Penare, tale è il destino dell’umana gente

Penare, tale è il destino dell’umana gente (1)

Considerazioni circa il romanzo di Renato Rizzi (2)

 “In realtà, tutta la finzione è finzione. Tutta l’arte è bugia. Il mondo di Flaubert, come quello di tutti i grandi scrittori, è un mondo immaginario, che ha una sua logica, le sue convenzioni, le sue stesse coincidenze. “(3)Vladimir Nabokov (4)

Alla ricerca del Berto… perduto(5)

Appena ho sentito che il nuovo romanzo di Renato Rizzi “Think tank” era disponibile sugli scaffali della Feltrinelli di piazza Piemonte, sono andato a prenderlo e subito mi sono messo a leggerlo. Ero curioso di vedere a che stirpe potrebbe appartenere questo neonato di personaggio. Non tardai a conoscerne il nome, Golia, con la sua etimologia pure!
Sembra che – almeno nei primi capitoli – egli si sia prefisso il compito di conformare la sua natura psichica, esistenziale, al significato etimologico del suo nome, al desiderio della mamma (Golia la chiama genitrice) più esattamente. Sembra, perché poi non tarda a rivelarsi uno “stronzetto” d’ingrato per il suo continuo sputare nel piatto che lo nutrisce. Comunque, sembra che non abbia voglia o capacità di onorare il proprio nome, quando dimostra – con esibizionismo, pure! – che non ha nessuna intenzione di onorare la madre, la quale egli disprezza persino nella sua funzione biologica materno-affettiva.Sarà una forma di ricatto come risposta al ricatto della madre per avergli scelto un nome-programma un po’ troppo impegnativo per le sue forze, le forze del Golia, e la sua voglia, contro il suo desiderio? Sarà per punirla per aver peccato per “ambizione altrui”, per procura, quando – nana com’è – ha preteso che suo figlio dovesse essere un fusto gigantesco, un Golia appunto; come un letame che pretende dare luce al fiore più profumato e più bello del mondo? Comunque la genitrice è stata più signora di lui quando gli ha scelto un nome simbolo di grandezza e di onore, anche se lui le ha impresso après coup un nome grossier che non viene che da ingrati… appunto da stronzetti. Forse, il personaggio di Rizzi non ama il nome di un re e gigante, ma vinto da un minuscolo Davide. Forse. Nella storia, il lettore non mancherà di sbattere il naso contro alcuni elementi che possano, organicamente, rendere intelligibile e verosimile l’atteggiamento ostile (criminale in potenza e in verbo) nei confronti della mamma.Ho finito, prometto, con i miei giudizi moralistici; dopo tutto, il Golia non è che un personaggio, la creatura fittizia di un’opera dell’immaginazione. Ma rimane un fatto molto realistico, verosimile quindi, e cioè: spesso i nostri nomi, anche volutici da altri, sono dei programmi di vita. La differenza tra una persona (reale) e un personaggio (fittizio) è che la prima cerca di adeguare la propria esistenza che ha da costruire al nome che si trova, il secondo di adeguare il nome alla vita che l’autore gli infonde. Un personaggio non è la sola creatura dell’arte, esiste un altro tipo di personaggio, anch’esso creatura di questa gente (eccentrica per definizione), la stirpe degli artisti soprattutto e dei popoli dei social forum in generale, che cerca di ribellarsi contro il nome ereditato creandosi un pseudonimo o un nome d’arte. Insomma l’uno e l’altro, lo pseudonimo dell’autore e il nome della sua creatura, sono figli della natura artistica della Persona (l’artista). E poi prima di conoscere Golia cercavo Berto, il cialtrone, il simpatico! Forse ho tanta nostalgia di quest’altro personaggio simpatico del primo romanzo di Renato Rizzi… Ma ciò che è sicuro è che io volevo fare una nuova conoscenza, visto il successo della prima che ho avuto con Berto. Di questi, avevo già parlato nelle colonne della stessa Il Ghibli, ma adesso voglio parlare del romanzo “Think tank” seguendo il piano di lettura, la cronologia del succedersi dei capitoli e degli eventi della storia.

Una storia c’è.

E c’è pure una trama, checché ne dica la quarta di copertina del libro.
Che cosa ci terrebbe attaccati ad un’opera se non la storia che ci racconta, la trama che ci propone, o che risveglia in noi stessi?
Credo di avere già avuto un’idea del personaggio! Almeno, credo che sono riuscito già a radunare un po’ d’indizi che mi hanno messo sulla strada della sua conoscenza.
È ovvio che non ho nessuna intenzione di affermare, con arroganza e magari contro l’autore stesso, che il personaggio sarà quello che io avrò riconosciuto e descritto…
Ma dirò lo stesso la mia, anche perché non posso non dirne nulla, mentre ho davvero qualcosa da dire. Sarebbe allora una brutta e stolta autocensura.

Meursault Golia?

