Dalla Murgia alle Ande

Dalla Murgia alle Ande: passaggio di pietra
– La nostalgia del migrante-

Poiché ho nostalgia
Del mio sud del sud
Imploro
Oh puco di acqua viva,
un fascio di luce
che non ferisca
che non screpoli
che non squarci
che non tagli.

Perché ho nostalgia
Del mio sud del sud.
Alchimia Pregante
Ricomponimi.

Nel Tahuantinsuyo[i] erano chiamati pircadores[ii] e in Puglia paretari e trullari, ma avevano una missione in comune: quella di squadrare i cumuli di pietra e incastrarli senza malta gli uni sugli altri con arte e pazienza, fino a costruire un muro, un recinto, un’abitazione, una fortezza e un palazzo.

In ogni ambito l’uomo si è avvalso di ciò che la natura gli offriva per costruire la propria dimora e gli strumenti necessari per il vivere quotidiano.

Là dove c’era acqua e fango costruì con essi una capanna, là dove c’erano palme le intrecciò per creare un quincho[iii] e là dove trovò luoghi rocciosi e pietraie, dopo aver rotto, tagliato e squadrato,  ricavò da essi blocchi che accostò, incastrò e impilò con l’intento di fabbricare recinti protettivi per gli animali, un rifugio sicuro per sé, un solido pucará[iv] per la comunità, che venne perciò situato in cima al colle.

Così si srotolava il filo dei miei pensieri quando, ancora studentessa all’università, mi recai sulle Ande, a Jujuy, nella stagione secca. Il punto d’arrivo del viaggio sarebbe stato il Pucará de Tilcara. Paesaggio meraviglioso, opera mirabile per l’uomo! E dentro di me elogiai la pazienza e la minuziosità del costruttore indio. Di qua le murature a secco contenevano terrazzamenti e ripiani coltivabili, di là cingevano terreni e delimitavano ovili. Il tatto volle palpare la rudezza della pietra gentilmente levigata dai secoli, accertarsi della riuscita intuizione del pircador il quale, senza malta né calce, seppe sistemare i pezzi in senso longitudinale e sovrapporli verso l’alto.

Ne veniva fuori un ordito murale primitivo e prodigioso!

Eppure, se ne stava assopito nel subconscio un modello impreciso, una visione che non riusciva a definirsi, un non so che di nostalgico, un’appartenenza ambivalente.

In seguito il tempo e le circostanze mi riportarono al sud italiano da cui ero partita. E fu allora che vidi le murature a secco, quelle assopite nel subconscio, quelle del modello impreciso. Anche queste, mentre attraversavano i campi, orlavano i pendii di dolci ondulazioni circoscrivendo terreni seminabili, sbarrando ovili in prossimità del trullo, la dimora a forma di cono tipica di questa zona del sud della Puglia, influenzata secondo alcuni dall’architettura orientale che probabilmente era stata portata lì da una comunità di contadini, approdati in questo angolo di giardino meridionale attraverso l’insenatura maggiore del Mar del Medio. Altri sostengono che sia il simbolo mitico del tempo circolare. Comunque sia, trullo è una parola di origine greca che rimanda alla sua forma rotonda: un’abitazione rotonda come il tempo ciclico uguale a se stesso e mai ripetuto. Così come il periplo del sole.

Per questo motivo è nata prima di tutto come dimora campestre, per uso temporaneo, vale a dire occupata durante il periodo del raccolto e della semina, una simbologia profondamente legata alla fertilità e all’abbondanza.

I trulli sono sparsi nella Valle d’Itria, uno degli insediamenti più antichi; poco tempo dopo si erano raggruppati in villaggi, dai quali nacque Alberobello. Attualmente l’area dei trulli rappresenta la parte antica della città. Leggermente modificati, oggi sono negozi di souvenir per turisti. Una signora conserva un telaio antico, lo usa e vende i suoi prodotti; un artista ha messo in piedi  il suo laboratorio di fotografia, un altro scultore scopre le forme contenute nelle pietre che egli stesso raccoglie durante le sue escursioni. In cima alla strada si trova la chiesa, anch’essa in trullo, ma moderna, una specie di imitazione.

Nella nebulosa dei ricordi fluttua Sachsauhamán e il Tempio del Sol!

Lasciata la città, imbocco la strada che da Alberobello va verso nord e che mi riporterà a casa.

Un muretto a secco, una pirca, corre lungo il mio cammino. In certi tratti è distrutto, pietre cadute, che implorano e si arrampicano le une alle altre senza un ordine.  È come se stessi vedendo la Pachamama[v] con il ventre aperto, fratturato, graffiato, mentre piange la sua linfa bianca trasparente di tempo, durezza e pioggia. E vorrei trattenermi a porgere offerte, come un coya[vi], accanto all’apacheta[vii].

Chi mi accompagna mi prende in giro per ciò che chiedo.

Non riesce a comprendere la nostalgia che provo per i miei due sud.

(Traduzione di Paola Salandra)

 

[i] NdT, dal quechua tawantin suyu, (Impero inca), ovvero “le quattro regioni o divisioni”.

[ii] NdT, i Pircadores sono i costruttori delle pircas, pareti di pietra senza malta, innalzate per  recintare abitazioni e proprietà nell’America del Sud. Furono utilizzate soprattutto durante l’impero Inca.

[iii] NdT, (dal quechua) il quincho è un’abitazione molto povera, senza pareti, coperta da un tetto di paglia.

[iv] NdT, nelle regioni quechua i pucará sono delle fortezze dotate di grandi muri di pietra irregolare e non lavorata, che gli indigeni costruivano sulle alture.

[v] NdT, Madre Terra.

[vi] NdT, abitante dell’Impero inca o quechua.

[vii] NdT, l’apacheta era il termine con cui gli antichi peruviani denominavano dei cumuli di pietra posti sui passi andini a cavallo dei due versanti. Le pietre erano collocate dai passanti  (coya) per porgere offerte alla Madre Terra o ad altre divinità del luogo, accrescendo in tal modo  il cumulo a ogni passaggio, fino a creare una specie di altarino.

 

 

 

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