Il primo seme
Appunti di viaggio e residenza
Nota dell’autore.
Nell’arco complessivo degli ultimi cinque anni ho cercato di dare forma lirica a tutto ciò che in maniera profonda e intensa è entrato a far parte del mio mondo interiore e poetico. Un viaggio e una residenza non solo nella geografia complessiva di questo paese e nella sua memoria individuale e collettiva, ma anche un approdo onirico e letterario che si apre alla scoperta di veri e propri luoghi dell’anima.
Ad ogni uscita de “El Ghibli” corrisponderà una sezione di 4, 5 poesie. Le sezioni saranno quattro: “Il primo seme”, “Viaggio di un uomo”, “Versi eretici” e“Frammenti di un racconto interrotto”.
Qui di seguito: “Il primo seme” vera e propria cosmogonia naturale.
Il primo seme
I
Io ero una terra di arance e limoni
che il sole arava con il suo oro,
verdeggiante di carrube selvatiche e possenti olmi;
splendeva un astro giallo sulle grandi alture
e l’aria spirava e danzava e cantavano i merli.
Là io riposavo in un letto di ciottoli e pietre
le sere d’estate, tremule, vicino ai ruscelli
sotto una pallida luna, amante delle maree.
Là ero senza nome. Là ero il tuono profondo!
Il vento primordiale spargeva ogni seme lontano
e cresceva nel mio ventre il mondo.
Crescevano argille dal fango, tufo e grano,
poi fiori e blatte dalla oscure miniere,
ciechi pipistrelli, ortiche alla bocca di un platano,
nella fecondità del buio crescevano le zagare
nelle viscere rosse, giorno e notte prendevano
forma, dove presto sarebbero giunte le mani
con falci di primavera e lunghi vomeri
a dissodare e piegare al crepuscolo le giovani
schiene. Era il regno delle lucciole e dei corvi neri!
Ditelo con gli occhi di un popolo ancestrale,
ditelo che ero labbra, sangue e fatiche,
profonda come la notte, alta spina dorsale
dai fianchi di marna, spuma di alghe acquatiche,
serpe la cui muta è sepolta tra le avene.
Io ero la maestosità delle acque, la tenera
fronte dell’alba che illuminava i calanchi e le arene
sabbiose; nuda ero il suono, ero la bocca dal fragile utero!
Io ero la culla, la selva, l’approdo
ero Bisanzio le cui tele d’oro
dai lunghi abissi all’altopiano intrepido
la lingua perduta parlavano del Bosforo;
ero colei che odorava di foglie di menta,
di tempesta, di squarci alle porte dei cieli
dove l’azzurro si faceva una lampada spenta
di voci e di suoni di navi, dalle Indie orientali.
È giunta l’ora del crepuscolo, la polvere
bianca della calura estiva e dei cocchi
illuminava, come una palma d’avorio, un cuore
dilaniato. Come un fiore esule dalle terre aruachi
io ero la piccola Maia in catene, ero le Americhe
a macinare cacao, a tritare caffè, selce incatenata
ai remi salmastri dalle spalle tolteche,
la cui radice d’agave era fatalmente imbrigliata!
Io ero con loro e non ero nulla,
alla mano dei boia vivevo schiava;
ero berbera, odore di aspra cannella,
desiderio di paprica all’ombra della casba.
Madre esoterica e saracena come il grano,
madre dei boschi, smeraldo di acacie,
labbra di porpora con masala indiano
cuore pulsante dalle miniere buie,
madre terrena, frontiera barbara
voce antica, acqua delle viscere
marea dell’oblio, sudore di zolfara
seno delle tarante, vulva di cerere
ero la notte furtiva, ero il cielo stellato,
l’immenso e infinito slancio, il tedio d’amore.
Io ero Didone, colei che ha mutato
l’odore del viaggio in odore di carne.
II
E venne il tempo dei grandi oceani,
delle selve maestose che si schiudevano in fragili pianure,
l’ora prima di un silenzio inviolabile, arcano
dove un cielo luminoso desolava in una notte pura!
