madrelingua – Mia Lecomte

Le Monde Diplomatique”, in Italia, il 16 Maggio 2005

Madrelingua inizia con un dialogo “piuttosto famigliare”, e non vorrebbe finire mai.
Romanzo nel e sul romanzo, nel preambolo si dichiara erede della tradizione dei romanzi interrotti, giustifica la propria ragion d’essere ancorandosi alla tradizione, si appella all’impotenza creativa celebrata da Vila-Matas, e alla crisi del romanzo, incapace di interpretare la realtà contemporanea “non è più possibile scrivere un romanzo, e non è più possibile non scriverlo”, all’unico romanzo che può scrivere un migrante: “Dopotutto, cosa si adatta di più a uno scrittore migrante – molte volte migrante – che un romanzo incompiuto?”. Ma quello di cui soffrono l’autore del passato e quello del presente, voce narrante e vittima della propria narrazione, il personaggio di Mané e gli altri che gli fanno cornice – la donna del mistero, il bancario–cinefilo Salvo Rizzo e la sua fidanzata cubana Mercedes, Lui, il Cavaliere onnipresente, e tutte le comparse che si affacciano nella storia, e si presentano nella Piccola Enciclopedia arbitraria in cui a un certo punto travasa e si trasforma– è una disperata necessità di vivere, per sempre. Julio Monteiro Martins, scrittore brasiliano da dieci anni migrato nel nostro paese, è qui affabulatore pirotecnico di anime e spazi, regista assurdo e sensuale della malinconica ricerca di un’eternità che paradossalmente rovescia il romanzo come una valigia vuota. Il romanzo che non riesce a finire perché non vuole morire, e per questo rinnova e confonde vertiginosamente se stesso, travolto con caustica ironia dalla propria stessa onda. E il risultato è il vuoto – La passione del vuoto si chiamava l’ultima raccolta di racconti di Monteiro Martins – un abisso sul ciglio del quale ci fermiamo tutti, fuori e dentro il testo, di cui non riusciamo a vedere il fondo. Languidamente incompiuto.