Gaza: la poesia dopo Auschwitz

“Scrivere poesia dopo Auschwitz è una barbarie”. Lo è altrettanto scrivere poesia dopo Gaza?

di Hamid Dabashi

In un memorabile e assai citato passo di Critica della cultura e società (1949), Theodor Adorno, l’eminente filosofo tedesco che trascorse gran parte della sua vita negli Stati Uniti dopo l’avvento del regime nazista nel suo paese, pronunciò la celebre frase: scrivere poesia dopo Auschwitz è una barbarie, e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere poesia oggi.

In una fase più tarda del suo pensiero Adorno riconsiderò questa affermazione, il cui potere ed effetto scioccante, tuttavia, ebbe grande eco.

Cosa intendeva esattamente Adorno con quella frase? Come può una poesia scritta dopo una tragedia come Auschwitz e, per estensione, dopo un orrore come l’olocausto, risultare un atto di barbarie? Non è, la poesia, consolazione in momenti di dolore e perdita? E in modo ancor più attuale: scrivere poesie dopo Gaza è un atto altrettanto barbaro? Cosa potrebbe significare?

Il grande poeta palestinese Mahmoud Darwish non è più tra noi. Come avrebbe reagito al massacro di Gaza, fosse stato ancora vivo? Si sarebbe tolto la vita come aveva fatto l’altrettanto grande poeta libanese Khalil Hawi, per protesta contro la brutale invasione del Libano nel 1982 da parte degli israeliani, o avrebbe risposto con la sua poesia?

Come possiamo leggere, quindi, l’affermazione di Adorno al giorno d’oggi, dopo il barbaro massacro del popolo palestinese da parte degli israeliani a Gaza?

Prima di tutto, è necessario contestualizzare la frase del filosofo. Nel suo saggio, Adorno afferma che “la critica trascendente dell’ideologia è obsoleta”, che significa “non vi sono più ideologie nell’autentico senso di falsa coscienza, ma soltanto propaganda verso il mondo attraverso la propria moltiplicazione e la provocatoria bugia che non cerca adepti ma impone il silenzio.

Quel che Adorno ci sta dicendo è che abbiamo toccato un fondo, un cul-de-sac nella critica all’ideologia, poiché siamo organici a tale ideologia. La grettezza di quell’ideologia si è ora diffusa in una metastasi di sfumature di propaganda, che inghiotte e stravolge la reale natura delle nostre capacità critiche. L’ideologia è divenuta amorfa.

Adorno è in cerca di una critica di quella che lui stesso chiama “la società totale”, una società dove tutto, inclusa la critica della cultura, è stato portato ad essere, concretizzando, allo stesso tempo critica e soggetto della critica.

“Più totale diviene la società”, continua Adorno, “più la mente diviene reificata e più paradossale il suo sforzo per sfuggire alla reificazione”.

In altre parole, non si può salvare una società attraverso una critica della cultura il cui linguaggio continua a esacerbare la propria reificazione.

È a questo punto che Adorno, all’improvviso, aggiunge: “Persino la coscienza più estrema del fato minaccia di degenerare in chiacchiera inutile. La critica della cultura si trova a confrontarsi con lo stadio finale della dialettica tra cultura e barbarie. Scrivere poesia dopo Auschwitz è barbaro. E ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere poesia oggi.”

Perché? “Mediante la crudezza e la severità della nozione di causa-effetto, [la critica della cultura] rivendica di tenere uno specchio davanti alla crudezza e severità della società, al suo deterioramento mentale. Ma la minacciosa, integrata società totale dei nostri giorni non tollera più neppure i momenti, relativamente indipendenti, distinti, a cui la teoria del rapporto causa effetto fra sovrastruttura e base un tempo si riferiva”.

Pertanto, è quasi impossibile per il critico della cultura trovare uno spazio morale che sia al di fuori della cultura che egli intende sottoporre a critica. Siamo in una sala di specchi, dove cultura e critica della cultura continuano a riflettersi l’una nell’altra, generando l’illusione della sfida, della consolazione, della liberazione, ma spingendoci in realtà ancor più in fondo all’abisso.

Una prigione all’aperto

 Ed è qui che, in una frase inquietante scritta nel 1949, Adorno usa una metafora che guarda in là di decenni, direttamente a Gaza:

“Nella prigione all’aperto che il mondo sta diventando, non è più così importante sapere cosa dipende da cosa, vista l’estensione in cui tutte le cose sono una sola”.

Per “prigione all’aperto” egli di certo intende una società in cui tutto è totalizzato, omogeneizzato, ed è divenuto una cosa sola, così si fonde il morale e il materiale, l’ideologico e il politico, la sovrastruttura e l’infrastruttura in un’unica concreta totalità.

Ma Gaza, in quanto campo – campo di concentramento o di lavoro – non è divenuta a sua volta quella totalità reificata del mondo preconizzata da Adorno?

In Quel che resta di Auschwitz: l’archivio e il testimone (1999) il filosofo italiano Giorgio Agamben esaminò la letteratura prodotta dai sopravvissuti di Auschwitz, soffermandosi sulle questioni etiche che essa pone. La distanza tra le testimonianze di Auschwitz e di Gaza è, però, esattamente dove il cul-de-sac di Adorno tocca il suo fondo.

Tutto ciò sarà di certo familiare agli studiosi di Adorno. Ora, la domanda è: nel fare il salto dal 1949, anno in cui egli scrisse il saggio, ad oggi, dove siamo testimoni della carneficina del popolo palestinese ad opera degli israeliani a Gaza, cosa vediamo? Come leggiamo oggi la frase in cui Adorno afferma che “scrivere poesia dopo Auschwitz è una barbarie?”

