Intervista 36. Musibrasil

LE VARIAZIONI DELL`AMORE
in «Musibrasil» il 10 aprile 2006, a cura della Redazione

Colloquio con Julio Monteiro Martins, scrittore che ha dedicato la propria vita letteraria alla sfera amorosa

Durante questa intervista a Julio Monteiro Martins, scrittore brasiliano da tempo residente in Italia, il nostro interlocutore è stato comodamente disteso sull`amaca della sua abitazione. Più che un’intervista una chiacchierata, un viaggio, un’incursione nel mondo di questo autore. E che ha avuto per tema non solo il Brasile, ma anche tanta Italia e molti altri angoli del mondo che ritroviamo nelle sue opere “Racconti italiani”, “La passione del vuoto” e “Madrelingua” – tutti editi da Besa Editrice – e nel suo atteggiamento cosmopolita e aperto nei confronti della vita. Un giovanissimo cinquantenne che non traccia un bilancio dei suoi anni, ma che guarda sempre avanti, pronto a qualsiasi mutamento in nome della libertà, pronto a catturare con la penna istantanee del quotidiano che diventano così splendidi affreschi letterari, pronto a portarci con sé nel suo volo.

Quali sono al momento i suoi progetti letterari, che cosa “bolle in pentola”? È un momento di riflessione, di bilanci, oppure ha voglia di guardare avanti?
«È una mia caratteristica, della mia letteratura, quella di non avere un unico percorso, un unico genere letterario, ma di sviluppare simultaneamente una serie di sperimentazioni nell’area del racconto breve e allo stesso tempo nell’area della poesia e insieme del romanzo e del teatro. Ho sempre voluto creare una sorta di sdoppiamento creativo, nei diversi generi della letteratura, anche perché a me è sempre piaciuto esplorare questi territori letterari diversi. Credo che sia il genere letterario stesso che richiede un certo tipo di approccio con il reale, con l’inconscio e con la creatività. Quindi quando scrivo teatro, per esempio, vengono fuori certe esperienze legate ai rapporti umani che sono diverse da quelle esperienze dello stesso tipo che esprimo nel romanzo. Non è solo una questione di diversificare i generi, è una questione di usare questo ventaglio di generi letterari possibili per aprire gli orizzonti più estesi della creatività, cioè per dar loro l’opportunità di sperimentare tutti i possibili approcci legati alla creazione letteraria. Per rispondere alla domanda, ho appena finito un libro di cui è anche difficile definire il genere, perché è un libro di testi brevi di narrativa, ma a volte sono racconti brevissimi, frammenti di racconti, altre volte sono racconti di dimensioni “normali”, a volte frammenti così sintetici che sembrano quasi aforismi, quindi è molto difficile dire che è un libro di racconti, non sarebbe esatto, è un libro di narrative brevi che si intitola “L’amore scritto” e che in verità sono tre libri in uno, una sorta di trittico, è diviso in tre parti, cioè, chiamate “Oro”, “Incenso” e “Mirra”, i tre doni. Ognuno di questi è già un libro completo. Questi testi nel libro sono variazioni sullo stesso motivo, che è il rapporto sentimentale uomo-donna, il rapporto d’amore e le sue più svariate forme. C’è il rapporto di una donna molto anziana con un giovane, il rapporto di una donna di una famiglia tradizionale europea con un uomo nero africano, il rapporto di dissoluzione di una coppia, il rapporto tra l’ex fidanzata che continua a lavorare con il suo ex, il rapporto con un uomo che è morto, con l’immagine, il fantasma di un uomo che è scomparso».

Un libro che tratta del rapporto uomo-donna in tutte le sue possibili varianti.

«Sì e spero di pubblicarlo entro la fine del 2006, massimo inizio 2007, e mi entusiasma molto perché è un argomento che mi è sempre stato a cuore fin dal primo libro, “Torpalium”. Ecco, ad esempio, in “Torpalium”, scritto nel ’75, più di trent’anni fa, c’era già un racconto, chiamato “Casos de amor” (Storie d’amore), diviso in due parti, due rapporti uomo-donna di due ceti sociali opposti nel Brasile degli anni Settanta. Quindi è più di trent’anni che mi dedico alla conoscenza e all’approfondimento di questo campo esistenziale, di questa sfera della psiche umana che è quella amorosa. “L’amore scritto” è già concluso, ho già finito di scriverlo. Nello stesso periodo ho terminato anche il mio primo di poesia in italiano, che ho cominciato a scrivere subito dopo il mio arrivo in Italia. È un libro che mi ha impegnato per più di dieci anni e che ora posso considerare pronto. Si intitola “L’estremo Occidente”. È programmato per uscire per una collana molto bella, di soli poeti non italiani che hanno sviluppato la loro opera letteraria in lingua italiana, guidata da Mia Lecomte, e che pubblica un solo titolo all’anno. È programmato per uscire nel 2008 e può anche darsi che, siccome ci sono ancora due anni, io inserisca qualcos’altro, anche se lo vedo già pronto adesso così com’è».

