Mojones gringos

Sfogliare il libricino appena ricevuto è tentazione a cui mi è difficile resistere. Questo ricevuto  oggi è particolare. Ritorna il  tema dell’emigrazione; tema al quale, anche se a me ancor caro, oramai non voglio aggiungere altro scritto.

Ma, “Mojones gringos” de la Colonia Carolina mi smuove un sassolino dell’intimo dell’animo. Una tessera scartata  lasciata  nell’angolo, che è saltata fuori e mi copre come un’onda di nostalgia.

Mojones sono le pietre miliari poste per segnare i limiti nei campi, poste sul ciglio delle strade maestre di comunicazione tra città e città. Ma metaforicamente sono le mete che la vita ci invita a superare. Cosicché mojones gringos sono i travagliati traguardi che i coloni dovettero superare per giungere alla meta finale, sia la meta fisica –arrivare a un luogo dove stabilirsi- sia la meta spirituale quella che indica l’inizio di una tappa della  vita pacifica e a lungo desiderata.

Qualche sventurato giunto superstite dalle guerre d’Africa, al seguito di Garibaldi, disperso di spedizioni scientifiche fallite o intenti commerciali fasulli, rimasto in questa terra americana, per spirito di avventura e di libertà, per spirito di innamoramento della terra selvaggia e indomita  salvaje y bravía, già si aggirava in questa parte del Cono Sud  quando José Jacinto Rolón scese al porto di Buenos Aires in cerca di agricoltori italiani che volessero popolare Colonia Carolina che lui avrebbe fondato nei suoi possedimenti della provincia di Corrientes, apposta per loro. Così fu.

Partiti da  Recoaro Terme, imbarcati a Marsiglia sul Navarre, il gruppo di coloni sbarca a Buenos Aires e rapidamente imbarcati nuovamente per Goya – ma questo è un viaggio di due o tre giorni risalendo il fiume Paraná-, arriva a destino (e pare definitivo oramai) la seconda quindicina del mese di luglio del 1882.

L’autore del libro, Miguel Alberto Tomasella, discendente di quei pionieri, riferisce dunque con molti dettagli come si distribuisce la terra ai nuovi arrivati; i coltivi e adattamenti di piante quale il tabacco –che avrebbe costituito una fiorente e ricca industria-, della vite, dei frutteti; i tentativi per l’industrializzazione del latte; la produzione di uova e carne di pollo da commerciare in città.

E sin qui è tutto come il lettore immagina il lavoro  la fatica e le sofferenze dell’immigrato e la fondazione di un nuovo nucleo abitativo.

Ma ci sono, qualche riga più giù, dei particolari della vita familiare o piuttosto di civetteria casalinga che lasciano trasparire un desiderio tutto al femminile, gelosamente serbato e non ancora travolto dalla quotidianità del duro lavoro, di ritornare alle antiche finezze, quelle che si usano tra signori nei giorni solenni, con ospiti di riguardo: En el patio prepararon las mesas sobre caballetes con tablas de pino y en el galpón se armaron con manteles antiguos bordados de hilo, para los invitados principales de Goya. (Estos manteles eran las sábanas que habían utilizado por generaciones en la famiglia Yacuzzi). / Nell’atrio avevano preparato i tavoli con cavalletti e tavole di pino ma quelle preparate nel capannone le coprirono con tovaglie antiche di filo, ricamate, per gli invitati principali di Goya. (Queste tovaglie erano in realtà le lenzuola che avevano usato per generazioni nella famiglia Yacuzzi).  

Dolori impastati a rimpianti, preghiere al Santo Patrono, avere tanti figli braccia per la dura fatica dei campi, e poi guardare l’orizzonte nel giorno che declina. Amen. (Noviembre, 2014)