confini, migrazione, cittadinanza

Lo studioso Robert Young nel suo testo “Introduzione al postcolonialismo” definisce il confine in questi termini:

Il confine crea i limiti delle nazioni e produce lo spazio in cui può operare la macchina infrastrutturale nazionale (il suo governo, gli esattori fiscali). La nazione è un tipo particolare di corporazione. E sono proprio i confini a consentire il riconoscimento internazionale da parte delle altre nazioni, il pieno inserimento legale di una certa nazione nella comunità globale. […] Come una grande corporazione, a cui i suoi cittadini appartengono indipendentemente dalla loro scelta, la nazione diviene uno spazio vuoto capace di sviluppare al suo interno ogni potenziale forma di identificazione: razza, religione, lingua, cultura, storia e territorio [1].

La definizione proposta rispecchia la concezione degli antichi stati nazionali europei che si sono consolidati nel corso dei secoli, dall’epoca moderna fino al Novecento, e inoltre apre alla questione dello spazio europeo e dei suoi confini [2].

L’Europa è sempre stato un continente diviso sia da frontiere secolari imposte dalle diverse autorità statuali sia da confini naturali di notevole rilevanza. La volontà di creare una grande Europa unita dei popoli si attua concretamente soltanto sulle rovine della Seconda guerra mondiale e si avvia lungo i difficili anni della ricostruzione postbellica. L’Unione Europea ha vissuto dei processi di rapida trasformazione nel corso dei passati decenni, soprattutto relativi a fattori di carattere politico, come le adesioni di nuovi stati, ed economico, come l’abbattimento delle frontiere, la libera circolazione delle persone e delle merci con gli accordi di Schengen e da ultima l’introduzione della moneta unica europea. Oggi l’intera Unione Europea è coinvolta nel processo di definizioni dei propri valori comuni e fondanti: il Trattato di Lisbona è il documento redatto per sostituire la Costituzione europea bocciata dalla doppia sconfitta referendaria francese e olandese del 2005. L’intesa è arrivata dopo un biennio di riflessione quando il Consiglio Europeo di Bruxelles nel 2007 ha raggiunto l’accordo sul nuovo trattato di riforma. Il travaglio dell’Europa è però ancor oggi molto sofferto e il tema della cittadinanza è uno degli argomenti attorno al quale costruire nel migliore dei modi l’Europa presente e quella futura. L’attribuzione della cittadinanza è avvenuta nel corso della storia dell’occidente europeo sulla base di criteri molto differenti, a seconda delle aree geografiche e dei diversi poteri istituzionali. Il concetto di cittadinanza è stato costruito attraverso il riscontro di caratteri identitari riferiti di volta in volta all’etnia, al censo, alle caratteristiche fisiche o psichiche, alla religione e alla condizione giuridica della persona. La costruzione delle pratiche di cittadinanza andava intesa quindi come mutevole espressione delle singole identità nazionali. La sfida di oggi è invece quella di analizzare e aggiornare con strumenti efficaci la questione della cittadinanza in un quadro di progressiva trasformazione multiculturale e multietnica vissuta dai territori europei che diventano sempre più fluidi e permeabili a nuovi tipi di mobilità.

Attualmente la questione europea si snoda su due piani: se da una parte l’allargamento dell’Unione comporta l’inclusione di milioni di nuovi cittadini e cittadine, dall’altra l’Europa si trova sempre più in difficoltà nel definire se stessa e il percorso di costruzione di una comune identità è lento e difficoltoso. Oltre ai continui scontri a livello politico ed economico tra le diverse rappresentatività nazionali che la compongono, l’Europa si trova in drammatica difficoltà sulle proprie posizioni confinarie, cioè nel definire il proprio spazio, nel tracciare il proprio limite, qualora questo ci sia mai stato. E’ una questione di grande portata storica alla quale ancora si cerca di dare una risposta, soprattutto nei confronti delle regioni orientali europee, ma anche di tutta l’area mediterranea [3]. Nonostante quindi le frontiere dell’est erano e rimangono tuttora una questione irrisolta, ciò che dovrebbe fortemente preoccupare attualmente i centri decisionali europei è il confine meridionale dell’Europa che si vorrebbe trasformare, nell’intenzione dei legislatori, in un muro di difesa contro i flussi migratori massicci e incontrollati che provengono dal continente africano, soprattutto dopo l’esplodere delle primavere arabe nel 2011 [4].