Quante poesie contiene? Il numero delle poesie è programmatico?
«Sono poesie anche piuttosto lunghe, due pagine o più, e saranno più o meno una trentina».
Com’è stato il suo approccio alla poesia, l’ha sempre avuta in nuce per questa sua tendenza a sperimentare tutte le possibilità della letteratura?
«Esattamente. Non voglio fare paragoni perché i paragoni sono sempre un po’ approssimativi, ma se si pensa a un cuoco non si immagina che sappia fare solo piatti fritti: li saprà fare al forno, in umido, poi farà anche un dolce, qualche arrosto… Mi sembra troppo limitato che uno scrittore si dedichi a un unico genere letterario, per esempio solo ai romanzi, perché dedicarsi alla scrittura di generi diversi consente di arricchirsi ogni volta che si affronta un genere differente. È ovvio che scrivendo teatro e dedicandosi a un romanzo, i dialoghi risulteranno migliori. Chi invece ha scritto racconti brevi e deve creare una scena teatrale di impatto forte, breve, improvviso, troverà nella sua esperienza con i racconti un metodo per farlo al meglio. Quindi è una buona scuola, perché ogni genere letterario rafforza la scrittura degli altri. Poiché ho cominciato molto presto la vita letteraria, mi sono imposto la sfida di diventare uno scrittore completo, in tutte le forme narrative, poetiche e drammaturgiche. E la parola “imporre” non è nemmeno esatta, perché è una cosa che faccio con tanta gioia, con tanto piacere, e mi diverto molto quando scrivo. Sono un uomo molto felice di essere riuscito a unire quello che gli inglesi chiamano vocation e avocation, cioè vocazione e mestiere. Il mio lavoro consiste esattamente nel fare quello che mi piace e che farei comunque, anche se non fosse un lavoro. È lavoro e hobby nello stesso tempo e questo è tra le cose più felici e interessanti che sono riuscito a costruire nella mia vita, anche se è stato molto difficile».

E` quindi complicato essere scrittore?

«Devi andare contro corrente per farlo, contro la corrente della sopravvivenza materiale, perché sia qui che in Brasile non si riesce a guadagnare molto. Sopravvivenza anche dal punto di vista fisico perché scrivendo sotto la dittatura, nel periodo più severo, duro, brutale, c’era un forte rischio. Ho perso molti amici, sono dovuto andare all’estero, ho vissuto in Brasile da clandestino per poter continuare anche a vivere, salvarmi la pelle. E dopo più di trent’anni di carriera letteraria, ancora oggi sopravvivo economicamente soprattutto grazie allo stipendio di professore universitario, non in quanto scrittore. È incredibile come dopo trent’anni uno non possa ancora trovare un po’ di pace. E questo non accade a me, ma in tutti i paesi del mondo a qualsiasi scrittore che faccia veramente sul serio la sua attività, che non sia uno che si lasci guidare dal marketing, che scriva secondo quello che credi che i lettori vogliono leggere. Sono sempre stato un difensore di una letteratura “alta”, un discorso insostituibile, l’unico veramente in grado di contrapporsi al discorso egemonico della pubblicità, dei mass-media, l’unico che celebra e riconosce il diverso e che predilige la complessità e non l’appiattimento. Quando lo scrittore va in una direzione contraria e comincia a chiedersi che cosa vuole leggere il pubblico, comincia a farsi guidare dalla pubblicità, rinuncia all’unica grande missione della sua arte. Che non è di adeguarsi al pensiero unico, ma di dare voce alla complessità, di contrapporsi agli stereotipi e di scuotere il conformismo generale. Gli scrittori seri e bravi sono questi. Non importa se i loro libri saranno letti o meno, se le loro opere saranno accettate solo da piccole case editrici. Però allo stesso tempo credo che anche per questi che lavorano seriamente, prima o poi, magari tardi, anche per loro arriverà un riconoscimento pubblico, anche loro saranno assorbiti in qualche modo dall’establishment culturale. È un processo più travagliato, molto più lento, a volte accade anche che questo riconoscimento arrivi postumo, però prima o poi arriva».
A proposito di riconoscimenti, grazie alla sua rivista “Sagarana” e ai vari seminari sull’interculturalità si sta aprendo un canale di interesse anche nell’ambito accademico. Sta riuscendo a farsi sentire anche ai piani alti della cultura, tanto che si è recentemente tenuto un incontro presso l’università di Siena di cui lei è stato uno dei protagonisti, proprio sull’intercultura e su quegli scrittori stranieri che hanno fatto dell’italiano la lingua d’espressione artistica.
«È vero, ma queste sono cose diverse. Queste attività, la rivista, il master di scrittura creativa, i seminari degli scrittori migranti, sono parte della mia dimensione attivista che poco ha a che fare con quella di scrittore…».

