Letteratura Nascente- letteratura italiana della migrazione. Autori e poetiche

Raffaele Taddeo
Letteratura Nascente- letteratura italiana della migrazione. Autori e poetiche
Raccolto 2006

Francesco Cosenza

Ho cercato nel sito di el-ghibli la recensione al libro di Raffaele Taddeo “Letteratura nascente: letteratura italiana della migrazione. Autori e poetiche” (1) uscito nel marzo 2006 per i tipi di RaccoltoEdizioni e di ciò non vi è traccia. Ho pensato di fare cosa gradita a Raffaele e ai lettori della rivista on-line, proponendo loro una mia recensione, che in realtà è l’introduzione alla bibliografia “Dalla ‘Narrativa Nascente’ alla ‘letteratura nascente’ e dintorni” pubblicata come letteratura grigia dalla biblioteca Dergano-Bovisa di Milano con cui Taddeo collabora dal lontano 1993. Tale introduzione è modificata per piegarla ad un uso diverso dall’originario e non so se il risultato sia soddisfacente.
Il libro di Raffaele colma un vuoto e risulta utile e necessario per gli specialisti della materia e intrigante e godibile per i lettori curiosi e interessati a chi, scrittore o meno, arriva da ogni parte del mondo e inizia a scrivere in italiano. Per rendere l’idea da cui è originato il libro di Taddeo diamo la parola al regista argentino Marco Bechis, autore dell’introduzione al libro (pag. 5):

“Ho conosciuto Raffaele Taddeo in occasione di un incontro promosso da La Tenda nella biblioteca Dergano Bovisa sulla Letteratura Nascente. Si presentava l’inedito di un autore iraniano, se non sbaglio. Capii subito che c’era qualcosa di eccezionale in quegli incontri che si prolungavano sempre fino a tarda ora, con accesi dibattiti che continuavano per strada, al freddo, dopo che la biblioteca aveva chiuso. Si imparava molto: stranieri che criticavano duramente molta letteratura italiana: professori italiani che stroncavano senza mezze misure il lavoro dei ‘poveri scrittori stranieri’ da poco in Italia. C’era una totale assenza di paternalismo che mi sembrò il seme nuovo di un confronto utile e necessario”.

E’ qui necessaria una breve digressione su come si è giunti al libro. Nel giugno 1993 si apriva la biblioteca Dergano-Bovisa in un quartiere periferico a Nord-Ovest di Milano. Da anni la gente del quartiere aspettava la propria biblioteca di zona. I quartieri Dergano e Bovisa sono stati e sono tuttora due rioni vivi culturalmente e socialmente, nonostante i media se ne accorgano solo in occasione di grandi eventi. All’apertura della biblioteca vari esponenti di associazioni culturali e sociali della zona ci propongono iniziative di rilevante interesse.
Tra questi, a biblioteca da poco aperta, il professor Raffaele Taddeo (il suo incontro mi era stato preannunciato dal collega Sergio Zurlo, responsabile della Biblioteca Affori e successivamente coordinatore delle quattro biblioteche della zona 9 di Milano) ci espone un programma di presentazione in biblioteca di testi di autori sconosciuti e per giunta stranieri, spesso senza permesso di soggiorno, clandestini o talvolta in carcere. La proposta di Taddeo, presidente del Centro Culturale Multietnico La Tenda, ci sembrò subito valida e in linea con la vocazione della biblioteca pubblica ad aprirsi a tutti i cittadini del mondo nell’offrire i propri servizi di lettura. Come dice il Manifesto Unesco per le Biblioteche Pubbliche:

“I servizi della biblioteca pubblica sono forniti sulla base dell’uguaglianza di accesso per tutti, senza distinzione di età, razza, sesso, religione, nazionalità, lingua o condizione sociale. Servizi e materiali specifici devono essere forniti a quegli utenti che, per qualsiasi ragione, non abbiano la possibilità di utilizzare servizi e materiali ordinari, per esempio le minoranze linguistiche, le persone disabili, ricoverate in ospedale, detenute nelle carceri”.

