L’orizzonte della moralità.

Due immagini prendono forma nella mia mente riflettendo sul binomio tolleranza/intolleranza e sull’impatto che ha nella nostra società. Sono due scene che appartengono alla mia esperienza e al mio vissuto personale. Come in un film muto, chiedono la mia mediazione per essere narrate; mettendo a fuoco mi rendo conto come esse si intrecciano al tema della tolleranza/intolleranza operando uno sviamento. D’un tratto la questione abbraccia i giudizi di valore, il desiderio della comprensione, l’uso dell’immaginazione, la nostra capacità di interessarci al mondo: tutto ciò che compone l’orizzonte della moralità. Ed è in questo dialogo che gli elementi quali tolleranza/intolleranza, autenticità/inautenticità, riconoscimento/non riconoscimento ci toccano nel profondo, ci costringono a guardare politicamente al senso e alle molteplici direzioni delle relazioni.

A tutti noi nella quotidianità è successo di trovare intollerante un gesto, un giudizio o un atteggiamento di un amico, un conoscente o una persona cara eppure difficilmente esso causa direttamente odio o chiusura, di solito si decide di avere qualche chiarimento,di comprendere e instaurare un dialogo. Il disaccordo magari rimane, questo non esclude che possiamo convivere insieme. Sappiamo accettare e comprendere visioni anche molto diverse dalla nostra, tuttavia questa dinamica sparisce al di fuori della cerchia dei nostri amici.
La distanza morale, quale l’odio o la diffidenza, quindi non sono tanto il prodotto di alcune diversità che non tolleriamo ma è già la cornice in cui agiamo assegnando un valore negativo a ogni gesto, atteggiamento, usanza, tradizione altrui.
Ciò che mi risulta saliente nella questione è che l’odio e l’impossibilità di convivenza son dati non più dalla conseguenza di un atteggiamento di intolleranza, quanto più dalla mancanza di un desiderio di comprensione verso l’altro.
Vi chiedo un po’ di pazienza nella lettura di ciò che segue.

Ho un’immagine di me stessa bambina. Non può che essere un “falso” ricordo, perché è in parte ricostruito dalla mia mente in una prospettiva esterna: mi vedo da fuori. È il mio primo giorno di scuola in Italia.
Le insegnanti mi presentano ai bambini: “è nuova, viene da un altro paese, da oggi sarà la vostra compagna”. I bambini mi guardano un po’ diffidenti. Tutti sembravano accettare la mia presenza in classe ma a malapena mi invitano ai loro compleanni o accettavano i miei inviti per venire a casa mia a giocare.
Chiesi a mia madre di frequentare l’ora di religione, già mi sentivo esclusa dal fatto di non frequentare il catechismo luogo in cui spesso gli altri bambini si riunivano, legavano e creavano le prime amicizie. Per gli anni a seguire tentai in molte maniere di essere inclusa nella classe e ridurre quelle che oggi chiamo differenze sociali: chiedevo a mia madre di comprarmi gli stessi vestiti delle mie compagne, volevo i loro stessi giochi, mi lamentavo della mia piccola casa; ma questo non cambiò nulla nella distanza tra me e loro.
Il mio banco durante le ore d’italiano fu messo vicino alla cattedra della insegnante così durante i dettati poteva darmi un occhio e un controllo più efficace; le insegnanti sembravano riconoscere inizialmente le mie difficoltà con la lingua. Nelle varie pagelle degli anni successivi mi assegnavano puntualmente un “buono” per tutte le materie: ai ricevimenti spiegavano a mia madre come non è un brutto voto considerando che sono straniera. A me quelle pagelle lasciavano sempre un po’ l’amaro in bocca e un velato senso di rassegnazione.
Un giorno l’insegnante d’italiano mi si avvicinò a ricreazione, mi guardò con aria indagatoria e mi chiese se volevo migliorare, diventare più brava. Feci un cenno affermativo con la testa. Lei mi indicò una stanza a lato del corridoio, lì c’era una biblioteca a disposizione di noi alunni, lì c’erano tanti libri e solo loro potevano aiutarmi a migliorare. Mi sentii avvolgere da un ondata di calore, forse sentirsi comprese è come ricevere un forte abbraccio, pensai.

