La casa della memoria
Fra pochi mesi andrò in pensione. No, non mi dispiace, l’aspetto da tanto tempo quel momento. Lascerò il mio lavoro e il paese che mi ha accolto. Paese che ho amato, che amo; dove ho conosciuto mia moglie, mia compagna per tanti anni. Paese che conserva le sue spoglie. Paese in cui sono nati, cresciuti i miei figli. Ma con il tempo che passa, segnato dalle rughe sulla pelle, dai capelli che diventano grigi, la memoria del passato ritorna. Ritorna la voglia della terra, di quella in cui sono nato e da cui sono partito un giorno per avere un futuro. La terra dove sono tornato l’ultima volta per seppellire mio padre, dopo solo un anno in cui, insieme, avevamo accompagnato mia madre al camposanto. Ho tentato invano di convincere mio padre a venire con me ma non voleva saperne di lasciare la casa che l’aveva visto felice e in cui aveva sperato di vedermi un giorno tornare. Casa che conservava ancora tracce della mia infanzia. Voleva continuare a vedere la chiesa dove si era sposato, dove suo figlio era stato battezzato. Voleva vedere il campanile e sentire i rintocchi della campana a scandire le ore.
La mia di casa, questa dove vivo e che con tanto lavoro e sacrificio io e mia moglie abbiamo costruito, ho deciso di darla a mia figlia. È troppo grande per me, troppo vuota. Ho bisogno d’altro, ora.
Lo sogno tutte le notti il mio paese, quello in cui sono nato, che mi ha visto bambino giocare a palla per strada, scambiare figurine sulle scale della chiesa con i miei amici; dove non c’era vicolo che non fosse a tiro di voce di mia madre che mi chiamava per il pranzo.
La sogno tutte le notti la mia casa di pietra: la grande cucina dove si passava la giornata, con mia madre e mia nonna, dove si aspettava la sera il ritorno di mio padre dai campi.
La casa che ho voluto tenere anche quando sono mancati i miei genitori. Da dove non ho voluto togliere nessun oggetto, nessun ricordo, nemmeno la foto colorata a mano dei miei genitori vestiti a festa il giorno delle nozze con la cornice brunita che è rimasta appesa sul camino accanto al ritratto dei miei nonni, foto sbiadite dal tempo e dalla fuliggine. La casa in cui niente era cambiato, tranne quelle piccole cose che avevo costretto i miei a comprare con i risparmi che mandavo dall’estero: il frigorifero, il televisore, il telefono. Quella per me è la casa dell’infanzia, la casa della memoria. È lì che voglio finire i miei giorni.
Sono quasi le undici e sto per andare a letto, domani è ancora giorno di lavoro. Mi sorprende e un po’ mi spaventa lo squillo del telefono. È mia figlia. Un’amica dall’Italia le ha dato la notizia: il terremoto ha distrutto il mio paese.
(Pubblicato in “Veglia – 24 Agosto 2016”, Antologia Autori per L’Italia, a sostegno dei Terremotati)