Iniziò quindi immediatamente e proficuamente un rapporto di stretta collaborazione con La Tenda. Perquesta associazione il fenomeno migratorio rappresenta un laboratorio e una sfida: la sua scuola di italiano per stranieri è seguita da centinaia di immigrati in maggioranza senza permesso di soggiorno (quelli col permesso di soggiorno vengono invitati a seguire le scuole pubbliche e private che invece esigono il suddetto permesso).
La collaborazione porterà alla nascita dei cicli di presentazione dei libri editi (all’inizio pochi) e inediti degli scrittori migranti. Nell’autunno del 1993 (e non nel ’94 come erroneamente scrive Taddeo a pag. 38) si tennero in biblioteca le riunioni per preparare gli incontri con gli autori stranieri che avevano già scritto in italiano. In queste riunioni, con Sergio Zurlo e Raffaele Taddeo, si doveva decidere anche il nome da dare a tali incontri.
Così nacque Narrativa Nascente “questo bisticcio allitterato… presuntuoso e un po’ cacofonico” come dice Raffaele a pagina 38 del suo libro. Ma questo nome fu invece una felice invenzione che piacque subito e molto ed è stato ed è tuttora pregnante di molteplici significati.
Il primo incontro si tenne il 30 novembre 1993. Si presentava il libro di Pap Khouma (scritto in collaborazione con Oreste Pivetta) “Io venditore di elefanti” (Garzanti, 1990) e fu subito un successo strepitoso sia di pubblico che di critica. Di questo incontro e dei successivi ci fu anche un buon riscontro nei giornali locali e nazionali (l’Unità dedicò una pagina all’evento). Il fenomeno dei primi scrittori stranieri – vu cumprà e vu lavà– è stato nei primi tempi seguito con un atteggiamento snobbistico, al limite del radical-chic. Questo interessamento agli scritti degli stranieri fu di breve durata. Prova ne è il fatto che i grandi editori si disinteressarono quasi completamente del fenomeno. L’interesse per gli stranieri si trasferì alla cronaca nera: solo in presenza di fatti delittuosi i giornali e le televisioni parlano e straparlano degli stranieri.
Quelle serate, in cui non c’era nessuna ombra di paternalismo, furono importanti non solo per portare alla luce il fenomeno dell’immigrazione verso l’Italia (dopo anni di emigrazione di italiani verso il resto del mondo) ma anche e soprattutto per sensibilizzare gli italiani alla presenza straniera e gettare un ponte di conoscenza reciproca cercando di superare le inevitabili diffidenze ed ostilità.
Quegli incontri (in cui la presenza straniera era sempre molto folta) ebbero una importanza ulteriore. Spinsero altri stranieri a cimentarsi nella lingua italiana dando vita a opere di poesia, racconti, commedie e romanzi. Poiché non era facile per degli scrittori migranti esordienti nella lingua italiana trovare un editore disposto a pubblicarli, si decise di presentare in biblioteca anche gli scritti inediti. Il fenomeno degli inediti va assolutamente studiato e i testi analizzati non solo da un punto di vista sociologico ma anche specificamente letterario. Di due di essi (2) che hanno trovato successivamente la via dell’editoria, è sicuramente interessante anche uno studio comparato tra l’originale e il testo dato alle stampe.
Entrando nel merito del contenuto del libro di Taddeo: nei primi due capitoli e in parte del terzo si analizza il fenomeno della migrazione dal punto di vista storico, sociologico, economico e legislativo. L’autore enuclea gli aspetti salienti del fatto storico che ha investito l’Italia: in uscita per quasi tutto il secolo scorso; in entrata in questi ultimi decenni. Il fenomeno è antico quanto l’uomo e avviene sempre in presenza di forti resistenze e attriti tra i popoli e tra i singoli (come è magistralmente sintetizzato nell’aureo libretto La grande migrazione di Hans Magnus Enzensberger uscito nel 1992 in Germania e tradotto da Einaudi nell’anno seguente).
Nel primo capitolo Taddeo individua nella deprivazione economica nei paesi di origine delfenomeno migratorio la costante storica della pulsione all’erranza. Questa privazione non va considerata per il singolo individuo poiché è la non speranza che spinge ad emigrare e non la condizione economica personale. Ma l’autore non si accontenta di ciò e approfondisce il fenomeno migratorio con una indagine succinta ma esauriente del processo che ha investito l’Italia dalla fine dell’800 ad oggi e conclude che nel mondo vi sono 60 milioni di cittadini di origine italiana, più di quanti ce ne siano in Italia. L’autore non dimentica inoltre l’orrore del trattamento degli esuli, clandestini, immigrati che vengono chiusi – quando riescono ad approdare – nei moderni lager inventati dal ricco occidente. Spesso si fermano prima: il Mediterraneo sta diventando un grande sarcofago ove un imprecisato numero di stranieri di molte nazionalità perde la vita (Erri De Luca in Sola andata ha composto un canto a quanti perdono la vita nell’attraversare il Mar Mediterraneo alla ricerca di una fortuna improbabile se non impossibile). Di fronte alla argomentata ineluttabilità del fenomeno migratorio come realtà storica necessaria, Raffaele Taddeo si pone giustamente il problema di come affrontare il futuro chiedendosi:

