Lingue e letterature in movimento

Silvia Camilotti (a cura)
Lingue e letterature in movimento
Bonomia University Press   2008

raffaele taddeo

Gli storici  della  letteratura italiana spesso si soffermano sugli esiti della questione linguistica che si ebbe nella prima metà del 1500 cogliendone gli aspetti negativi e quelli positivi derivati dall’egemonia delle posizioni di Pietro Bembo. La scelta di utilizzare nelle composizioni letterarie l’italiano della tradizione, la lingua di Dante, di Petrarca e Boccaccio, portò ad una chiara e secolare  separatezza della lingua e della letteratura  dai fatti sociali e dagli avvenimenti della vita reale. L’alternativa fu il dialetto che nelle forme più elevate espresse letteratura di grande valore.

Questa impostazione condiziona il modo di essere dei letterati italiani e specialmente dei critici.

Gelosi di quella lingua che da Dante pur attraverso Petrarca,  servì a mantenere l’autonomia culturale dai servilismi di corte e a non asservire la letteratura italiana ai dominatori che avrebbero potuto nell’arco di qualche secolo spazzare via ogni forma storica di lingua e letteratura, riducendola ad arcane sembianze e ricordi. Ma rimase la separatezza carica di contrasti, di antitesi che frenarono dapprima l’accettazione  del romanticismo e confinarono   il realismo ottocentesco, salvo Verga in un  regionalismo, che frenò l’accelerazione nazionale politica e sociale, ma che fece da volano al  ri coppattamento della borghesia illuminata intorno alla ritrovata unità linguistica.

 Ancora oggi quella iniziale separazione  tiene distante ogni rinnovamento,  guarda con sospetto lingue e temi che provengono da fuori, da altre culture, da altre lingue. E’ un atteggiamento incarnato, più che teorizzato, giacchè non c’è nessuno che affermi la necessità di far stare alle porte  chi non ha assunto col latte i suoni vocalici e sillabici che fanno dire “mamma” come prima parola.  E tuttavia nella corte dei premi, delle recensioni che appaiono sui paludati mezzi di comunicazione, delle case editrici che contano, chi non ha pronunciato dapprima mamma, ma الأم. o  母亲,  difficilmente viene anche solo sbirciato.

Si sono create due strade di analisi ed indagine, quasi parallele che sembrano non potersi ancora incrociare e confondere in un’unica via. Da un  lato, quella maestra, l'”autostrada” che ingloba ogni discorso, l’analisi degli scrittori che infanti hanno detto “mamma”, dall’altra una via stretta, un sentiero, per chi  non ha pronunciato quetsa parola ma ha espresso lo stesso concetto con suoni completamente diversi.

La raccolta di interventi presenti in “lingue e letterature in movimento” cerca  di ricucire, di incanalare questi due percorsi in un unico alveo specialmente con il testo introduttivo di Silvia Camilotti  e poi in misura più poderosa con l’analisi di Nora Moll intitolato “Il rinnovamento viene da fuori”. La prima vorrebbe mettere al bando il sintagma “letteratura della migrazione”, foriero dell’emarginazione di cui si è parlato. Un sintagma che ormai crea fastidio anche agli stessi autori che non nati in Italia assumono la lingua  italiana come veicolo espressivo. E tuttavia se un tracciato angusto, ma parallelo all’autostrada non si fosse creato, c’è da chiedersi se qualcuno avrebbe prestato un minimo di attenzione a chiunque avesse avuto un nome e cognome diverso da quelli configurati con moduli sillabici. Anche i cosiddetti autori di seconda generazione non avrebbero trovato alcuna udienza. Il conservatorismo linguistico italofono avrebbe preferito, così come avviene comunemente, prestare attenzione a testi provenienti d’oltralpe,  magari ” passati “clandestinamente a quella parte, piuttosto che tendere l’orecchio al vicino, quello che convive nello stesso spazio ma che non dispone di    un toponimo formato da suoni sillabici per lo più terminante con un suono vocalico.