Però è un modo per darsi voce, una conquista del mondo accademico, una opportunità per dire «ci siamo anche noi»…
«Ma non esiste un “noi”. Loro vogliono che esista un noi, pretendono di inquadrare questi autori così diversi in una scatola, quella degli scrittori migranti. Invece io vivo una lotta anche contro questi stereotipi. Dico questo: tranne rare eccezioni secondo me la maggior parte di docenti e ricercatori che si dedicano alla conoscenza di questo fenomeno nuovo e straordinario che è la letteratura della migrazione in Italia, la maggior parte non vuole autori veri, ma preferisce una cosa annacquata che non crei troppe difficoltà dal punto di vista epistemologico, preferiscono per esempio uno che scriva qualcosa di più realista sulla sua esperienza personale di migrazione, oppure anche uno che non sia propriamente migrante o che sia figlio di migranti. Ora si parla di “seconda generazione”, ma non esiste nessuna seconda generazione, ce ne è solo una che è migrata e i loro figli nati qua sono italiani. Il discorso della cosiddetta “seconda generazione” è più… addomesticato, non ha vissuto il trauma, è molto più simile alla condizione di tutti gli italiani, quindi è molto più facile parlarne. C’è molto interesse, è vero, in Italia per tale questione, ma è un interesse molto superficiale, sono pochi coloro che hanno un’apertura mentale per recepire e per vedere questo fenomeno nella sua enorme complessità. Perché in verità non esistono scrittori migranti: ogni caso è un mondo a sé, con una tradizione culturale precedente, una lingua, un percorso esistenziale particolare. Chi è disposto a piegarsi su questa materia con questa apertura? Sono molto pochi, e è veramente un teatro degli equivoci».

Può fare un esempio che la riguarda?