“Quali possano essere le linee di azione politico-economica tali da far propendere l’equilibrio verso una speranza, una valorizzazione delle persone e dei gruppi migranti nel mondo”(pag. 18).

E risponde:

1) Creare le condizioni giuridiche perché nessuno possa non sentirsi cittadino in ogni angolo del mondo …
2) Favorire e incentivare lo sviluppo economico di zone periferiche del mondo … da cui ha origine l’emigrazione …
3) Sostenere queste strategie di ordine politico, economico, sociale con iniziative in campo educativo e culturale … Investire sull’educazione alla mondialità, al dialogo tra le genti, tra le culture… Accettare positivamente lo straniero è necessario, pena la sopravvivenza economica, culturale e civile … L’odio che si semina oggi … altri dovranno necessariamente raccogliere domani. Altrimenti la storia fa sempre giustizia, presto o tardi (pag. 18).

E su queste parole profetiche e giustamente apocalittiche si chiude il primo capitolo.

Nel secondo capitolo l’autore affronta brevemente l’aspetto giuridico seguendo l’iter legislativo dalla legge Martelli alla Bossi-Fini. Il giudizio su quest’ultima – ciò che emerge dalla legge è qualcosa che sta tra l’assurdo e l’ingenuo o il furbesco – si può estendere a tutte le leggi italiane in materia che si sono succedute dal ’90 ad oggi. Anzi possiamo tranquillamente affermare che esse sono impregnate di un sottofondo duro e sordo di razzismo xenofobo sottilmente diffuso. Nulla di buono ci possiamo aspettare dalla legge in preparazione da parte dell’attuale governo. Come efficace risposta letteraria è sempre valido l’esilarante racconto di Christiana De Caldas Brito “Io, polpastrello 5.423” presente nel suo libro “Qui e là” (Cosmo Iannone Editore, 2004).