Una falce di luna antica, simile a smeraldo, inaccessibile
e segreta, le foglie illuminava nel verde di un giorno
remoto. Perenne era il ciclo delle stagioni. Febbrili
giungevano le sillabe della primavera, nelle cui acque si bagnavano
come pesanti aurore, immensi ippopotami! Secoli
di un Tevere acquitrinoso che la sua chioma
nuda e irta mostrava contro l’umida pelle
dell’agro. Posava la natura i suoi paludosi reami
nella fertile fanghiglia, nel tufo eroso
da piogge torrenziali. Solitarie rive
respingevano eterne mareggiate, l’ossesso
delle spume vorticose, sciabordando, si apriva
in un crepuscolo fatale! In un istante simile a un lampo
la terra si faceva spelonca compatta, acceso fremito
del sottosuolo, fiorito pascolo dei vitelli. Attorno, laboriose api
follemente ronzavano come un simulacro di vita!
Penisola di mulattiere e baie, miniere e sale,
terra dell’infinito misterioso, luna di rame,
ovunque la verginità di un sole
vivo, taciturna risplendeva su vaporosi e flagellati mari,
dove uomini e leggi derubavano l’ombra
di un’anima vegetale, quando ancora nient’altro
essa partoriva se non il fiore di fragili
maree, dove una lunga e rigonfia spina dorsale
con la marna colpiva della sua statura!
E vennero gli sciacalli, con nere mani da predoni,
grassi e pidocchiosi, a spogliare con cura la terra
bruciando la cenere, divorando ambra e carbone.
Nel battito di un dolore sopito, muore glorioso
il giardino del mondo, avvampa nella croce del baratro;
esso muta la sua storia vegetale, facendosi abuso
di chiacchiere e grigiore. Terra dove ogni parola contiene un ladro!
III
Ionio, dalle profondità oscure emersero le acque,
dalla rauca e possente voce del sottosuolo
si generò il cieco solco del Mediterraneo.
Vulcani e ombre presero forma, e il mare
si illuminò come un immenso giardino
di perle. Ionio, aurora delle ginestre,
nome di argilla e squarcio di rondine,
creta scivolosa, vento arroccato della Corcira
tutto è radice ora, faglia di turchese
e crudele calanco di sabbia dove gemono i naufraghi.
Lenta scende la sera, sospesa
tra le lampare sui vecchi moli e i fuochi
delle golene; la luce serba gli esuli,
la croce del sud ha la purezza di un fiore
stanco. La fibra è dura, tenace, inaccessibile
e pulsa nel ventre delle alture come un cuore
nero, come una falce arricchita d’oro!
Restano i ruderi, quei nomi che in pochi
hanno udito, lungo un arido pianoro
da cui tratturano i pastori, per salire i boschi.
Laggiù la primavera è un grappolo di onde,
è il giorno appeso all’odore salmastro di ricciole e dentici,
è il brillare di un orizzonte madido
che dolcemente sfuma e annega nell’Africa.
IV
Ai piedi delle falesie si fa fango e argilla la terra,
sotto un grumo arenario di ghiaie.
Spira un vento di scirocco. Lento spira
sui colli a picco, dai costoni lungo tutto le ventraie.
Attorno, passata l’afa cangiante della notte,
naufragando sulle cavità di sale,
giace tra gli scogli della baia e le risacche torte,
una fiumana recisa e limosa di cefali.
Non vi è traccia, in quel buio, di onde luminose
neppure di calde correnti levantine, tuttavia dai calanchi
di poco si ritira la marea, sotto monte, spumosa,
come una rete rastrellata e cunicolare di gorghi;
una ventresca riemerge dal costone inabissato.
Com’è rapida la luce del giorno che si estingue!
Com’è fugace la soglia di un tempo andato.
Teste recise!, la vostra ultima alba si spegne
proprio qua, in fondo alla nostra prima gola.
Com’è lontana la vastità di un mare aperto!
Secco taglio di una lama, reciso scolo;
come un grido è giunto, come un acre tumulo ventrale.
Nulla ha preso sonno in quella tarda notte.
In mente tornano, luccicando come un sigillo,
le imposte in penombra dei caffè sul porto,
l’odore di muffa sull’intonaco delle sale
e il legno tarlato d’attesa, di imbarco e di vita.
Ecco: queste forme di cefali recise
somigliano, lontano da sguardi indiscreti,
alle facce arrese sui banconi, alle divise
salmastre e azzurre dei portuali, al quadro
di sigarette e cicche accese; persino al vapore
canceroso. E come un lampo l’esistenza si inquadra
figlia e compagna allo stesso inquieto mare.
E così tornano dopo avere beccato ninchi marini,
piantati come lance dopo un volo maestoso
i piccoli gabbiani di scogliera; piumati se ne stanno
sulla riva, scrutando il mondo con le loro pupille misteriose.