La seconda scena che compare nella mente risale invece a un episodio recente. Siamo nella palazzina di casa mia, negli ultimi anni per vari fattori è diventata un crocevia di culture, con il sorriso in bocca sono solita a pensare che dal chiamarsi “ Residence cinque stelle” potrebbe chiamarsi “Residence cinque continenti”. La convivenza non è sempre tranquilla e non mancano episodi di disagio tuttavia con gli anni ci siamo abituati e affezionati all’atmosfera; mia madre spesso ci dice come casa è il posto più sicuro della città perché mai nessun ladro si permetterebbe ad entrare nel condomino.
All’incirca cinque anni fa si trasferisce in un appartamento libero un gruppo di ragazzi molto giovani di origine marocchina. I loro turni di lavoro, il continuo via vai, il volume della musica e l’uso dello spazio pubblico sono alcuni fattori che li fanno entrare in collisione con il vicinato. Ai soliti rimproveri giornalieri per il rumore in orari improbabili un giorno si aggiunge l’urlo del mio vicino anziano: “Tornatevene nel vostro paese” seguirà un “Noi siamo italiani” e poi fu solo un declino.
Ci rimasi male. Immaginai come le cose sarebbero potute andare in una cornice diversa: magari lui avrebbe urlato cose del tipo “smettetela imbecilli, è notte e io voglio dormire”, “ siete i soliti giovani irrispettosi”; loro avrebbero risposto “noi lavoriamo di sera tante ore nei ristoranti, ci stiamo solo godendo un po’ di relax”. Nel peggiore dei casi lui avrebbe fatto presente come il loro salotto sta proprio sotto la sua camera da letto e così loro avrebbero optato per l’altro lato del giardino come luogo di svago. Ognuno avrebbe compreso le giuste ragioni dell’altro.
Quest’ultima fu la soluzione adottata grazie alla mediazione di un terzo, ma le ferite e la chiusura provocate da quel litigio non trovarono nessun rimedio.

Sentirsi a casa nel mondo richiede una comprensione immaginativa della vita in tutte le sue diversità. La comprensione pone l’accento all’importanza dello scambio di parole, del dialogo: vuol dire riconoscere noi stessi e la persona con cui stiamo parlando come partecipanti alla condivisione di uno stesso orizzonte. Sia la tolleranza che intolleranza sono entrambi disposizioni statiche, chiuse: non producono nessuna relazione, piuttosto si limitano a farci accontentare di alcune immagini, spiegazioni dell’altro spesso veicolate dai mass media.
Seguendo questa riflessione, e con ciò avviandomi a concludere, vorrei accostare le parole di una filosofa a me tanto cara, Hannah Arendt prese dal saggio Comprensione e politica del 1945. Partendo da una netta distinzione tra la conoscenza e la comprensione Arendt individua nella prima il possesso di informazioni corrette, mentre la seconda è “un attività senza fine con cui cerchiamo di sentirci a casa nel mondo”(Arendt 2003, p.79) o “il modo specificatamente umano di rimanere vivi, in quanto ogni individuo ha bisogno di riconciliarsi con un mondo in cui è arrivato, con la nascita, con lo straniero, e in cui, in virtù della irriducibile unicità rimarrà sempre straniero.”(Ibidem p.80)

Sentirci a casa nel mondo non vuol dire imporre la nostra visione a tutti in quanto la migliore piuttosto il desiderio di comprendere, relazionarci a ciò che ci è estraneo. Quando guardiamo una persona e non riusciamo a vedere se non etichette del tipo “straniero”, “musulmano”, “immigrato” usiamo dei dati preconfezionati e astratti che tolgono spessore all’unicità e al vissuto della persona che abbiamo di fronte.
A volte il contesto offre tutte le necessarie mediazioni per creare cornici di comprensione, altre volte bisogna trovare mediazioni più fini. La letteratura è uno dei luoghi dove vi è un continuo esercizio per immaginarci le vite altrui, per vedere con i loro occhi il mondo e capire che coesistono diverse visioni morali.
In conclusione la strada da percorrere fa leva su un lavoro di straforo: da un lato dare corpo alla singolarità di ogni storia, dall’altra parte ricordare l’importanza dell’incontro con l’Altro anche attraverso una pagina scritta.
Conviene dire che il lavoro è lungo ma già alcune realtà come quella del Concorso Lingua Madre operano da anni su questa linea; a tutte loro infine dedico un ringraziamento speciale.