Nel terzo capitolo – Immigrazione in Italia e produzione letteraria – si entra nel vivo della materia. Il primo problema che Raffaele Taddeo affronta è perché in Italia, e principalmente in Italia, la produzione scritta degli immigrati sia avvenuta così a ridosso dal momento dell’arrivo nel nostro paese. Per essere chiari, come mai un letterato come Milan Kundera impiega 18 anni prima di cominciare a scrivere nella lingua del paese ospitante, mentre i nostri autori scrivono dopo solo qualche anno che sono arrivati da noi! Se per gli autori del Corno d’Africa (Etiopia, Eritrea, Somalia – investiti dal becero colonialismo straccione italiano) si può addurre la conoscenza della lingua italiana già da prima della migrazione in Italia, per gli altri come rispondere? Raffaele Taddeo ritiene che non ci sia un altro paese in cui, da parte degli stranieri di prima generazione, si sia verificata una volontà di partecipazione così intensa come si è verificato e continua a verificarsi in Italia (pag. 24), individuandone le motivazioni nella esigenza urgente ed improcrastinabile di riempire un vuoto, una assenza. La scrittura, secondo Taddeo, ha proprio la funzione di riempire questo vuoto. Quindi non è la migrazione in sè ma l’assenza che essa comporta a determinare la passione per la scrittura. Non c’è che dire, la tesi è affascinante (forse allo stato attuale della scrittura dei migranti in Italia, sarebbe interessante sentire anche la loro versione delle pulsioni a scrivere in italiano. Non che ciò non avvenga già per alcuni autori – basti pensare ai libri-intervista di Davide Bregola, ai convegni che sempre più spesso si interessano del fenomeno degli scrittori migranti, ai vari siti e blog e riviste letterarie on-line in cui sempre più spesso si sviluppa il dibattito – ma forse è giunto il momento di una indagine a tutto campo che coinvolga direttamente gli scrittori migranti. Penso ad una indagine-questionario promossa per esempio dalla rivista on line el-ghibli – insieme ad altri magari – e da sottoporre a tutti coloro che vogliano rispondere. Domande semplici, provocatorie ma che facciano riflettere e inducano a risposte chiare e forti, senza infingimenti né edulcorazioni). Chiusa parentesi. Taddeo tenta una spiegazione al tipo di vuoto che il migrante sente e cerca di dire e raccontare e comunicare con la poesia. Non si risolve a scegliere tra il vuoto affettivo e quello esistenziale, tra quello relazionale e quello che li ingloba tutti e tre e ne propone un altro: il vuoto del territorio di appartenenza. Ma anche questa motivazione non è del tutto soddisfacente. Anche chi emigra in paesi diversi dall’Italia prova la stessa assenza. Allora perché in Italia questa urgenza di dire, di scrivere? Forse le loro aspettative sono andate deluse. Si aspettavano un’accoglienza più calorosa, invece serpeggia sottilmente sotto traccia, sotto pelle, la paura dell’altro, del diverso e ciò ha comportato e comporta tutt’ora che “le condizioni di vita degli immigrati … sono state cosi dure fin dall’inizio che la voce di lamento, di sofferenza non è potuta essere a lungo soffocata. Ogni scrittura è un elemento di liberazione personale” (pag. 31).

Altra spiegazione individuata da Taddeo è, a prescindere da un’analisi geografica dei paesi di provenienza, l’alto grado di scolarizzazione degli immigrati in Italia. Ciò lo verifichiamo anche noi tutti i giorni in biblioteca iscrivendo stranieri in maggioranza africani (ma anche da tutto il resto del mondo) con livello d’istruzione che va prevalentemente dal diploma alla laurea.

Sulle motivazioni che spingono gli stranieri a scrivere così rapidamente e prolificamente, la chiusa del terzo capitolo affronta la mondializzazione della produzione letteraria. E qui l’autore è troppo morbido quando dice che solo oggi sta nascendo la consapevolezza che la scrittura, la produzione culturale in generale abbiano un orizzonte transnazionale. Se così fosse, saremmo in presenza di un’arretratezza culturale spaventosa. Ogni scrittore – ma più in generale ogni uomo – è frutto e figlio di innumerevoli azioni umane, scrittorie e non, che legano l’uomo moderno all’uomo tribale appena sceso dalla pianta, che col lungo processo di ominazione si ricongiungerà all’uomo futuro che non dovrà più rendere conto delle sue origini locali né tanto meno mostrare un passaporto per muoversi all’interno dell’ormai piccola Terra. A questo punto Taddeo affronta i rapporti tra lingua e letteratura, tra vissuto e fare poetico, affermando perentoriamente che non è più tempo di sperimentalismo fine a se stesso – “sta tramontando la concezione che la letteratura è essenzialmente manipolazione della lingua” – ma piuttosto è urgente il dire delle cose, dei sentimenti, delle emozioni in cui la poetica dell’esilio diventa importante. Il terzo capitolo si conclude con un’appendice in cui vengono analizzati i primi due autori del libro. Due autori atipici che non tutte le scuole di pensiero che si interessano del fenomeno degli scrittori migranti includono nelle loro bibliografie (tre siti per tutti: nè Basili nè Sagarana nè Letterranza li includono). Taddeo invece fa una operazione diversa su cui non possiamo che essere d’accordo. E qui riporto le motivazioni addotte all’inclusione nella bibliografia della Biblioteca Dergano-Bovisa:

