La ragazza con la leica

Helena Janeczek
La ragazza con la leica
Ugo Quanda Editore,  2017    € 18,00

raffaele taddeo

Ormai è chiaro e penso conosciuto da parte di chi legge i romanzi di Helena Janeczek che la costruzione dei suoi testi attingono a fatti reali, documentati, alla storia, spesso quella sconosciuta ai più, o ad avvenimenti che possono essere stati classificati marginali ma che hanno avuto invece significanza ed importanza anche e proprio sul piano storico. Se qualcosa di fantastico è aggiunto ciò ricade, come direbbe Manzoni, nella verosimiglianza. Quindi non è tanto l’ansia o tensione a scrivere qualcosa di vero che spinge la scrittrice di origine tedesca a cimentarsi in romanzi, ma la sua tensione va verso una ricostruzione di ciò che è accaduto dando spessore non tanto a ceti sociali dimenticati, come avrebbe fatto l’autore dei Promessi Sposi o Verga, ma riproponendo la grandezza o l’eroicità di gruppi o singoli. Era accaduto così per Le rondini di Montecassino, accade in maniera similare anche se con struttura totalmente diversa in La ragazza con la leica.

La dimensione strutturale in questo romanzo ha qualcosa di caratteristico e particolare. Ci si aspetterebbe dal titolo di leggere le vicende di questa fotografa, caso mai della sua formazione, della modalità attraverso cui arriva alla passione della fotografia. Invece ci si trova di fronte ai ricordi di tre personaggi, che avevano avuto stretti rapporti con Gerda Taro (la ragazza con la Leika). La sua biografia ci arriva in maniera indiretta  perché sono solo i ricordi, i flashback di questi tre personaggi a darci l’idea di chi era Gerda Taro. Qual è l’effetto che emerge? Perché questo espediente narrativo? La sensazione dopo la lettura è che la vita, la personalità della fotografa sia ancora avvolta in un alone di oscurità e che i ricordi dei tre protagonisti non sono riusciti a  dissipare. La fotografa ancor più viene caricata di un’aria di mistero che la innalza a mito. Anche la stessa circostanza della morte nella guerra civile spagnola è appena accennata in due frasi che sono poste quasi di sfuggita. Potrebbero passare inosservate ad un lettore poco attento. Altri avrebbero centrato tutta la narrazione su quell’episodio, invece Helena Janeczek sembra non assegnare molta importanza al come sia morta, ma al fatto che sia morta nella guerra civile spagnola, là dove confluivano speranze, lotte e illusioni di gran parte dei giovani intellettuali europei seguaci di idee marxiste- leniniste. Gerda Taro pur sapendo che correva reali pericoli aveva  appassionatamente messo a disposizione la sua  capacità di sguardo fotografico per documentare le barbarie che si stavano consumando in Spagna, preludio di quello che i nazifascisti avrebbero poi compiuto successivamente nella seconda guerra mondiale.

La narrazione non è quindi centrata sulla fotografa, ma ogni personaggio che ricorda diventa importante per la sua stessa biografia, diventa personaggio centrale a sua volta. Ci sono intere pagine in cui Gerda Taro quasi scompare mentre si insiste su cosa abbiano fatto ciascuno dei tre personaggi.
Il narratore è esterno a loro ed ancor più a Gerda, ma accompagna nei ricordi ciascuno dei  tre personaggi. E’ un narratore interno però al mondo della narrazione e se qualcosa di esterno al mondo narrativo viene detto questo è fatto sempre da ricordi di ciascuno dei tre personaggi. Da questo punto di vista gli attori presenti sulla scena sono quattro, tre direttamente presentati e interpreti dei loro ricordi, il quarto ricordato da questi tre attori.

Ma vi è un altro elemento che rende questo romanzo di Helena Janeczek particolare: gli spazi. Quelli narrativi sono essenzialmente tre. La cittadina americana dove  Willy Chardack passeggia dopo aver ricevuto una telefonata da Georg Kuritzkes;  la casa dove abitano Ruth, amica per tanto tempo di Gerda, e Csiki suo marito;  un palazzo della Fao a Roma, dove lavora Georg Kuritzkes.  Il primo da studente si era innamorato di Gerda senza mai essere corrisposto anche se a volte aveva sperato. Era chiamato il “bassotto” forse anche per la sua statura. Lo stesso soprannome in qualche modo segnava la sua stessa personalità. Ruth, molto bella aveva coabitato a lungo con la futura fotografa che si guadagnava da vivere facendo la dattilografa, attività nella quale era molto brava.  Georg Kuritzkes era stato per un certo periodo il preferito di Gerda, in fondo messo relativamente da parte dopo che Gerda aveva conosciuto André Friedmann, che poi avrebbe assunto il nome di Robert Capa. Georg era poi andato via negli Stati Uniti quando ormai l’emarginazione degli ebrei si faceva pressante in Germania, ma forse anche perché s’era sentito messo da parte e divenuto geloso dalle scelte fatte dalla fotografa.
Gli spazi circoscritti portano ad una sorta di staticità, ma essa viene compensata dalla  duttile mobilità data dai ricordi per cui essi corrono in maniera disordinata, non serialmente composti. La dialettica che si stabilisce fra spazi della narrazione e spazi dei ricordi è tutta a favore di quest’ultimi. La struttura fisica di ciascun personaggio è quasi statica, la struttura mentale, è invece molto mobile.

Ne risulta un bel romanzo, impegnativo nella lettura, ma avvincente.

Dicembre 2017