Delle persone e dei numeri, alla rovescia

Se sommo e sottraggo tutto quanto, non siamo altro che numeri.

Mi tornarono in mente queste parole di un mio compagno di studi universitari, compagno che vidi per l’ultima volta nel porto di Spalato in quei primi giorni d’estate del 1992, e le rimembrai  il 9 novembre di quest’anno in occasione delle celebrazioni del venticinquesimo anno della caduta del Muro. Naturalmente, non osservavo volti preoccupati in fuga dalla Storia Contemporanea ma speranzosi per forza di riuscire ad acquistare biglietti per il traghetto diretto a Fiume. (All’epoca non potevamo sapere che l’intera jugotragedija della quale noi due e quella moltitudine di altre persone eravamo nient’altro che frammenti di una massa di cinquemilioni di uomini che si sarebbe spostata, volente o nolente dal 1991 al 2000, in un altro luogo di dimora, e in base alla chiave etnica sarebbe divenuta la storia che dura, e nella buona Europa sarebbe diventata per lo più l’esempio dei cattivi Balcani).

E non era mezzogiorno, ma una tarda ora serale.

Stavo seduto sul divano, bello tranquillo (una birra più qualcosa da spiluccare, babbucce ai piedi, una leggera coperta sulla schiena), dinanzi al televisore sul quale passavano alcune delle foto delle 136 vittime del Muro di Berlino. Ho sentito anche dei frammenti di alcuni discorsi di esponenti di spicco tedeschi. La loro retorica pedagogica della festa sulla caduta del Muro era stata patetica allo stesso modo come era stata patetica la deposizione dei fiori in Bernauer Stasse lungo la quale si estendeva il Muro eretto nel 1961. È caduto, dicevano gli oratori, perché molti sognavano il suo crollo. Strada facendo ebbero a esprimere il loro rammarico per la costruzione dei nuovi muri tra la Russia e l’Ucraina. Degli altri muri, del non dialogo centenario che l’Occidente s’ostina a non istaurare con i più deboli di esso, né dell’enorme cimitero del Mediterraneo nemmeno una parola. Stavo male a sentire anche Lech Walesa, e mi pareva ridicolo che centinaia di migliaia di cittadini di Berlino lo applaudissero. La Libertà, l’Uomo, il Futuro – risuonavano nella vacuità confrontata con le promesse che noi i quali ricordiamo ancora quel giorno novembrino del 1989, parole sentite a favore dell’Europa più bella e del Mondo più giusto. (Fu sincero – oppure mi pareva soltanto – l’utopista dell’Europa dall’Atlantico agli Urali, Michail Gorbačov. Asseriva ancora una volta che l’Occidente non era stato onesto nei confronti degli ex membri della Guerra Fredda: l’una di quelle terribili Unioni militari non c’è più, ma quell’altra esiste, eccome esiste).

Di punto in bianco cominciai ad annotare tutto quanto su un quaderno, manco stessi scrivendo un diario.

Sì, ho scritto anche che sopra la porta di Brandeburgo, accompagnati dal suono dell’Inno alla gioia, volarono in alto migliaia e migliaia di palloncini. Poi ci fu anche  un concerto di techno-music. Cantavano e ballavano a più non posso. E si parlava pure, negli intervalli. Ho annotato pure che uno degli oratori aveva ricordato al pubblico che è stata fatta anche una preghiera ecumenica.

Se qualcuno per caso avesse letto le mie annotazioni fino a quel rigo – avevo scritto pure ciò – probabilmente si sarebbe chiesto perché uno stesse annotando cose che ebbero a vedere e a sentire l’Europa intera. Mi avrebbe altrettanto ricordato che non c’era alcun bisogno di farlo, come non c’è alcun bisogno di annotare il fatto che l’acqua calda viene distribuita.

Sì, avrei risposto. E avrei anche aggiunto, l’acqua calda in questo caso è la memoria stessa, memoria per la difesa della quale una volta ricevetti critiche di questo tenore: Non ogni cosa può far parte della memoria, in particolar modo se è capovolta. Allora, a queste parole ebbi anche a rispondere, naturalmente con un sorriso, dicendo che senza uno sguardo capovolto sulle cose che ci circondano non esiste nemmeno la letteratura, né l’arte in genere, ma che, allo stesso modo, non esiste nemmeno la possibilità d’avvicinarci alla verità. Il mio interlocutore, un professore universitario, buttò uno sguardo su di me come se fossi un po’ tocco, e pure lui fece un sorriso. (Il motivo della discussione fu il fatto che ricordai come i cittadini dell’ex blocco dell’Est comunista non s’erano precipitati nelle librerie e nei cinema per vedere i film proibiti e per leggere i libri a loro preclusi, bensì si sono precipitati nei supermarket, nei sex shop e nei negozi con prodotti tecnologici. Asserisco, tutt’ora lo asserisco, che le non libertà dell’ex Europa Orientale si sono trasformate in diverse dipendenze, nelle insicurezze e nelle nevrosi sociali ed economiche tipiche dell’Ovest: la libertà sognata si è trasformata in’un’Altra Cosa).

