. E lasciarle aperte perché tutto, proprio tutto, potesse entrare ed uscire quando voleva.
Quando finalmente scrissi “mare” – quella cosa verde-azzurra, a volte calma, a volte infuriata, che entrava dalla finestra – anch’io potevo andare dovunque. Bastava scrivere “barca” e su quel mare ci potevi navigare e andare dove volevi, su quello che vedevano anche gli altri o su quello che vedevi solo tu: “spiagge”, “isole”, “pirati” “streghe”…
-Sempre più difficile, sempre più emozionante! -, avrebbero detto al “circo”. Anche questa parola sapevo. E dentro ci avevo messo un “pagliaccio” che suonava una “scopa” (che non era vero che serviva solo per spazzare o togliere le ragnatele – a volte si poteva anche cavalcare) e cantava una serenata. A me, forse!
Quando avevo finito di comporle, quelle lettere minuscole venivano raccolte da mia madre e buttate dentro la pentola che bolliva. Ritornavano sul piatto più morbide e più grandi, sempre ricononoscibili; ma erano diventate di tanti colori: verdi, gialle, arancio e rosse. Erano bellissime…e buone.
Quando le inghiottivi avevi la sensazione che tutti quei mondi che avevi costruito mettendole in fila, smontandole e rimontandole, diventassero te. Per sempre.