«Ho notato che chi scrive su di me, i critici per esempio, vogliono sottolineare sempre l’aspetto di rottura. Io ho scritto molte cose in portoghese finché a un certo punto ho introdotto una rottura cominciando a scrivere in italiano. Invece l’elemento importante che dovrebbe avere maggior considerazione nella mia opera non è la rottura, ma la continuità. Ho messo in atto quella famosa frase di Tomasi di Lampedusa, ho dovuto cambiare tutto perché tutto continuasse lo stesso, ho dovuto cambiare paese, lingua, cultura, per poter continuare a produrre la mia opera, gli stessi argomenti, gli stessi leit-motiv, la stessa visione del mondo… quindi è la continuità l’elemento centrale. Faccio un esempio anche curioso. Nel mio secondo libro, scritto nel ’76, c’è un racconto che si chiama “Sabe quem dançou?” che vuol dire “Sai chi è stato beccato stavolta?” e che è la storia di un ragazzo che ha una relazione con una donna che scopre che lei lo usava come corriere della droga per i clienti di lei. Il ragazzo è minorenne e quindi non può essere arrestato. Ora, per questa raccolta, “L’amore scritto”, trent’anni dopo, ho scritto un racconto che parla di una donna che sta con un uomo e lo usa per il traffico di droga, e siccome lui è molto anziano la polizia non lo perquisisce mai. Uno è scritto in portoghese e è del ’76, l’altro è in italiano e è del 2006: c’è una continuità. E penso che sia così anche per altri scrittori che magari hanno iniziato a scrivere nel loro paese d’origine, anche se so bene che la maggior parte di chi scrive ha iniziato qua, il loro scrivere è il frutto del trauma della migrazione. Nel mio caso invece la migrazione è un evento che non inizia e non conclude niente….».
Forse perché nel suo caso la migrazione era già cominciata prima di arrivare in Italia?
«Esatto, è stata una migrazione prolungata».
E forse in Italia ha trovato il porto più sicuro.
«Questo non è ancora detto».
Però almeno per ora è la destinazione in cui è rimasto più a lungo.
«Questo sì. Ma la vita è incredibile. Io sono sempre stato pronto a tutto. In Brasile c’è una canzone di Chico Buarque che parla della roda viva que chega, il vento forte che arriva e che porta via tutto. Cioè ci sono determinati momenti nell’esistenza di una persona in cui all’improvviso arriva questo vento forte che cambia tutto. La vita non cambia sempre allo stesso ritmo, spesso cambia così, come se dopo una superficie piana ci fosse un gradino. Io non so cosa mi aspetta per il futuro, diciamo che ho già vissuto abbastanza per capire che è inutile credere che le cose siano stabili a lungo, uno deve essere pronto ad affrontare costruttivamente quello che questa intrinseca instabilità porta con sé. È un’incertezza positiva che stimola. Se soltanto un anno prima di venire in Italia qualcuno mi avesse detto che mi sarei trasferito in Toscana, a Lucca, avrei chiesto cos’è Lucca: non sapevo nemmeno tre parole d’italiano, non avevo mai pensato all’Italia come una possibilità per me. È straordinario che la vita sia così imprevedibile, è una benedizione. Sarebbe troppo noioso e anche molto più difficile per le persone realizzarsi, perché sono queste rotture che spingono verso il destino di ognuno, o meglio, che danno una spinta perché uno trovi se stesso. È solo attraverso queste strade inaspettate che uno trova se stesso, che uno incontra ciò che già possiede ma che non sapeva di avere. Tornando alla sua prima domanda, dicevo che ho finito di scrivere “L’amore scritto” e “L’estremo Occidente” e ora sto lavorando su un nuovo libro di racconti lunghi, non brevi, più profondi, più complessi, che si chiama “L’onda d’urto”, e probabilmente ci lavorerò ancora fino al 2008. È un insieme di racconti come se fossero piccole novelle, sono anche più estesi come numero di pagine, hanno una trama più elaborata, è un compromesso tra il racconto breve e il romanzo. Certo che questa cosa dei generi letterari è curiosa perché io uso l’espressione di racconto breve per esigenze didattiche e di chiarezza, però so bene in fondo che non esistono generi letterari, esistono tutte le sfumature del grigio tra il nero e il bianco ed è impossibile dire quando una cosa cessa di essere un racconto per diventare un romanzo, quando uno stile non è più poesia e diventa narrativa. Non ci sono confini, è tutta una questione di sfumature».
Convenzioni di comodo per i critici, per gli storici della letteratura…
«Certo, ma quando scrivo non mi chiedo mai prima in quale genere scriverò. Soltanto a posteriori, leggendo, osservo che cosa è venuto fuori. L’importante è che il respiro, la lunghezza, l’elemento più o meno simbolico o poetico, e via dicendo, sia quello più adeguato a quello che voglio scrivere, sia quello operativamente più adatto».
Ci parli di questo progetto di racconti lunghi. Racconti che sono venuti da sé?