Volgiamo lo sguardo alla società israeliana d’oggi, a quando ha scagliato la sua pantagruelica macchina militare contro una popolazione perlopiù indifesa. Violentate le loro donne, urla un israeliano ai suoi commilitoni, distruggeteli tutti così non partoriranno più “piccoli serpenti”, gli fa eco un membro del parlamento israeliano. Bruciateli vivi e guardateli morire, poi salite sulla cima di una collina per godervi lo spettacolo del nostro esercito che li massacra.

Uccideteli mentre giocano sulla spiaggia, uccideteli al parco giochi, uccidete i loro disabili, uccideteli mentre pregano nelle moschee. Distruggete le loro case e radete al suolo interi quartieri, mutilateli e uccideteli quando si rifugiano negli edifici scolastici delle Nazioni Unite e poi ritrovatevi gaudenti a cantare: “domani non c’è scuola a Gaza, non ci sono più bambini!”

Tanto per essere sicuri, in modo che nessuno possa malinterpretare tutto ciò, una testata israeliana ha pubblicato il blog di un lettore che chiede apertamente il “genocidio ammissibile” dei palestinesi.

A cosa fa capo tutto questo? Non va di pari passo con il definire cosa significa oggi il sionismo, se messo a confronto con il suo potenziale originale? Dicevano che di palestinesi non ce n’erano. Oggi, i palestinesi sono palestinesi, non foss’altro che in virtù di una storia di irragionevole sofferenza e resistenza eroica.

Cosa sono gli israeliani? Chi sono gli israeliani? Sono israeliani in virtù di cosa? In virtù di una condivisa e sostenuta storia di omicidi, da Deir Yassin nel 1948 a Gaza nel 2014. Non è questo il sionismo, la pietra fondante ideologica dell’essere israeliano?

Barbarie manifesta

 Questo macabro coro funebre è la poesia che Israele sta cantando sulla lapide di Gaza. “Morte agli arabi”, grida la folla a Tel Aviv, e questa è la poesia del sionismo per Gaza. È questo che intendeva Adorno nel dire “dopo Auschwitz la poesia è barbarie”. È questo che egli aveva preconizzato, ciò che aveva anticipato. Israele è la puerile poesia dopo Auschwitz. È una barbarie manifesta, e dentro vi è il microcosmo che la anima, dall’Arabia Saudita all’Egitto che lo sostengono, all’Iran e alla Turchia che fingono di opporsi ad esso, dagli Stati Uniti all’Europa che lo armano, alla Cina e alla Russia che cercano di farvi affari. Ed è esattamente questo mondo, cristallizzato in Israele, che Adorno vide, preconizzò, e paventò.

Ma il terrore di questa poesia barbara è grande. Dopo Gaza, non un solo israeliano al mondo potrà proferire la parola “Auschwitz” senza che vi risuoni la parola “Gaza”. Auschwitz come fatto storico è ormai archiviato. Auschwitz come metafora è adesso appannaggio dei palestinesi.

Da ora in poi, ogni volta che un israeliano, un ebreo, da qualsiasi parte del mondo, pronuncerà la parola “Auschwitz”, o la parola “olocausto”, il mondo udrà “Gaza”. Questa è la sublime verità della frase di Adorno, come aveva osservato Primo Levi già nel 1982, a seguito di un altro massacro di palestinesi: “Oggi, i palestinesi sono gli ebrei degli israeliani”. Così oggi il sionismo – così come cantato da quei delinquenti assassini per le strade di Tel Aviv – è la barbarie su cui Adorno ci mise in guardia dopo Auschwitz.

E cosa dire di Gaza? Cosa dire della poesia dopo Gaza, la poesia dei palestinesi, degli arabi, di qualsiasi essere umano testimone del massacro di Gaza? La risposta a questa spaventosa domanda non la troviamo più in Adorno, bensì in un altro pensatore ebreo del suo tempo, che vide le nubi nere del terrore nazista addensarsi molto prima di tutti e decise, infine, di porre fine alla sua vita prima che esse inondassero il suo mondo con la loro pioggia terribile e mortale.

Tra il suicidio di Walter Benjamin nel 1940 mentre si trovava sul confine tra Francia e Spagna, in fuga dalla banalità del male nazista, e il suicidio di Khalil Hawi nel 1982, per protesta all’invasione sionista della sua madrepatria, il destino di tutte le nostre metafore e allegorie dopo Gaza è stato scritto e segnato.

Dove Adorno vedeva una concreta totalità, Benjamin vedeva frammenti in rovina, e nelle concrete macerie di Gaza sotto le pesanti bombe israeliane e statunitensi, Benjamin anticipò la messianica ascesa di allegorie di distruzione per le nostre paure future, prevedendo le nostre fantasie di libertà. Mentre in Adorno il sionismo vile e diabolico interpretato ed esercitato da Netanyahu è la conferma della sua idea che dopo Auschwitz ogni poesia è barbarie, nelle rovine di Gaza, vicino ai teschi fatti a pezzi dei bambini palestinesi, dimorano i semi nascenti del nostro mondo futuro – terribile, allucinatorio, mortifero, funesto.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono al suo autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale della nostra testata.

 Si ringraziano l’autore e Al Jazeera per il consenso alla traduzione e alla pubblicazione dell’articolo in Italia.

(Traduzione di Diana Osti)