Dimentica chi sono

Griselda Doka
Dimentica chi sono
FaraEditore 2018 € 10,00

raffaele taddeo

Le poesie della silloge Dimentica chi sono possono dirsi composte da continui ed intensi lampeggiamenti .  La cifra significativa della loro espressione poetica riguarda  il disagio che si esprime in consapevolezza della disarmonia dell’essere e del  cigolio che la propria persona  manifesta  con la propria presenza per altro  nella percezione di una instabilità di identità spesso ignote.   E’ quella di Griselda Doka una poesia visiva spesso anche scenografica dove però si ritrova l’importanza della parola che travolge, oltraggia, spiazza.
Una analisi attenta della silloge non può fare a meno di considerare le citazioni come indizi della linea di comprensione del dato poetico.  Una prima citazione è già nella prima poesia: il mio Sud. Sembra una citazione dello scrittore della primissima letteratura della migrazione e cioè di Salah Methnani nel suo libro “Immigrato”.  Per lo scrittore di origine tunisina il suo Sud rappresenta anche le parti meno nobili del suo corpo,   ma non solo. Per Griselda Doka il suo Sud è la stessa cosa ma considerata, al contrario di Methnani, positivamente: “Quando l’odore del mio sesso/ è la sinfonia che ti accoglie”. Ma abbiamo più citazioni di Montale. La prima significativa è quella presente nella poesia Nel pienosole, dove la poeta dice: “cigola il porticino del mio steccato”. Viene immediatamente alla mente la poesia Cigola la carrucola del poeta ligure.
In questo caso lo stridore dello steccato sta ad indicare la continua sofferenza e dissonanza fra il desiderio di apertura e quello di chiusura. Si esprime il rapporto contorto, controverso nei riguardi della realtà. Ci si erige uno steccato che però poi lo si forse vorrebbe aperto, ma ogni gesto di apertura o di chiusura viene accompagnato dallo stridore, quindi da qualcosa che non lascia in pace, che non lascia soddisfatti.
L’altra citazione di Montale è nella poesia Ho bisogno di uno spicchio di terra, che al verso successivo recita: “del canto accartocciato”. I sensi di due poeti sembrano molto simili perché in entrambi i casi l’accartocciamento, al di là del suono, esprime un ritirarsi dalla realtà, una dissonanza con la realtà che non vivifica, ma inaridisce.
Un altro aspetto che, a mio parere, Griselda Doka mutua dalla poesia di Montale è la struttura a scenografia.  I versi non sono quasi mai descrittivi di stati d’animo, di sentimenti, ma sono delle scene che si aprono e specialmente si rincorrono, quasi che la poeta per riuscire a dare pieno corso alla sua espressione di poesia abbia bisogno di più scene, di più immagini, perché la prima non dà compiutezza del  suo sentire e percepire la realtà. In questo rincorrersi di immagini e di scene spesso si perde il filo di un discorso logico che anzi difficilmente è rintracciabile per cui la poesia è evocativi di stati d’animo, è evocativa del suo rapportarsi alla realtà. Nella poesia di Griselda Doka non c’è disperazione, non c’è pessimismo, ma esiste un profondo turbamento, una incapacità di rapportarsi con serenità alla realtà. E’ proprio il caso di parlare di parlare di disappartenenza perché la poeta non si sente inserita con serenità in un contesto, in una situazione, naturale o umana che sia. Un aspetto che spesso viene messo in luce è l’incertezza della propria identità, che risulta sempre problematica e mai in fase di recupero di una accettata pluridentà.  Così in Grido: “ Grido/ ricamo sospiri/ mastico a fatica/ la mia storia/ che non diventa cronaca/ solo ebrezza/ del tuo sforzo nel definirmi/ con te, si chiude il mio ciclo/ prima che inizi/ ansimo/ inseguo il vento…”.  Nella poeta c’è una difficoltà a riconoscersi anche se questa incapacità non arriva ad irritazione o angoscia ma ad un illanguidirsi nello sguardo. “…trovare il nome delle cose, qui,/ diventa un andirivieni di attese/ flacida la maniglia della porta/ che finge solitudine e depravazione/ ogni istante mi induce/ di orbitare nel più dolce degli sguardi:”. Questa seconda parte fa emergere un altro aspetto tecnico usato è cioè l’animazione delle cose, così è la maniglia che finge.
Nella poetessa non emergono spunti di speranza. In Montale, il giallo dei limoni era indice di una possibilità di riabilitazione della realtà, di un riscatto, di un’uscita positiva di fronte all’amarezza che la realtà poneva. In Griselda Duka anche là dove un immagine ha potuto per un istante indulgere a speranza avviene una correzione che riporta tutto all’amarezza. Ecco in maniera emblematica questa breve poesia: “Troppe volte ti ho fatto morire/ innocente come la pioggia/ candida come il sale, il sale/ Bambina mia”. Questa ripetizione “il sale, il sale” sembra proprio il ribadire che il biancore, simbolo di innocenza e fede in un futuro radioso, non è cosa reale, di cui tener conto perché ciò che invece conta è che quel biancore è sale, salato.
La poeta di origine albanese quando tocca problemi di ordine sociale, in questa raccolta essenzialmente quello della migrazione, lo fa con una maestria, senza facili sdolcinamenti o con abbondanza di descrizioni emotivi che indulgono alla facile lacrima. Così ancora a livello esplicativo: “Dio mio quanto buio/ mai visto tanto buio in vita mia/ mai tanta acqua/ tanto sudore e pipì insieme/ tante lacrime partecipi nella disperazione./…/
La silloge non presenta un immediata e consolatoria comprensione. Si ha la necessità spesso di una rilettura, di una immedesimazione con le immagini per coglierne nello stridore, nel senso dissonante, nella durezza del suono, a volte, il vero senso. Ma acquisitolo si ha voglia di ritornarvi sopra per sentirne tutta l’efficacia perché che si sia in consonanza con la realtà o meno questi versi ci mostra come ciascuno di noi ha momenti di solitudine, di distanziamento; ciascuno di noi sente di essere costantemente in esilio e pur aspirando verso la ricerca di un nuovo territorio d’appartenenza ed identità questo fatto sfugge continuamente e restiamo in costante dissonanza con la realtà e sentiamo di non appartenere e essere sempre e comunque distanti.

gennaio 2019