“Carmine Abate è a tutti gli effetti uno scrittore migrante che viaggia tra più mondi e più orizzonti linguistici. E’ uno degli autori non marginali (pubblica con Mondadori), la cui collocazione potrebbe andare anche nella sezione dei migranti nel mondo (ha scritto nella lingua ospitante mentre era emigrante in Germania – il tedesco – scrive in italiano ed in arberesh). Il caso di Abate è alquanto complesso. Nato in Calabria in un paese di origine albanese (Carfizi, comunità arberesh) impara l’italiano a scuola – parlando fino ai sei anni solo l’albanese d’Albania ipostatizzato alla metà del millennio scorso. L’albanese d’Albania si è trasformato molto di più dell’albanese d’Italia: le comunità arberesh hanno comunque subito l’influsso dei dialetti vicini, in particolare il calabrese. Poi emigra in Germania e scrive il primo libro di racconti in tedesco “Den Koffer und weg” tradotto nel 1993 in italiano con il titolo assai pregnante de “Il muro dei muri”. Poi torna in Italia e va a vivere ed insegnare in Trentino. Scrive i suoi romanzi in italiano con molti inserti arberesh e tutti gli anni si reca al suo paese d’origine dove organizza con amici una festa del ritorno. Di questo autore segnaliamo anche un contributo in “La letteratura dell’emigrazione: gli scrittori di lingua italiana nel mondo” curato da Jean-Jacques Marchand”.

“Erminia Dell’Oro è nata ad Asmara, da genitori italiani, e li è vissuta fino ai 18 anni. E vi ritorna regolarmente. Ha praticamente avuto il tigrino come seconda lingua materna. Di Erminia Dell’Oro segnaliamo, oltre alla sua vasta produzione di narrativa per adulti e ragazzi, anche la sua efficace presenza nella diffusione della letteratura nascente con i seguenti contributi sugli scrittori migranti:Introduzione ad “Anime in viaggio: la nuova mappa dei popoli” 6° Concorso letterario per immigrati Eks&Tra;prefazione ad “Impronte: scritture dal mondo” 9° Concorso letterario per immigrati Eks&Tra; saggio in “Migranti: parole, poetiche, saggi sugli scrittori in cammino: 3° forum internazionale sulla letteratura della migrazione: Mantova 2003”; introduzione a “Parole oltre i confini” 5° Concorso letterario per immigrati Eks&Tra; introduzione a “La seconda pelle” 10° Concorso letterario per immigrati Eks&Tra tenuto a Mantova nel 2004. Ha partecipato per vari anni alla giuria dei concorsi letterari per immigrati a Rimini prima e a Mantova poi”.

