La casa fuori

COMPAGNIA DELLE POETE

estratto dallo spettacolo
La casa fuori

Della prima casa occupavo una stanza
color albicocca e senza finestre
Nessuna chiave solo le nocche per bussare
(Jacqueline Spaccini)

 

Traslocare fa un effetto goffo,
scatole chiuse, lettere non lette,
libri creduti, appunti persi,
e polvere al posto del respiro.
E quei fiori vogliosi sulle tende
sudice patacche,
colpe d’acciaio mai ammesse…
Come si fa a trasferire quel divano?
Chiamalo piuttosto catafalco,
un Gòlgota imbottito di rimpianti
stupido, sgraziato, difettoso.
Non si alza mai in piedi,
non accoglie gli ospiti,
non ha maniere.
Ora di buttarlo
(Helene Paraskeva)

 

Nella seconda casa vagavo per le molte stanze
che non mi appartenevano e le tenni ben poco
Scelsi il letto e un muro
tutto il resto troppo bello
un bagno di marmo nero e un salone d’ebano
(Jacqueline Spaccini)

 

anche la lampadina mi guarda
con un lieve rimprovero
uno sguardo indiscreto
il suo naso luccica

le ante semiaperte dell’armadio
hanno un aspetto sofferente
nonostante le palpebre chiuse
sulla gruccia di legno

cassetti spalancano bocche
bramosi alcuni, altri
semplicemente sorpresi

le pieghe nella stoffa
dei vestiti appesi
fanno apparire più vecchio
il vuoto al loro interno

linee di legno sul pavimento
disegnano volti che
assomigliano come parenti
a quelli tra i rami della vite canadese
davanti alla finestra

molti occhi sono puntati su di me
soltanto la porta sembra chiusa come se
avesse già visto abbastanza
(Barbara Pumhösel)

 

Nella terza casa era ufficialmente
tutto a metà ma non era vero
La cucina a scacchi era mia
e ci passavo la vita in punta di piedi
per non sporcare
Una rondine venne a morire nel bagno
e me ne andai via al suo posto
(Jacqueline Spaccini)

 

Aveva il tappeto rosso la mia stanza
stanze da imbiancare di continuo
la sola che ho potuto scegliere
le stanze succedono
perdeva i peli il tappeto rosso
ma quanto ero contenta.
Arrivano con le loro altezze angoli e sentore
finestre in posti diversi per la traiettoria dello sguardo
mi avevano fatto vedere tre tipi di carte da parati
non avevo capito che le altre costavano troppo.
Armadi, comodini, tutto in posizioni alterate.
Da sdraiata non riuscivo a vedere fuori, solo il cielo celato dalla tendina crema fatta ad uncinetto da mia madre e la punta della siepe.
Vedute e sbocchi che mutano pensieri, idee, sogni,
L’altra volta era un muro con licheni e un cancello verde
(Barbara Serdakowski)

 

Non stavo mai composta a tavola –
con una gamba ripiegata sotto
e l’altra che ciondolava a vuoto
immergevo distrattamente
la forchetta nel piatto
mentre la mia ingordigia
era tutta per lo scritto: alfabeti
erano il cibo che desideravo divorare.

A volta avevo un libro nascosto
(non sempre permesso
persino nella distratta tolleranza
di casa mia). Al bisogno
si prestava la scatola di cereali —
frumento, sciroppo di glucosio,
agente lievitante (e cosa era
un agente lievitante
e dove voleva volare?)

Anche la pastina a forma di lettere
serviva a comporre amorosamente
parole salvate da morte per annegamento
nel laghetto del brodo di pollo
(Brenda Porster)

 

Non si trova più nulla
fuori e dentro l’alloggio
incantato di caos al naturale.
Piove dappertutto
e il deluso pavimento
riversa – ribaltato –
il suo affetto sul soffitto illuso.

I muri,
sponde straripanti,
spingono le acque infernali
in superficie
e con negligenza criminale
fanno scoppiare
il nucleo in fusione
incandescente
(Helene Paraskeva)

 

insisto – ci deve essere qualcosa
una sembianza minima
un tratto non del tutto scomparso
qualcosa delle zone segnate un
confine in comune
qualche traccia
a prova del fatto che qui –
ripeto – c’era qualcosa
no – tutti scuotono la testa
e il tempo pesta tutto
(Barbara Pumhösel)

Della sesta casa ricordo l’ampiezza
Il falso cotto e il bosco abitato da volpi
gli uccelli a svegliarci e le liti
ad addormentarci
La casa vuota e pagata per anni
(Jacqueline Spaccini)

Quell’anno arrivò
improvviso l’inverno.
La sera prima era autunno
ancora sul tavolino tondo
profumavano i fichi mielati
dimenticati in fretta.
Di notte, inspiegabilmente,
la passione si placò.
E la mattina dopo,
dal nord il vento gelido
spazzò via il tavolo di latta,
l’amore eterno
e la magia degli avanzi
(Helene Paraskeva)

Dietro le tende
finestre, porte e tetti
con pesi di piombo e catenine
ombre di giochi a nascondiglio
brumosi dell’infanzia
polveri e brezze
volti mutevoli
uomo donna
uomo donna
alternati negli anni
ora presenti
ora no.
Sagome bersagli
cose dette
ogni giorno
parole mangiate
sussurrate, sputate
parole vecchie incalzanti
esplose all’improvviso
come palloncini d’acqua
ora disperse
ora no
(Barbara Serdakowski)