Sicuramente in questi ultimi drammatici anni, anche l’Italia, terra europea di frontiera, ha vissuto in prima linea e in maniera sofferta l’emergenza delle migrazioni. La posizione geografica dell’Italia, di cui l’isola di Lampedusa rappresenta il primo scorcio di terra per chi arriva dalle coste africane, ha dirottato verso la penisola numerosi flussi migratori di diversa entità e nazionalità. L’Italia, che ha avuto nel suo passato nazionale una presenza in Africa come paese coloniale [5], non ha quasi mai rappresentato però un punto di stabilizzazione per i destini di tutti quei migranti che sono sbarcati a Lampedusa o sulle coste siciliane, bensì questi ultimi hanno sempre utilizzato l’Italia come base di transito verso altri paesi nordeuropei che forniscono loro una migliore assistenza e possibilità di asilo più vantaggiose.

La posizione geografica italiana traccia, assieme ai paesi che si affacciano al Mediterraneo, il limite estremo di quella che alcuni definiscono la nuova “Fortezza Europa” [6]. Con questa espressione si vuole indicare la costruzione politica e legislativa di un’ Europa sempre più razzista, dove dilagano in molte nazioni i movimenti e le manifestazioni xenofobe e omofobe, un’entità che esclude e respinge anziché ricevere e includere in maniera giusta e controllata. L’accoglienza e l’ospitalità dovrebbero essere due leggi non scritte e dovrebbero far parte dei principi fondanti l’Europa. Se è vero che il tempo è prezioso, lo spazio è limitato e tutto è calcolato, allora il periodo presente è favorevole alla chiusura e alla paura perché mette l’individuo sulla difensiva e suscita in lui sentimenti di rifiuto istintivo dello straniero, dell’altro, del diverso; non sembrerebbe quindi il momento di chiedergli di essere aperto e accogliente. Diventa difficile allora anche il rapporto tra l’ospitalità e i flussi migratori perché se il primo è un valore umano di civiltà che dovrebbe entrare nei principi fondanti la nuova Europa, il secondo è una delle conseguenze più drammatiche dell’evoluzione globalizzata dell’economia capitalista.

La frontiera italiana rappresenta una situazione d’allarme all’interno del contesto europeo. Una studiosa italiana, Graziella Parati, ha coniato un’interessante espressione, mediterranean crossroads, che ha usato per definire la situazione particolare che la società e la cultura italiana si sono trovate ad affrontare riguardo le prime ondate migratorie che sono cominciate agli inizi degli anni Novanta [7]. Questa espressione offre all’Italia una grande possibilità: quella d’essere un crocevia, un punto d’incontro e di snodo per le popolazioni e le culture che vengono dall’Africa o da altre realtà marginali del mondo, ben consapevole che la maggior parte di questi migranti non vuole rimanere nel territorio italiano perché già conosce i limiti politici e assistenziali dell’Italia e perciò mira a continuare la propria rotta verso altri territori europei. L’Italia potrebbe essere a pieno titolo l’intermediaria di un dialogo fra lontani, una terra d’incontro dove le voci e le scritture si fondono: potrebbe essere il mezzo culturale e linguistico mediante il quale questo dialogo può avvenire. Al centro di questo discorso si trova la figura del migrante, che è un nodo centrale da comprendere nei nuovi processi culturali europei, oltre che in quelli politici, giuridici ed economici: essere migrante vuol dire essere un testimone e un protagonista attivo del mondo attuale e non un fenomeno passeggero, di transito. Proprio a questo proposito il critico e teorico della letteratura Armando Gnisci afferma:

Il migrante, da qualunque mondo provenga, porta negli occhi, nelle gambe e nelle mani il messaggio e l’utopia della pluralità e della parità dei mondi; questa è la sua prima e più alta dignità, che offre, perché la si possa conoscere e se possibile imparare, a noialtri occidentali. Proprio noi che siamo convinti di aver costruito l’unico e migliore dei mondi possibili e di averlo fatto innanzitutto per noi e poi per tutti, ma alle nostre condizioni [8].