Nel quarto capitolo Raffaele Taddeo affronta la questione del nome da dare a questo tipo di letteratura. Questo problema non è secondario – non è una perdita di tempo tra intellettuali in cerca di facile autocompiacimento, né ricerca del vello d’oro, né una questione di lana caprina: anzi nel nome si incontrano, collidono e si confrontano tesi e poetiche che spesso sembrano in forte antitesi. Ribadisco – spesso sembrano in forte antitesi – ma a una più attenta disamina, che qui chiaramente non possiamo che affrontare per sommi capi, ogni autore dice e si contraddice allo stesso tempo – ed è giusto che sia così – e tanto più gli sembra di scontrarsi con l’altro. Ma proprio chi si interessa di un fenomeno così fondante come la pari dignità dell’uomo (sempre in questo testo l’uomo è da considerarsi appartenente alla specie umana e quindi include totalmente e profondamente l’elemento femminile) nello spazio geografico e nel tempo storico non può non avere un atteggiamento di ascolto. Senza l’ascolto dell’altro, d’altronde, non si entra in sintonia col rumore di fondo del mondo, incarnato da ogni essere vivente, pianta o animale che sia. Questo per introdurre le diverse posizionidi Taddeo, Armando Gnisci, Jean-Jacques Marchand, Julio Monteiro Martins, Carmine Gino Chiellino, Serge Vanvolsen, eccetera. Il pensiero di Raffaele Taddeo si può sintetizzare con parole sue, riprese dal quaderno curato dallo stesso Taddeo e da Donatella Calati “Narrativa nascente: tre romanzi della più recente immigrazione” – uscito nel 1994 per le edizioni Cres dell’associazione “Mani Tese” – ed ora nel libro di cui stiamo parlando a pag. 38:

“Le strutture narrative italiane possono modificarsi a condizione che lo scrittore non rinunci alla propria cultura. Nel nostro secolo il mondo europeo ha portato le strutture narrative ad uno sviluppo di elevata qualità, con un travaglio molto intenso. Siamo in un periodo di stanchezza per quanto riguarda l’ulteriore maturazione di questo genere letterario. Ci si può trovare di fronte a qualcosa di totalmente diverso rispetto allo sviluppo delle strutture narrative determinatosi in occidente fino ad ora, forse siamo veramente di fronte ad una narrativa nascente.”

E prosegue: “Oggi più che mai siamo convinti di questo fatto. C’è il tentativo di fare i conti con le forme narrative elaborate in Europa o per meglio dire nella ricca cultura occidentale, da parte degli stranieri che si cimentano nel campo letterario e che si affacciano all’espressione letteraria in Italia per la prima volta.”

Nel resto del capitolo l’autore affronta in particolare l’orientamento di Armando Gnisci e Carmine Gino Chiellino. Del primo discute e accetta in parte la tesi della divisione del mondo in due parti – il ricco Nord e il Sud pieno di tutti i sud, quello dei poveri – e della necessità di consegnare a chi fa parte del sud la nostra tradizione e la nostra civiltà. Ma Taddeo è sicuramente e giustamente d’accordo con l’altra tesi fondamentale di Gnisci là dove sostiene che “i migranti sono i più vicini ai problemi mondiali del nostro tempo”. Fondamentali sono le considerazioni di Taddeo rispetto alle tesi del Chiellino (pag. 42-46). Questi rifiuta il concetto di contaminazione fra lingua-letteratura di chi si sposta in un altro paese e la lingua-letteratura del paese ospitante, sostenendo che ciò diviene di fatto un’operazione ideologica, perché impossibile (così Taddeo riferisce il pensiero di Chiellino). E’ troppo facile rispondere al professore italiano insegnante in Germania da tempo. Senza contaminazione non c’è vita: basta ricordare che in campo letterario autori come Barbara Serdakowski scrivono in un plurilinguismo frutto consapevole e sorgente dalla propria esistenza multilingue. La Serdakowski, nata in Polonia, cresciuta in Marocco, trasferita in Canada, sposata a un artista italiano emigrato in Venezuela, alla fine approda in Italia. E dice:

“In Canada, a casa e al lavoro, parlavo cinque lingue, tutti i giorni … . Insegnavo francese, inglese, spagnolo, e rudimenti di russo … A casa si parlava in polacco e in italiano, ma anche in spagnolo … . La mia poesia nasce inevitabilmente dalla coesistenza di più lingue; ad un certo punto non ho più lottato per sforzarmi ad esprimerla in una sola lingua, c’erano troppe forzature, così sono nate le mie poesie multilingue” (in Davide Bregola, “Il catalogo delle voci”, pag. 112-113, le sottolineature sono mie).