Se per caso pronuncio di nuovo la sintesi acqua calda – vedo il mare, mare Mediterraneo, sul mare barche, sulle barche decine, centinaia di volti in fuga dalla Libia, dalla Siria, dal Sudan. dalla Somalia… Oltre al mare vedo anche le strade dell’Afghanistan e dell’Iraq per le quali si muovono, in direzione dei paesi europei, moltitudini di persone in cerca di rifugio. Scappano dalle guerre nelle quali il nostro mondo si è ben bene impantanato, militarmente e economicamente. Allora mi giunge anche la voce di quel mio collega del porto spalatino, quel suo laconico  se sommo in cui egli ebbe a sommare uomini e numeri, vuol dire uomini numeri.

Un lettore casuale potrebbe chiedersi se io per caso non mi fossi perso. L’Inno alla Gioia , la memoria, i sexy shop, le barche, un confuso tutto? No. Direi. Tutto quanto è collegato – collegato in modo incredibile – tutto quanto è collegato con il vissuto  selettivo della memoria e con le immagini che i cosiddetti europei normali stanno osservando con i propri occhi. I 136 cittadini della Germania dell’Est, uccisi sul Muro durante un tentativo di fuga dall’altra parte (la stima è che siano stati 872), le foto dei quali sono state proiettate in quella sera di festa, avevano un proprio nome e cognome.

È un fatto normale, non volevano essere schiavi! Così diremmo noi, in coro, noi europei normali?

Migliaia e migliaia di tombe nel mare Mediterraneo del XXI secolo non hanno né un nome né un cognome. Sono numeri. I fuggiaschi vivi sono anche loro numeri. In Italia essi si chiamano clandestini, in Francia sono sans papier e così via fino ad Atene e a Stoccolma. I fuggiaschi e i dissidenti dall’altra parte della Cortina di Ferro, fino al crollo del Muro, venivano di regola accompagnati da telecamere e da riflettori. Loro furono testimonianze vive dell’Impero del Male. E, in un certo senso, una solida moneta nello scontro con il comunismo. Ma, proviamo oggidì a chiedere a una donna somala o sudanese la quale aveva lavorato, per esempio, a Tripoli, perché si è decisa ed è fuggita. (In ciò io, io che da molto tempo vivo nell’Impero del Bene, ho una qualche esperienza). Sì, quella donna ci direbbe che i bombardamenti erano terrificanti e che temeva per la propria vita. Ma, ciò sarebbe già una specie di incontro – incontro con un volto che possiede un proprio nome e cognome, volto che ha le proprie ragioni per migrare, che ci potrebbe ricordare in modo sgradevole su di chi sono le armi le quali distruggono Tripoli, Baghdad, Damasco…

Una simile domanda potrebbe interrompere la nostra piacevole compagnia davanti alla TV. E se poi quella donna ci dicesse che si sente come una piccola moneta nei grandi conti politici, e non soltanto in Italia? (Dei nostri modi della pauperizzazione dei due terzi del Pianeta non vorrei parlare in questo momento. Nemmeno delle idee dell’Impero del Bene le quali, applicate ed esportate per forza, di solito impazziscono).

A chi, tutto sommato, serve un incontro simile? E in cosa si cela la nostra colpa?

Parole simili ne ho sentite e lette a iosa e dunque non è necessario spiegarle ad alcuno dei normali. A dire il vero, forse qualcuno potrebbe sentirsi a disagio se sentisse sottovoce il pensiero di un filosofo – su coloro che giungono sulle coste europee sulle quali già da tempo non esistono città accoglienti. Ma, asserisce il filosofo, se non c’è ospitalità in queste città ci sono molti idioti. Idioti che, aggiungo io, asseriscono di essere autoctoni. Loro lo dicono alla faccia della Memoria e della storia. Per la loro consolazione aggiungo che non sono solitari: dagli arrivati-tempo-fa ovvero sia immigrati di “vecchia data” (e di tutti i colori di pelle) sento non raramente una domanda. È molto semplice, assomiglia allo slogan: Siamo in crisi, lavoro manca anche per noi, che cosa cercano?

È giunto il tempo di portare a termine questo scritto. Lo farei volentieri con una domanda, come in un teatro dell’assurdo – è successo qualcosa tra i due 9 novembre? – che la fine sia di natura un po’ acustica. Mentre quella sera di novembre ascoltavo frammenti dell’Inno alla gioia, mi pareva che nelle note di Beethoven qua e là s’inseriva il suono dei pescherecci di Lampedusa. Era il loro addio ai naufraghi nell’ottobre dell’anno scorso, addio per 367 senza nome. È starno il suono della sirena pigiata con il palmo della mano da genti che già da anni stanno in prima linea al salvataggio degli ultimi di questo mondo. Come se dicessero: chi ci ha sentito e chi non ci ha sentito deve sapere che questo mare non può essere il mare della nostra indifferenza. Deve sapere che ci sono oasi accoglienti nelle quali l’incontro con l’altro avviene come l’Incontro degli uguali e non superiori o inferiori.

P.S. Se sommo le oasi accoglienti a me sinora conosciute, dalle scuole ai comuni, dai centri culturali e sociali ai gruppi e alle associazioni culturali non vedo una lista grigia di dati statistici ma un volto umano cui la voce non giunge Roma, né le sedi della Comunità Europea. La politica, ritiene un mio amico di vecchia data, è il grande assente, talmente assente che non ti resta che concludere: ormai è ignorante pure del significato del polis; però, se mancano incontri e discussioni all’agorà, incluso l’argomento immigrazione ed appoggio alle guerre, non è colpevole da sola.