Intervista 8: Francesca Biletta

INTERVISTA A JULIO MONTEIRO MARTINS − 2013

DI FRANCESCA BILETTA

1 – Dibatto molto, nella mia tesi, sulla terminologia e sulle definizioni di “eteroglossia” e di “autotraduzione”. Ebbene, quanto c’è di autotraduzione, seppur in assenza di testo fonte, nella sua scrittura creativa in italiano?

JMM – Molto poco. Praticamente tutta la mia opera in lingua italiana è stata scritta dopo il mio approdo in Italia nel 1995. Sentivo sin dall’inizio, fortemente, che il portoghese, la lingua madre, era anche la lingua della memoria, e che le esperienze vissute al presente, l’esperienza viva, bruciante, dai risultati imprevedibili, doveva  invece essere affrontata dalla mia lingua sorella, l’italiano.

Secondo me, nell’espressione poetica o narrativa la lingua non va scelta impunemente. L’essenza del fatto narrato, sia un fatto esterno o un’elaborazione dell’inconscio, dev’essere impregnata della lingua da cui è emerso, dal suo spirito. La traduzione, nel processo creativo, non serve, è fuorviante, non si tratta soltanto di tradurre un aggettivo, un’esclamazione o una metafora, ma di far venire a galla l’aggettivo, l’esclamazione e la metafora autentica, così come è stata concepita nell’utero della storia. Sono impari epifanie linguistiche, insostituibili, intraducibili.

Ma non voglio sembrare troppo radicale, o sembrare brusco, e neppure lasciare la questione irrisolta. Bisogna capire cosa intendiamo veramente per autotraduzione. Se con questo intendiamo che mentre scrivo la parola mi viene in portoghese e mi devo sforzare a trovare un corrispettivo, magari non è il mio caso, benché per certi concetti può succedere; se invece intendiamo qualcosa che impregna l’immaginario poetico a monte, in modo pre-linguistico e pre-cosciente, che mi porta a far “emergere”, affiorare le metafore partorite da una contaminazione linguistica precedente alla scrittura, forse si può dare una connotazione diversa al termine autotraduzione.

2 – Quali sono i tratti della lingua portoghese da cui si sente maggiormente influenzato quando scrive in italiano?

JMM – Consapevolmente, non riesco ad avvertire alcun tratto del portoghese, proprio per le ragioni descritte nella risposta precedente. Ma ci sarà qualcuno. Qualcosa del portoghese echeggerà dietro al mio italiano. Comunque, la mia immersione nella lingua italiana è stata così profonda e radicale che anche il ritmo e la musicalità di fondo le ho assorbite direttamente dall’italiano, e le distinguo nettamente da quelle del portoghese.

3 – Quando ha deciso di iniziare a scrivere in una lingua diversa dalla sua lingua madre, quali sono state le maggiori difficoltà prima per la lingua inglese e poi quella italiana?

JMM – Ho deciso di farlo quando ho capito che non avevo altra alternativa. È sempre così. La vita “soffia” e ci spinge dove vuole. Uno crede di sapere, ma la verità è che la sua propria vita sa più di lui, e chiudendo porte, aprendo finestre, scavando fosse e sollevandoci in aria ci fa un bel giorno cadere dentro una lingua diversa. Anche se sei uno scrittore, o forse proprio per questo.

La difficoltà principale, all’inizio, non era di carattere tecnico o lessicale, ma di natura psicologica: acquisire la sicurezza e la fiducia di scrivere davvero in italiano (o in inglese a suo tempo) e non in una sorta di caricatura della lingua, di imitazione approssimativa, di “pig Italian” come diceva Raboni. Questa sicurezza è indispensabile nella costruzione di un’autoimmagine di scrittore italiano, anche se del tipo anomalo, “migrante”, o se preferite di scrittore mondializzato in lingua italiana. Già il termine “italofono” invece non mi piace, non è un termine neutrale, lascia un retrogusto di precarietà, di adattamento e di imperfezione. Uno o è uno scrittore italiano, a tutti gli effetti, quando scrive in italiano, oppure non lo è e basta. Scrittore “italofono” sarebbe una mezza soluzione che non significa niente.

4 – Ha definito l’apprendimento di una nuova lingua come un “amore maturo” ; quando e come ha appreso l’italiano?