Simile – ma con esiti prevalentemente narrativi anziché poetici – è il caso di Julio Monteiro Martins. La sua vita può essere definita un romanzo di avventure letterarie. Nato in Brasile, ha girato il mondo insegnando letteratura e scrittura creativa negli Usa, a Rio de Janeiro, in Portogallo e infine in Italia dove vi è giunto comeimportato d’amore. Ma ha vissuto anche a Parigi e in Giappone. Alla domanda di Francesca Macchioni “qual è la tua lingua?”, Monteiro Martins risponde con arguzia:

“La mia lingua è quella con cui dirò parolacce quando mi pesteranno un piede. …Quella con cui penso il discorsetto che voglio fare a quella ragazza che mi piace… Ora è l’italiano. La mia prima lingua è quella del tempo presente, l’unica dimensione che veramente esiste. Nel ’72 la mia lingua era il francese, quando ho scritto i miei libri in Brasile era ovviamente il portoghese, quando ho scritto “Racconti italiani” era ovviamente l’italiano” (dal I° seminario italiano di scrittori e scrittrici migranti, Lucca 2001).

Ma la mutevole condizione della vita di ognuno fa sì che quello che sostengo oggi potrei rinnegarlo domani, senza che ciò debba o possa essere considerato disdicevole. Monteiro Martins nello stesso seminario si contraddice meravigliosamente quando da una parte sostiene che partire è come morire – “Io credo che l’emigrazione sia l’esperienza umana più vicina alla morte” – e dall’altra sostiene che nessun rimpianto prova per il Brasile. Anzi “Qui [a Lucca] mi sento un pulcino nella spazzatura sono proprio contento matto”. Quindi possiamo, in sua vece, tranquillamente capovolgere l’affermazione di prima in l’emigrazione è l’esperienza più vicina alla vita senza per questo sentirci in contraddizione. Questo è forse il nocciolo primigenio della perdurabile migranza: ogni migrante sta bene o male in un luogo o in nessun luogo a seconda delle proprie vicende di vita vissuta e ogni considerazione – positiva o negativa – ha una validità singolare per ogni individuo.
Casi così, da quando si studia seriamente il fenomeno dei migranti, ormai sono tanti. Quello che colpisce della Serdakowski è questa scelta del plurilinguismo come via più facile all’espressione poetica. Ciò che colpisce in Monteiro Martins è la capacità mimetica e in fondo contraddittoria con il mondo. Taddeo dice una cosa veramente importante quando sostiene che la letteratura italiana nasce come letteratura del viaggio, dell’esilio e dell’emigrazione: Dante è il migrante per eccellenza e la sua è una lingua contaminata. E conclude il capitolo con spirito ecumenico sostenendo che allo stato attuale, non essendoci una chiara scelta tra i vari nomi da dare alla letteratura dei migranti lui userà indifferentemente le formule più in uso: letteratura nascente e letteratura della migrazione.

Nel capitolo quinto – Mappa della produzione della “Letteratura Nascente” – l’autore affronta rapidamente la produzione degli autori migranti fornendo una panoramica non solo dei primi scritti ma anche dei vari concorsi Eks&Tra (ormai più di dieci) che si sono succeduti dal 1995 ad oggi.

Il resto del libro – il capitolo sesto affronta la narrativa, il settimo la poesia – è dedicato alla maggior parte dei testi usciti dal 1990 ad oggi e in gran parte presentati in biblioteca Dergano-Bovisa. L’autore già in premessa (pag. 7) ci dice che prende in considerazione:

a) i testi dei primi anni ’90 scritti a “quattro mani” che hanno implicato la collaborazione di un coautore italiano;
b) i testi scritti e pubblicati a partire da metà degli anni ’90 che possono considerarsi del tutto maturi e autonomi sul piano della lingua;
c) testi pubblicati a seguito del concorso Eks&Tra, che … è da ritenersi importante all’interno del fenomeno di crescita e di sviluppo della letteratura prodotta dagli stranieri in Italia;
d) testi di poesia in lingua italiana composti da immigrati.