 

le pareti sottili delle villette a schiera
lasciavano filtrare le grida
dalla casa accanto

sorridevamo sornioni
– sana schadenfreude –
sapendo che anche i nostri litigi
venivano reciprocamente ascoltati

e il giorno dopo quanto imbarazzo
a salutare la signora
seduta sul patio condiviso

d’estate quando rientravamo
dai nostri giochi di strada
(sfide di palla e di parola)
era confortante la compagnia della voce
sullo schermo fluorescente della tv accesa

c’era un quotidiano baccano metallico
quando la mamma cercava una padella
tra quelle ammucchiate nel forno

                                 (spassosi rumori urticanti
                                 che riempivano i muri dell’ infanzia)
(Brenda Porster)

 

un libro aperto ricordi di voce
scie di immagini su nitide pareti
una tazza incrinata con campanule
e foglie
conservati nella testa e lascati
nel paesaggio alle spalle
che ti costringono a lasciare

e già temi che all’arrivo –
chissà quando e dove –
non ti lasceranno entrare
(Barbara Pumhösel)

Per l’ottava casa
scegliemmo la dimora di marzapane
nel bosco di faggi e neve
Felicità a bollicine
il pane fatto in casa tutti i giorni
lo strudel da lui odiato
la vita da me accettata
(Jacqueline Spaccini)

All’inizio del corridoio
la porta. E prima ancora,
“Coccodè!” Ε poi l’Uovo.
E intorno fango, melma
incendi, filo spinato.
A metà corridoio,
dietro alla scopa,
coltelli d’argento
le parole che hai lanciato.
Alla fine del corridoio
la bocca e l’ano
– indifferentemente –
dell’antico scarabeo.
Porta bene.
E lì, in fondo,
inaccessibile, sul muro
si arrampica leccandolo
leziosa lei, Lula lucertola
(Helene Paraskeva)

 

tutti i ripostigli hanno una porta segreta
in fondo
tutti i bambini lo sanno

così quando ho raccontato alla mamma
con la faccia tosta della convinzione
del ripostiglio della vicina di casa
lei ci ha creduto davvero
e ha concluso che lì stava
il loro denaro nascosto

invece sapevo
che oltre quella porta
c’era un torrente cristallino
dove nuotavano pesci d’oro
e che l’erba di smeraldo assoluto
era fragrante di voci
(Brenda Porster)

 

Di altri
ci sono denti in un cassetto
cerotti sugli angoli delle credenze
rumoreggianti voci nelle serrature
ricordi malformi sotto i letti
mucchi di polvere e peli di gatto
Dove siete ora?
Volete che vi cerchi?
Fabbrico intrecci con le dita
liscio i legni con spruzzi di saliva
ci sono segni pallidi di tazze calde
momenti fissati ad impronte
Dove siete? Grido ma come nei sogni
è solo il petto che risponde.
I giacconi altrui rimasti appesi su spalle di legno odorano di cedro e di naftalina.
C’è quel schiamazzo lordo di piccioni che svolazzano
e polvere di guano mentre spalanco le serrande.

Accendo e spengo la luce
cercando nelle ombre angoli domestici.
Smacchierò,
e tutto tra queste mura rinnegherà il passato
(Barbara Serdakowski)

 

la prima cosa che si è rotta
è stata la campana di vetro
troppo tardi comunque
la mosca sotto era già morta
sbattendo contro il diafano
che la proteggeva dal mondo
fuori

qui intorno alle rovine l’erba
è più dolce e nel sambuco vedo
abitano ancora i versi
le ultime
parole-ortica che
quando il vento soffia freddo
bisbigliano
per non dimenticare
gli spiriti della casa
se ne sono andati

alle abitazioni di oggi non serve
l’anima protettrice e nemmeno
la sua antica sede

hanno sensori
sistemi antifurto allarmi
(Barbara Punhösel)

 

La dodicesima casa fu
una stazione di scambio piccola e buia
solare e scomoda pratica e fuorimano
Ma i fiori crescevano bene
e la malattia si teneva a bada
nel letto a vista
(Jacqueline Spaccini)

 

È già il tempo per altro
sono le sette
spingere il peso del cane sdraiato dietro la porta
sei ancora sveglio
come in quell’altra casa
forse passa un treno, ora tutto trema
le cose in fondo non cambiano.
Ci sono troppi angoli in queste stanze
scomporre le scatole rimaste
meno luce nella sala
trovare foto perse da tempo
terrazzi con piante non mie
e ordinare nuovamente
tutto in cucina.
Il cotto è freddo sotto i piedi
cercherò per anni il sale dove ora vanno i bicchieri.
Vorrei essere da sola ad annusare le mura
mi chiami da lontano
sentire le voci d’altri impresse qua e là
e chiedi se so dov’è quel libro
(Barbara Serdakowski)

 

innamorata di ‘bowl’

da sempre
e meno di ciotola —
‘bowl’ è più tonda
e profonda
con la ‘o’ che gira nella gola
per risalire sulla lingua della ‘l’
seguendo la curva della cosa
(Brenda Porster)

 

Nel gioco della vita
sono tornata alla prima casella:
abito a pochi metri dalla prima casa.

Il lavoro la metro il parco
Quel che della vita resta
sarà qui
(Jacqueline Spaccini)

 

tra i detriti una casa
di carta
con le tende e il tetto
rosso, una unica
nuvola bianca nel
cielo che a tratti
va fuori
dalle righe
(Barbara Pumhösel)