La società multiculturale in Europa non è costituita soltanto dai singoli casi nazionali con le loro leggi e la loro volontà di accoglienza, se e dove questa si manifesta. Si tratta di una creazione molto più grande che coinvolge da una parte i diversi popoli europei e dall’altra, come controparte, i migranti divisi nelle loro varie aree di provenienza, ma allo stesso tempo uniti fra loro. Sostiene infatti Armando Gnisci: “L’incontro e gli scambi tra le culture non avvengono, infatti, solo tra noi e loro, ma anche tra loro[9]. L’elemento da dover evidenziare è il luogo dove in Europa questi incontri e scambi avvengono. L’espressione originale che un teorico come Homi Bhabha introduce nel suo testo I luoghi della cultura è quello di in-between, che sta a indicare tutti quei spazi intermedi, periferici, di passaggio dove avviene l’incontro fra identità diverse e dove se ne costruiscono di nuove. In questi interspazi, in questi luoghi di mediazione, vorrei collocare i momenti, purtroppo ancora troppo pochi, di dialogo tra il fenomeno migratorio e l’Europa, in cui anche l’Italia dev’essere compresa: molto spesso le voci che ne emergono sono state viste come mediatrici fra una società impreparata e spesso ostile nei confronti della realtà dell’immigrazione e del meticciato e le emergenze di cronaca quotidiana legate a questi fenomeni. Gli spazi culturali definiti dall’espressione in-between rappresentano un’istanza di mediazione tra le differenze, di nuove scoperte, di nuove ibridità. Le parole dello stesso Homi Bhabha aiutano a definire questa formula e a comprenderne il significato:

Questi spazi “inter-medi” costituiscono il terreno per l’elaborazione di strategie del sé – come singoli o gruppo – che danno il via a nuovi segni di identità e luoghi innovativi in cui sviluppare la collaborazione e la contestazione nell’atto stesso in cui si definisce l’idea di società. È negli interstizi – emersi dal sovrapporsi e dal succedersi delle differenze – che vengono negoziate le esperienze intersoggettive e collettive di appartenenza ad una nazione, di interesse della comunità o di valore culturale [10].

I luoghi e gli spazi rappresentati dalla nuova Europa sono la speranza di un laboratorio di coesione presente e futuro contro la deriva xenofoba che la sta affliggendo da più parti e che non tiene conto però di un altro fatto culturalmente rilevante e sostenuto pure dal teorico Iain Chambers nel saggio An Impossible Homecoming, che apre la sua opera dal titolo Migrancy Culture Identity  [11]. Difatti Iain Chamber ha usato la metafora della traduzione e del viaggio per definire le dinamiche fondanti della cultura contemporanea, viste in chiave di spostamenti di popolazioni, di esperienze e di identità: chi intraprende un viaggio parte spesso alla ricerca di ricreare uno spazio dove poter coltivare un proprio senso domestico. Sovente però questa sicurezza tanto cercata non si raggiunge nella terra d’arrivo, in questo caso non sicuramente in Italia e in alcuni casi nell’Europa stessa, e altrettanto spesso diventa impraticabile compiere il viaggio inverso, cioè quello di ritorno verso la propria terra d’origine. Molti possono essere i freni che impediscono questo ritorno, come per esempio le guerre civili.

La preoccupante condizione delle politiche europee sull’immigrazione e sulla cittadinanza pone nuove sfide a tutti i cittadini europei, compresi gli italiani e le italiane. Quello che tutti i legislatori, nazionali e comunitari, non comprendono pienamente è che il grande spazio europeo diventerà sempre più fluido e la questione del confine inteso in senso lato è nodo centrale per la costruzione dell’Europa del futuro. Le nuove dinamiche di centro e periferia, di inclusione e di esclusione interrogano in maniera pesante una certa idea di continuità territoriale europea che si è costruita nel corso degli ultimi decenni. Tra le righe dei grandi discorsi si evincono ancora oggi troppa approssimazione e la quasi totale assenza di serie riflessioni sui temi più rilevanti. Si legge di conseguenza la sostanziale impreparazione dell’Europa nell’affrontare il suo stesso futuro: le risposte restano sempre deludenti, mentre il tempo scorre e l’identità europea non è più un prisma statico e cristallizzato, se mai comunque lo sia mai stata, ma si è ormai storicamente moltiplicata in una pluralità di identità che vanno condivise. Su questi temi dell’appartenenza riguardo il presente e il futuro dell’Europa scrive Iain Chambers nel suo saggio Una cartografia sradicata contenuto nel volume Culture planetarie? Prospettive e limiti della teoria e della critica culturale:

Questo squarcio nelle mura della nostra “casa” potrebbe aprire una crepa nel nostro tempo, rendendo possibile intraprendere un viaggio che riveda le categorie su cui regge il nostro mondo. Oltre la paura seminata dallo spaesamento emerge anche la possibilità di rinegoziare il proprio senso di appartenenza. Qui l’occidente si declina nell’altrove [12].

Questo occidente è ancor oggi l’Europa che, seppur indebolita dal punto di vista economico e politico dalle recenti crisi finanziarie, si deve confrontare con le dinamiche sospese delle diaspore, delle migrazioni, degli esili, che costruiscono gran parte dell’attuale condizione mondiale piena di sofferenza, dolore e sradicamento.

