Intervista 32. Marco Lucchesi
INTERVISTA DI MARCO LUCCHESI
GIUGNO 2005
I – Vorremmo conoscere il rapporto così bello e irriducibile tra due città che ti abitano come Lucca e Niterói…
Sì, “irriducibile” mi sembra la parola giusta nel caso, e spiego… M prima devo dire che Niterói e Lucca sono le due città dove ho vissuto per più tempo e che conosco meglio. Nella prima ci sono nato, nella seconda è nato mio figlio Lorenzo. Sono due città riservate, che orbitano intorno a due metropoli di grande fascino, Rio e Firenze. E qui finiscono le coicidenze, la “riduzione”. Cioè, almeno per me personalmente. Sono stato felice a Niterói durante la mia adolescenza e la primissima gioventù, negli anni ’70. Poi il mio rapporto con la città, come quello col Brasile in generale, ha cominciato a deteriorarsi. Nei miei ultimi anni brasiliani, prima di emigrare, ho sperimentato il rifiuto, la negazione e la solitudine. Oggi credo proprio di aver preso la decisione giusta, quella di lasciare il Paese che non mi voleva per poter “rinascere” ed essere ben accolto altrove. Cioè, prima che la situazione “irriducibile” del Brasile nei miei riguardi mi facesse soccombere e scomparire per sempre nel più assoluto isolamento: una scomparsa che sarebbe passata inosservata, che non avrebbe avuto alcuna importanza. Potrei dire, senza esagerare, che la mia morte in Brasile c’è stata, una morte “virtuale”, un “assassinio culturale” come diceva Glauber. Mi hanno fatto bere quel calice di cicuta, perché è chiaro che per un artista l’oblio e il silenzio obbligato non sono altro che la morte, una condanna senza appello all’annientamento. Ora mi congratulo per aver scelto la “morte amministrata” che è l’emigrazione, invece di una vita indegna. Lucca per me rappresenta questa rinascita, il riconoscimento, la risalita, la gioia, la creatività, la vita insomma.
II – Sei uno scrittore bilingue ormai e da tanti anni. Come spieghi il tuo centro di gravità letterario e linguistico?
Anche se ho pubblicato nove libri in Brasile, durante quasi vent’anni di attività letteraria prima di dover lasciare il paese, posso dire che l’italiano è la mia prima lingua, anche se non è la mia madre lingua. Questo perché per me il concetto di “prima lingua” è diverso da quello consueto. La prima lingua sarà sempre quella del presente, della vita che accade, delle passioni dell’oggi. L’altra, la lingua madre, è la lingua del ricordo, dell’origine, ma non è più a lei che faccio ricorso quando per esempio mi arrabbio, o m’innamoro, o scrivo romanzi, racconti, poesie… E così il portoghese ha perso la sua prominenza nel mio fare letterario, via via che passavano gli anni su questo palcoscenico europeo. Non è detto però che il portoghese non potrà eventualmente riprendere il suo protagonismo, o che non subentri una terza, o quarta lingua. Il futuro è sorprendente, imprevedibile. E poi, non tocca a me scegliere la mia lingua. La vita si incarica di farlo per me.
III – Guimarães Rosa pare una presenza perenne tra i tuoi amati scrittori…
Sì, Rosa è uno dei miei autori preferiti, insieme a Borges, a Canetti, a Kafka, a Buzzati e alla Lispector. La cosa più impressionante in Rosa, oltre all’invenzione del suo linguaggio, è il fatto che la trama dei suoi romanzi e racconti ha qualcosa di perenne, di mitologico, a pari delle tragedie greche o di certe tragedie shakespeareane. Solo che lo scenario del “sertão” scelto da lui, il paesaggio brullo, vuoto, ostile, le immensità desertiche nelle quali l’uomo è un effimero intruso, sottolineano la sua dimensione tragica, suggeriscono l’esistenza di un territorio sovrannaturale, come un inferno possibile, credibile, o un mondo post-apocalisse, un pianeta fantasma come certi paesaggi presenti nei quadri di Max Ernst o di Salvador Dali. È come se l’inconscio stesso si fosse materializzato nelle sue tante “veredas”, sentieri, e quindi siamo tutti microscopicamente dispersi nel ventre di un grande “sertão”, che forse è la vita stessa. Immersi in questo spazio virtuale creato da Rosa i suoi personaggi diventano più grandi di loro stessi, dei veri archetipi, e trasudano un’intensa umanità dietro la loro economia di parole, la loro espressione essenziale e tagliente. Questa “navigazione” in Rosa, tra vento e polvere, mi ha sempre colpito e coinvolto.
IV – I tuoi poemi su Lucca sono stati raccolti in una bella antologia edita da Maria Pacini Fazzi. Che nome profondo avrà la tua Lucca?