C’è da aggiungere, come penso direbbe correttamente Gëzim Hajdari,  che l’essere scrittore, poeta della letteratura della migrazione non può e non deve significare una “diminuzio” rispetto alla letteratura italiana, ma anzi deve essere considerato un onore, un privilegio perché il migrare è la condizione principe  di ogni autentico artista, letterato, scrittore, poeta,  per cui quel sentiero è da considerarsi la vera autostrada dell’arte e il resto un sentiero angusto che non produce  arte capace di rendere un servizio allo sviluppo della società,  compito precipuo come ci ricordava a Pavia due secoli fa Ugo Foscolo.

Nora Moll si sofferma sul rinnovamento che la letteratura della migrazione sta apportando a  quella italiana. Certamente non può vantare la primogenitura  di questo  genere di analisi. In altro tempo – forse ormai remoto, visto i passi da gigante con cui le lancette  camminano – allo stesso fenomeno avevamo applicato la denominazione di “Letteratura Nascente” (in effetti avevamo indicato con una felice alliterazione il fatto come Narrativa Nascente, prima che la poesia degli autori di origine straniera facesse sentire prepotentemente la propria voce), a sottolineare come l’avvento di questi autori avrebbe potuto rigenerare, far rinascere, dar vita a qualcosa di nuovo se non rivoluzionario come il termine “nascente” sottolineava. In questo saggio Nora Moll mette in linea i mutamenti e rinnovamenti che la “letteratura della migrazione” sta apportando a quella italiana, rubricandoli alfabeticamente fermandosi però alla M di mobilità.    Avremmo voluto che la progressione alfabetica continuasse con tutte le altre lettere e i concetti conseguenti.

I saggi di Christiana De Caldas Brito, di Ingy Mubiayi,  di Gabriella Kuruvilla testimoniano di alcune particelle di rinnovamento sul piano tematico e stilistico  che la letteratura delle migrazione sta apportando. Così una rinnovata dimensione di rapporto della narrativa col sociale che non si infiltra solo attraverso i canoni e generi polizieschi, oppure l’uso dell’ironia che ormai vede negli autori della migrazione veri maestri di scrittura da Gabriella Kuruvilla a Mihai Mircea Butcovan alla stessa Ingy Mubiayi, o ancora a Laila Wadia, ed infine la capacità di focalizzare la percezione dell’altro in modo speculare, così come l’indigeno percepisce lo straniero e come questi a sua volta percepisce l’indigeno in uno scambio di reciprocità e di scarnificazione con la scoperta delle rispettive posizioni  di intolleranza,  a volte vero velo di razzismo.

Strada pionieristica è quella tracciata da Daniele  Comberiati  che esamina con uno sguardo comparatistico quella che forse possiamo  cominciare a definiure “letteratura postcoloniale italiana”. Una letteratura  che ha visto fin dall’inizio impegnata la scrittrice Erminia dell’Oro, che in questa raccolta di saggi esprime significativamente il suo impegno di scrittrice in questo campo; alla sua si sono aggiunte  ultimamente le voci di G. Garane, di Cristina Ali Farah, di Gabriella Ghermandi, di Igiaba Scego  ed altri ancora.

Il corpus di opere relative  incomincia ad essere significativo e le prime analisi  sono già possibili per individuare la caratteristica di questa nicchia di letteratura che in altri paesi ha avuto uno sviluppo più significativo.

Il volume si chiude con un altro utile contributo apportato da Ricciarda Ricorda che cerca tracce di interculturalità in alcuni scrittori della letteratura italiana negli anni ’60-’70.

E’ ancora da spiegarsi la particolarità italiana, cioè di un paese in cui si cimentano a scrivere nella lingua d’approdo autori provenienti da oltre 80 paesi.  Molti di loro conoscono anche l’inglese. Perché non scrivono in questa lingua che certamente è la più conosciuta anche in Europa?   L’essere domiciliati in Italia è sufficiente a spiegare il motivo della scelta, oppure si stanno riproducendo quei meccanismi del ‘500 che abbiamo ricordato nella nostra premessa: anche oggi, come nel ‘500, si privilegia forse la lingua italiana per  affermare attraverso questa scelta la propria autonomia e il proprio senso della libertà.

05-03-2009