I can’t walk in those shoes!

Cammino con un paio di sandali tedeschi nelle stanze fresche della galleria nazionale di Praga dove ho appena visto un’installazione gigantesca dell’artista cinese dissidente Ai Weiwei: un’enorme barca gonfiabile lunga 70 metri con 258 rifugiati senza volto, anche loro gonfiabili.

Sono tempi non sospetti, l’estate del 2017, al governo del paese dove sono ritornata a vivere, l’Italia, non c’è ancora un ministro dell’Interno che vuole chiudere i porti, ma già il dramma di quel mare nostrum solido, lastricato di morti, è presente nelle coscienze di chi ama l’umanità. Weiwei mi aiuta a dare un senso a tutto questo, che senso non ha. Rifiuta il termine refugees crises, che è tanto usato dai media anglosassoni e la definisce una crisi dell’umanità perché, nella gestione dei rifugiati ,”abbiamo perso i valori umani”. E’ la nostra crisi, non la loro.

Il luogo è da brivido: qui si raccoglievano gli ebrei da deportare nei campi di concentramento di Terezin dal 1939 al 1941. E infatti, faccio pochi passi e mi trovo di fronte qualcosa che mi fa orrore. Cerco nella memoria da dove viene quell’orrore. Sono di fronte a un pezzo di Laundromat (2016) sempre un’installazione di Ai Weiwei: accatastati qui e là ci sono feticci di vite. Vestiti ed oggetti che l’artista ha raccolto nelle sue visite ai campi di Idomeni tra la Grecia e quello che allora si chiamava ancora FYROM.

Anche quest’ultimo è un luogo da brivido dove, da un giorno all’altro il nazionalismo post-guerra fredda si è scatenato in una guerra di cecchini di quartiere. Hanno avuto problemi a riconoscere il nome del paese per anni e ora, dopo anni di presenza dei caschi blu (di cui nessuno parlava più), ora si possono chiamare Repubblica di Macedonia del Nord. Il ricordo della guerra in Yugoslavia e dell’esodo che ne seguì è vivo nella mia memoria. Alla scuola del Centro Culturale La Tenda dove insegnavo come volontaria qualche sera arrivarono i primi madrelingua serbo-croati. Andai qualche anno dopo nei Balcani e fermai l’auto per riposare un attimo quando mi si gelò il sangue alla vista dei campi con dei piccoli bastoni e lontane strisce bianche che avvisavano distrattamente: “MINEN”. Anni dopo, in un’università turca ho avuto una studentessa che era bambina ai tempi della guerra e in una presentazione alla classe ha raccontato l’esodo della sua famiglia.

Mi vengono in mente tutte queste cose mentre guardo questi vestiti che appartenevano ai rifugiati del campo di Idomeni, simboli di spoliazione e dispossession dice il cartello. Dispossession significa spostamento/trasferimento, ma anche rimozione. Quest’ultimo significato è forse il più pregnante.

Ai Weiwi ha lavato ed asciugato questi vestiti nel suo studio nel cuore dell’Europa, a Berlino. Un gesto simbolico di purificazione o un lavaggio della coscienza? E questa montagna di scarpe mi ricorda un’altra immagine che ho stampata in testa. La prima pagina di Se questo è un uomo di Primo Levi, dove si narra l’arrivo al campo di concentramento di Auschwitz: i prigionieri dovevano spogliarsi completamente, anche delle protesi e scambiarsele. Questa cerimonia di spoliazione è una delle storie più allucinanti del libro, l’avevo letto alle medie e ne avevo fatto didascalie in francese per i cartelloni che non sapevo disegnare. Senza definirne il contesto, facevo leggere queste prime pagine ai miei allievi musulmani del corso di Storia Europea che tenevo in Turchia. Cresciuti in paesi dove Hitler viene mostrato come un grande leader militare, rimanevano confusi di fronte a quella descrizione. I numeri dei morti non colpiscono come le miserie dei vivi l’immaginazione degli adolescenti.

E neanche la mia di adulta. Queste scarpe le associo anche alle scarpette rosse nelle piazze dei femminicidi. Tutte le serie televisive femminili leggere ci mostrano le scarpe come oggetto del desiderio femminile per eccellenza. Dovremmo adorare arrampicarci su tacchi 12 e sentire i nostri sederi alzarsi verso vette di bellezza. Guardo giù ai miei sandali estivi e vedo nel loro cuoio consumato tutta la fortuna della mia vita in cammino che non ha dovuto spoliarsi di queste scarpe. Dentro di me questo cumulo di oggetti rimossi dalla coscienza ogni tanto emerge e rivedo davanti agli occhi le scarpe dei morti del Mediterraneo. Non so se pensarci mi aiuta nel cammino, ma forse mi aiuta a mantenere un contatto con quell’umanità che sento così in crisi, attorno, nella mia vita milanese del 2019.

febbraio 2019

Raffaella BIANCHI