Siamo insieme in quel libro, io e te, no? E con noi tanta bella gente: Dante, Mary Shelley, Ungaretti, D’Annunzio, Pasolini, Montale… Che Olimpo! Il nome della mia Lucca? In quel libro l’ho chiamata “la mandala di pietra”, pensando alle sue mura rinascimentale, lunghe e larghe, un cerchio completo, mure intatte, invincibili; non barriera, ma cammino, percorso. Mura nell’immagine ma anti-mura nel concetto. Lucca è un’isola in verità, e i lucchesi, così come i veneziani, si comportano di conseguenza, sono isolani anche loro, hanno sviluppato un’autoimmagine insulare. I margini, le sponde dell’isola, sono queste mure rosse, il loro mare è un mare di terra, le onde sono le colline. Questo verde mare ha un nome: Toscana.
V – Come si svolgono le attività del centro Sagarana e come le armonizzi con quelle che porti avanti all’Università degli Studi di Pisa?
Sono due attività molto diverse e non saprei dire fino a che punto sono “armonizzabili”. Pisa è un antico Ateneo dove insegno traduzione letteraria, anche di poesia. La Sagarana invece è una scuola di scrittura, una sorta di piccola università privata senza scopo di lucro, per la formazione di futuri scrittori in lingua italiana, e che pubblica una rivista letteraria on-line tra le più lette d’Italia ( www.sagarana.net ). In verità alcuni professori dell’Università di Pisa e della Scuola Normale Superiore insegnano, o hanno insegnato, anche alla Sagarana. Ma gli allievi di una non coincidono mai con gli allievi dell’altra. Quelli della Sagarana sono scrittori in erba, in generale con più di 30, o 40 anni, mentre a Pisa sono ragazzi in età universitaria. Ma è anche vero che, da un certo punto di vista, anche la traduzione è una forma di scrittura creativa. Come quell’altra, richiede un totale immedesimamento nei personaggi pena il rischio di produrre dialoghi o monologhi poco verosimili.
VI – Hai svolto pure una riflessione e una prassi costante sulla traduzione…
Sì, è da sempre che rifletto sulla traduzione, sui suoi limiti e le sue possibilità. Nel mio corso all’Università c’è un momento iniziale in cui si legge e si discute proprio sulla filosofia della traduzione, sulle scelte difficilissime che il traduttore è costretto a fare. Tradurre è l’arte della scelta, ma soprattutto l’arte della rinuncia, che si auspica la più intelligente possibile nelle circostanze. Per esempio, uno può impostare la traduzione dando priorità alla fedeltà assoluta al testo originale oppure alla fluidità e alla capacità di coinvolgimento del testo d’arrivo. In passato tendevo alla prima posizione, oggi preferisco la seconda. Secondo me, il lettore che si è messo generosamente disponibile alla lettura, che ha accettato l’impervio invito della carta stampata, non potrà mai essere punito per questo. Ma chiaramente questo dipende anche dalla natura del testo che si vuole tradurre. In certi casi la precisione è indispensabile. Comunque, pensando ai testi letterari, il controllo ideale dell’adeguatezza del risultato di una traduzione è quello fatto dall’autore stesso, in collaborazione con il traduttore, quando si ha la fortuna che l’autore sia ancora vivo e sia un conoscitore dell’idioma d’arrivo.
VII – Quo vadis, Júlio, come si palesano i tuoi progetti di futuro?
Non penso molto al futuro. Ho imparato a non fare progetti a lungo termine, è troppo pericoloso.
Diciamo che nel senso strettamente letterario le cose sono più chiare: è appena uscito il mio nuovo romanzo, “madrelingua”, e ho pronta una raccolta di poesie e un’altra di racconti brevi. Ora lavoro su un libro il cui genere non saprei nominare, sarebbe una raccolta di frammenti, riflessioni e racconti brevi sul tema dell’amore nelle sue infinite forme. Credo che prima o poi riprenderò anche la mia vecchia ricerca sulla forma possibile del romanzo nel nostro tempo, dalla quale il “madrelingua” è stato un momento significativo.
Se la domanda invece vuole allargarsi alla sfera esistenziale, dirò che sono felice, consapevole della mia felicità, faccio ciò che voglio e mi sveglio ogni mattina con grande gioia. A volte la felicità un po’ mi spaventa, ma poi penso che ho sofferto tanto, e per tanto tempo, che sono diventato un felice creditore della vita. E così sono sereno e non mi preoccupo più. Godo – in un modo un po’ zen, un po’ minimalista – le cose belle del mio quotidiano, cercando di non lasciarmi sedurre da progetti massimalisti e impegnativi. Fino a quando sarò, nelle belle parole bibliche, “sazio di giorni”. Ma questo, spero, è ancora lontano.