«Perché sono racconti in cui voglio narrare certi processi di cambiamento, certe metamorfosi, e ho bisogno di un po’ più di respiro, di più pagine, ma non perché voglio scrivere in un genere “alto”, ma soltanto perché mi è funzionale. Ho bisogno di trovare sempre il respiro, la lunghezza che sia funzionale a quello che voglio scrivere, all’intenzione di fondo. Un’altra cosa che ritengo importante dire sulla mia attività di scrittore. Uno può chiedersi se le cose che scrivo appartengono di più alla letteratura italiana o a quella brasiliana. Ecco, è chiaro che c’è tanto del Brasile, una certa visione del mondo caratteristica della cultura brasiliana in cui c’è una buona dose di fatalismo e anche una visione un po’ familiare con il sovrannaturale. Ma c’è anche tanto dell’Italia, perché soprattutto negli ultimi libri la società in cui sono inseriti i personaggi e le storie rispecchiano la società italiana di oggi. Però, non è né brasiliana né italiana, in verità! È sempre di più una letteratura della coscienza urbana mondiale. Le cose che scrivo potrebbero essere scritte da uno scrittore nato in altre parti del mondo, purché abbia vissuto un’esperienza cosmopolita come la mia».
E questa particolare epoca storica.
«Esatto. Questa particolare epoca storica che è molto coinvolgente, che ha modellato tanto la nostra sensibilità. Io direi che la nostra patria letteraria non è un luogo ma un tempo. Noi siamo autori a cavallo tra il ventesimo e il ventunesimo secolo e ha meno importanza sapere se uno è originario dello Sri Lanka o della Nigeria o del Canada, o se uno scrive in polacco, in inglese o in italiano. L’importante è che tu abbia una sensibilità in gran parte modellata dalle trasformazioni che hai visto e vissuto sulla tua carne. Io sono nato nel 1955. Le elenco le cose fondamentali che sono cambiate dal ’55 a oggi. Per prima cosa, il fatto che gli eventi storici hanno assunto un carattere internazionale. Oggi se l’uomo va sulla luna o se scoppia una guerra in Iraq o se c’è l’Aids, queste cose avvengono simultaneamente in tutti noi. Questo è un cambiamento importante, che io chiamerei la nascita di una soggettività planetaria. Io sono uno scrittore che rispecchia questa soggettività planetaria, molto più che quella brasiliana o italiana. Un altro esempio è l’avvento dell’informatica, del computer e di internet, anche questo ha cambiato molto la vita. I cambiamenti nell’ambito della sessualità, l’amore libero, la tolleranza ai rapporti omosessuali, all’espressione libera del pensiero sul sesso, il poterne parlare tranquillamente. Oggi la gente non può immaginare com’era cinquant’anni fa, non si poteva toccare l’argomento, non si sapeva niente, o erano rapporti monogamici molto limitati oppure mercenari a pagamento. Un altro cambiamento si è verificato nel campo dei viaggi. Oggi le persone viaggiano, conoscono altri paesi, sono in contatto diretto gli uni con gli altri. Oggi non è più un fenomeno straordinario essere di fronte a uno straniero, è un fenomeno quotidiano. Un’altra cosa significativa è la fine delle ideologie, prima del nazifascismo, poi del comunismo in Unione Sovietica e questa apparente egemonia attuale del cosiddetto neoliberismo, cioè un mondo unipolare in cui vige il capitalismo. Prima non era così. La mia letteratura è frutto di questo tempo, di questi cinquant’anni. Questo è molto più importante che sapere se sia più brasiliana o italiana o che altro. C’è uno spirito brasiliano, certo, è normale».

Ci parli della sua letteratura.

«Le mie virtù letterarie più importanti non sono tanto quelle che sottolinea la critica nell’analisi delle mie opere. I critici dicono che sono un bravo costruttore di personaggi, delle loro psicologie e soprattutto dicono che la mia opera è piena di quelle che loro chiamano extended metaphores, le metafore estese, che ogni mia storia è una lunga metafora unica e che in realtà parla di un’altra cosa. Tutto ciò è vero, ma non credo che sia la cosa più importante. La cosa più importante secondo me è una forte premonizione, la capacità di intercettare nel presente le onde del futuro. È un’opera che anticipa continuamente quello che accadrà più avanti. È come un’antenna che capta certe tendenze che sono ancora molto diluite, molto diffuse ma che in futuro si materializzeranno. I miei libri, anni prima che le situazioni si avverino, le hanno già previste. Questa è una cosa molto importante, una sorta di antevisione di un percorso appena intravisto ma non ancora materializzato. Un’altra caratteristica importante è il fatto che ho una sorta di grande coraggio esistenziale poiché mi avventuro nelle zone buie dell’animo umano. Come chi con una torcia elettrica in mano si avventura in una casa abbandonata e cerca sempre di illuminare gli angoli nascosti e bui. È una situazione che esiste ma di cui nessuno ha mai scritto prima. Prenda ad esempio un racconto come “Desperada” nei “Racconti italiani”, è la storia di una donna che esce tutte le sere e rientra alle cinque del mattino e non dice mai dov’è andata e il marito non glielo chiede mai. In fondo quell’uomo dipende da quelle uscite della moglie, il racconto è basato su questo mistero, su questo vuoto, su questa trasgressione misteriosa. Questa è una cosa di cui nessuno ha mai scritto. Io cerco di avventurarmi per territori dell’esistenza in cui nessuno è mai stato. È una sorta di pionierismo esistenziale. Ritengo che questa sia una grande qualità, più di quello su cui puntano i critici. Thomas Mann diceva che lo scrittore molto spesso va a cercare la propria opera nel pozzo più profondo del passato. Io sento di essere andato a cercare la mia nel pozzo più profondo e più buio del futuro».
Però ha parlato dei due racconti scritti a distanza di trent’anni l’uno dall’altro, per cui si può parlare di un incontro tra passato e futuro.
«Esatto. E posso aggiungere che nel racconto di oggi c’è il protagonista, il signore anziano che gira per la città e tutta la città brucia, e lui gira tra i poliziotti e le macchine e le case incendiate per consegnare la droga. Questo paesaggio è l’immagine del futuro».