Una studiosa messicana, Gloria Anzaldùa, nel suo testo Borderlands/La frontera: the new Mestiza afferma: “The US-Mexico border es una herida abierta where the Third World grates against the first and bleeds” [13]. La situazione europea è simile, soltanto che visivamente ancora si stenta a vederlo: il Mediterraneo è diventato in realtà uno dei punti caldi del pianeta, dove l’Occidente si incontra e si scontra con il cuore povero del pianeta, l’Africa, che rimane sempre la più debole in termini economici e di instabilità politica rispetto ai nuovi continenti emergenti quali l’America latina o i vari colossi asiatici.

Oltre all’isola di Lampedusa altre sono le situazioni confinarie di criticità nel Mediterraneo sulle quali l’Europa stessa preferisce tuttora far scivolare un velo di silenzio come per esempio le enclaves spagnole di Ceuta e Melilla sulle coste settentrionali del Marocco, due presidi coloniali europei rimasti in territorio africano; la nuova zona militarizzata tra Grecia e Turchia, una linea di confine tra i due stati eretta per contrastare le migrazioni clandestine che miravano a entrare nell’area europea; la linea di frontiera che divide ancora in due l’isola di Cipro, problema rimasto irrisolto che l’Europa ha opportunamente evitato di guardare nonostante l’adesione di Cipro all’Unione; infine come non ricordare il muro lungo ormai centinaia di chilometri che si sta innalzando dal 2002 nel Vicino Oriente per dividere lo stato d’Israele dai territori palestinesi, una ferita inferta dall’uomo, una lacerazione aperta che vuole dividere fisicamente uno spazio che da sempre è geograficamente unito.

Questi tre nuclei tematici, quello dei confini, delle migrazioni e della cittadinanza, sono intrecciati in un unico groviglio che va risolto e che servirà per costruire l’Europa del futuro. La continua pressione che le masse dei migranti esercitano sulle frontiere meridionali europee deve far nascere una nuova volontà politica e culturale mirata alla concreta risoluzione dei problemi, al dare risposte serie e durature a fenomeni che non sono destinati a terminare in breve tempo, ma anzi secondo molti critici e osservatori saranno la base della nuova condizione mondiale di continua mobilità degli individui e fluidità dei territori, compreso il vasto spazio europeo. Quindi è la stessa struttura della grande Europa che nella sua staticità si dovrà confrontare col dinamismo delle diverse alterità, potendosi sicuramente ricollocare al centro delle nuove questioni mondiali, ma con un’ottica completamente diversa e inversa rispetto al passato, non più infatti come potenza dominatrice e civilizzatrice di popoli bensì come solida rete di accoglienza e nuovo crocevia della storia delle migrazioni.


               [1] R. Young, Introduzione al postcolonialismo, Roma, Meltemi, 2005, pp.71-72 (ed. or. Postcolonialism. A Very Short Introduction, Oxford-New York, Oxford University Press, 2003).
[2] Cfr. P. Zanini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori, Milano, 1997.
[3] Ricordo l’esperienza del nobile italiano Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730), a cui rimando per la sua ricchissima bibliografia. Bolognese di nascita e di famiglia, militare e scienziato, egli studiò a lungo il problema dei confini nelle regioni orientali europee, soprattutto nell’area balcanica.
[4] Cfr. G. Solera, Riscatto mediterraneo, Pordenone, Nuova Dimensione 2013.
[5] Alcuni testi sulla storia coloniale italiana: A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Roma-Bari, Laterza, 1976-1982; Id., L’Africa nella coscienza degli italiani: miti, memorie, errori, sconfitte, Roma, Laterza, 1992; N. Labanca, Oltremare: storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, Il Mulino, 2002.
[6] Sito internet: fortresseurope.blogspot.com, consultato il 31/01/2014.
[7] Cfr. G. Parati, Mediterranean Crossroads: Migration Literature in Italy, London, Associated University Press, 1999.
[8] A. Gnisci, La letteratura italiana della migrazione,  Roma, Lilith Edizioni, 1998, pp. 62-63.
[9] Ivi, p. 71.
[10] H. Bhabha, I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 2001, p. 12 (ed. or. The Location of Culture, London, Routledge, 1994).
[11] Cfr. I. Chambers, Migrancy Culture Identity, London – New York, Routledge, 1994.
[12] I. Chambers, Una cartografia sradicata, in S. Adamo (a cura), Culture planetarie? Prospettive e limiti della teoria e della critica culturale, Roma, Meltemi, 2007, pp. 59-69 [67].
[13] G. Anzaldùa, Borderlands/La frontera: The New Mestiza, San Francisco, Aunt Lute Books, 1987,  p. 3.