Da qui in poi la struttura del libro è fatta per schede che sono ampie, brevi, semibrevi e minime a seconda dell’importanza, della sensibilità e fors’anche dell’umore del nostro autore. Le notizie hanno quasi una struttura da dizionario bio-bibliografico, il che non guasta quando si vuole consultare rapidamente ciò che ha scritto un autore e contemporaneamente avere sottotraccia un approccio di critica letteraria. Gli autori presi in considerazione non sono che una parte dell’universo dei migranti che scrivono in italiano – ormai alcune centinaia, con netta prevalenza di albanesi: e ciò è spiegabile con la vicinanza geografica e, purtroppo, anche televisiva con l’Italia. Ma di una lieve carenza non possiamo tacere (e speriamo che una edizione successiva, riveduta, ampliata e corretta possa porvi rimedio e così eliminare i refusi e le imprecisioni che qua e là serpeggiano): si sente l’assenza di un indice analitico degli autori e dei titoli presenti, che possa guidare sia lo studioso che il lettore semplicemente curioso di trovare rapidamente notizie su un autore o su di un titolo.

Una breve appendice dà conto di alcuni siti web di notevole interesse per ampliare e approfondire la ricerca sugli autori migranti. Ampio spazio viene dato alla rivista on-line El-Ghibli. Di cui Taddeo enumera (a pag. 192) le seguenti sezioni:

“Scrittori migranti in Italia che usano l’italiano come lingua d’espressione letteraria; scrittori migranti non italiani nel mondo; una ‘stanza degli ospiti’ … tributo di ospitalità agli scrittori stanziali italiani e stranieri, i viaggiatori immobili, con cui è sempre più necessario interagire e collaborare per un arricchimento reciproco; ‘Generazione che sale’, dedicata a bambini e ragazzi, italiani e migranti, … sintesi di tutte le altre sezioni, una scommessa in un futuro in cui tutto questo sarà finalmente ovvio …”.

Concludiamo con la poetica presentazione di Pap Khouma, direttore della rivista:

“El-Ghibli è un vento che soffia dal deserto, caldo e secco. E’ il vento dei nomadi, del viaggio e della migranza, il vento che accompagna e asciuga la parola errante. La parola impalpabile e vorticante, che è ovunque e da nessuna parte, parola di tutti e di nessuno, parola contaminata e condivisa. E’ la parola della scrittura che attraversa altre scritture, vi si deposita e la riveste della polvere del proprio viaggio all’insegna dell’uomo e del suo incessante cammino nell’esistenza” (a pag. 192 del libro di Taddeo).

(1) Il libro è stato presentato presso la Casa della Cultura di Milano l’8 aprile del 2006 e presso la biblioteca Dergano-Bovisa il 13 gennaio 2007, con un enorme successo di pubblico e di critica.

(2) I due inediti sono: Kossi Komla-Ebri (Togo) “Neyla: romanzo inedito” a cura del Centro Culturale Multietnico La Tenda. Milano: Biblioteca Dergano-Bovisa, 2000. 86 p. (Quaderno n. 16) (Questo testo è stato poi edito dalle Edizioni dell’Arco nel 2002); Tawfik, Sam (ma Smari Abdel Malek, Algeria) “Fiamme nel paradiso: inedito” a cura del Centro Culturale Multietnico La Tenda. Milano: Biblioteca Dergano-Bovisa, 1995. 146 p. (Quaderno n. 2) (Questo testo è stato poi edito dal Saggiatore nel 2000 col titolo leggermente variato in “Fiamme in paradiso”).

03-06-2007