JMM – Sono arrivato in Italia già sapendo che venivo per viverci probabilmente per il resto dei miei giorni, e tuttavia non conoscevo un’unica parola d’italiano. Che rischio! E che avventura! Mi sono buttato nei nuovi rapporti con persone che non sapevano il portoghese, e così dovevo provarci sempre con la nuova lingua. Insistevo, improvvisavo, usavo anche le mani, le espressioni del volto. Dovevo impararla per forza. Era una questione di vita o di morte. Guardavo i talk-show in TV fino alle tre del mattino senza capire niente, pescavo soltanto un senso qui, una parolina lì, un “mamma mia”, un “ora basta”. Ma una notte, già stordito e assonnato, mi sono accorto, così, naturalmente, senza sforzo, senza un vero e proprio “apprendistato”, che capivo tutto. Proprio tutto. La spugna magica aveva funzionato nuovamente.

5 -Tra gli scrittori cosiddetti migranti, Lei ha cercato fin da subito di trattare temi relativi alla sua nuova “patria”, spesso con occhio critico, attraverso istantanee italiane. Come mai questa scelta?

JMM – Facciamo chiarezza su questo: non ho creato “istantanee”, come le ha battezzate la critica, per ritrarre la nuova “patria” (la mia patria è semmai la scrittura stessa). Le “istantanee”, così come le metafore estese, il monologo senza la controparte, i racconti-in-romanzo, la frammentazione in brevi blocchi narrativi, il flusso di coscienza demenziale, sono tutte tecniche che ho sviluppato ancora in Brasile, a partire dall’adolescenza, e che ho ampiamente applicato nei nove titoli che ho pubblicato in quel paese prima degli anni ’90. Vedi, i critici in generale fanno più attenzione alle innovazioni emerse durante il percorso dell’autore, alle rotture che provocano o subiscono, che a un altro elemento secondo me altrettanto o più importante per capirli: la continuità, il filo. Uno scrittore può cambiare terra e lingua e storia e conoscenze personali, ma le sue ossessioni, i motivi conduttori della sua opera, spesso rimangono gli stessi, così come le tecniche che ha perfezionato per esprimerli al meglio. La metafora potrebbe essere quella del cavo, un comunissimo cavo dei
nostri computer: se pensiamo alla migrazione come un cortocircuito, la guaina di plastica si scioglierà, ma i fili che contiene, i conduttori in metallo, alcuni sembreranno lesionati, irrimediabilmente compromessi, altri continueranno il loro funzionamento integri. Lo sviluppo della letterarietà passa attraverso questi fili. Alcuni di essi, i più lunghi, hanno un’estremità nell’infanzia e l’altra nella senilità e nella morte

6 – Ha mai pensato di tradurre in italiano le sue opere pubblicate in lingua portoghese? quale potrebbe essere un eventuale approccio? Quello di una traduzione fedele o di una sorta di rifacimento?

JMM – Alcune poche volte, quando ho avvertito che un mio racconto brasiliano era ideale per esprimere anche una realtà italiana più recente, come nel caso di “A Coleção” o di “O Entulho E O Analista”, ho provato a riscriverli da capo in italiano, una sorta di “rifacimento” come dici tu. Altri invece li ho fatti tradurre da traduttori bravi sotto la mia supervisione, “Zargo” da Cristiana Sassetti, “Orson” da Elena Campani, “Dominó” e il romanzo inedito “A Última Pele” da Antonello Piana, diversi “segmenti” (capitoli autonomi, come racconti brevi) del romanzo “Bárbara” da Mirella Abriani, e il racconto “Manuelito”, pubblicato nella raccolta “Il Brasile per le strade”, da Silvia Marianecci. Comunque i testi miei tradotti tra quelli pubblicati in Italia sono una minima frazione del totale. Per regola, ogni testo mio è rimasto nella sua lingua di origine, “ogni scimmia sul suo ramo” come si dice in Brasile.

7 – Quali sono secondo Lei i tratti che maggiormente “tradiscono la brasilianità” di uno scrittore che utilizza la lingua italiana?

JMM – Se si tratta di uno che scrive bene in italiano, che domina e si sente a proprio agio in questa lingua, sarà “tradito” non da difetti di forma, ma soltanto forse dalla propria visione-di-mondo, dalla prospettiva culturale, che nel caso sarà non esattamente “brasiliana”, ma a questo punto mondiale, seppur macchiata qua e là di brasilianità , di italianità e quant’altro. Per esempio, la sessualità dei personaggi, e forse anche quella che troviamo nei discorsi del narratore, sarà ben diversa da quella presente nella narrativa locale. Lo stesso si può dire della violenza e delle sue motivazioni psicologiche o sociali. Il potere anch’esso sarà certamente spesso trattato in modo diverso, così come dietro ogni testo ci sarà uno sfondo di fatalismo e di mistero, una concezione del caso e del destino ben diversa dalla vigente nei paesi europei di oggi. Ma proprio per questo, per il divario che l’allontana dall’Europa attuale, questa letteratura è in grado di rivelare tante verità nascoste di un’altra Europa più profonda e più antica.