Comincio subito per dire l’idea, poi man mano cercherò di introdurre gli indizi nuovi e le nuove considerazioni. Intanto posso dire che Golia, sia per etimologia, sia per “etologia” (comportamento), sia per atteggiamento (senso e sensibilità) è un personaggio che fa pensare, se non addirittura rimanda in maniera diretta, a Meursault, il personaggio de “Lo straniero” di Albert Camus!
La differenza, forse, un po’ risiede nella prospettiva: mentre Meursault vive la sua esistenza di (presunto) indifferente, ma la porta fino alle estreme conseguenze criminali come un perfetto Raskolnikov, Golia ci riflette sopra e non passa all’atto, anzi: sembra che la sua esistenza sia la spiegazione après coup dell’atteggiamento-carattere di Meursault.
Forse, riflettendoci sopra, il Golia riesce ipso facto a scongiurare queste estreme conseguenze e neutralizzarne l’effetto negativo criminogeno, mantenendo l’atteggiamento appunto a livello di atteggiamento, senza passare cioè all’atto.
Forse… Sono alle supposizioni?
Certo, ma vi è del vero dal momento che queste dette supposizioni mi sono state suggerite dalla lettura di questo libro e non di un altro.
Ovviamente, il concorso di altri libri (Lo straniero di Camus, ad esempio) è necessario, ma non è così tanto indispensabile poi. Meursault non aveva tempo di soffermarsi per discorrere sull’essere e il divenire della sua condizione.
Forse non fosse stata la sua immobilizzazione (il suo arresto e la sua messa in prigione) per omicidio, neanche Camus, il suo creatore, avrebbe potuto osare chiedergli di rendere conto della sua vita.
Contrariamente, Golia chiede volentieri di dispiegare la sua vita… in cerca di una protezione, di una compagnia o di un’opportunità di esibirsi tout court?
Ma uno così interessato a qualcosa, uno a cui “piace essere visto come uno pacato”, può essere considerato indifferente?
Il comportamento di Mersault di fronte alla notizia della morte della madre (anche se la chiama col termine caloroso e tenero di maman) fa pensare al fatto che egli stesso avrebbe potuto anche ucciderla senza stato d’animo né accigliamento alcuno.
Il comportamento (atteggiamento) di Golia nei confronti della genitrice (un atto semantico di uccisione, di distanziazione senza deferenza alcuna) fa pensare che pure lui avrebbe potuto ucciderla senza problema di coscienza alcuno (quando rimpiange il fatto che ella non sia morta “quando avrebbe dovuto, quando sarebbe stato opportuno.”), ma un assassino semantico, fanfaroso, da narcisisti non di più.
Detto per inciso, sarà il suo creatore, l’autore, che se ne occuperà poi!

Un fils-à-maman

Il personaggio è snervante, insolente, come un fils à maman. Ciò è vero.
Golia sarà un avatar di Berto il cialtrone, che anche lui è un personaggio snervante o perlomeno diversamente snervante?
Sarà perché l’uno e l’altro sono figli della stessa sensibilità, dello stesso autore?
Senza dubbio: dopo tutto, l’universo dell’opera non può essere che l’universo dell’autore stesso della stessa opera.
Dobbiamo capire perciò che entrambi i personaggi di Renato Rizzi sono così limpidi che riescono a fare trasparire il loro autore come un’acqua limpida fa trasparire il fondale del letto dove scorre.
Quanto alla scelta dei nomi dei personaggi (scazzi, ad esempio, o altri nomi d’ispirazione biblica) che contrastano con le situazioni esistenziali in cui si trovano, questa scelta riflette la natura del linguaggio e tracia e segna l’humour del racconto.
Un humour che si vuole sarcastico-ironico, tra la presa in giro del personaggio e l’esecrazione della sua mediocrità.
Infatti, il linguaggio è molto scurrile. E non so se davvero sia abbinabile alla condizione di vita degli abitanti di questo olimpo dove vive e vegeta Golia; un personaggio che – seppur parte come figlio di una mamma di condizione modesta con costumi rozzi – si rivela, senza avvertirci, un signore dell’alta borghesia o quasi.
Un raffinatissimo buongustaio dei prestigiosi vini e cibi e delle divine melodie che può avere così, di botto e senza che il lettore sia preparato, una radio in eredità o come regalo di Natale la somma di 4000 euro data con nonchalance.
Si rivela un personaggio strano comunque, inverosimilmente fortunato, con il suo psi, i suoi riferimenti all’alta letteratura ed altri viaggi e soggiorni in città e alberghi salati e pregiati…
Si rivela insomma un signore che dovrebbe mangiare “col gomito appoggiato al tavolo.”
Più che indifferenza, forse è meglio parlare di snobismo di un fils-à-maman. Il resto sono americanate, penso.
Anzi, a pensarci bene, il Golia sembra un personaggio uscito fresco fresco col suo ambiente psichico-urbano da un film di Woody Allen.
Un newyorchese d’oc.
Molto significativi a questo riguardo lo stile, il linguaggio, i ritmi e i riferimenti che l’autore usa per accompagnarlo nel suo soggiorno newyorchese (nel capitolo 7- L’amore è dolore).
Un capitolo ove soffiano a tratti poesia, spensieratezza e vigore di giovinezza.

Un mondo a sé, questo è il romanzo

Se dovessi raccontare la storia di questo romanzo direi che esso è, prima di tutto, una storia a sé. Nel senso che la sua storia non deve rendere conto al mondo reale anche se la sua esistenza stessa deve tutto, ma proprio tutto, a questo mondo senza il quale l’opera stessa non sarebbe potuta nascere né come idea né come opera. È questo il romanzo e, in genere, l’opera, ogni opera, artistica: un mondo a sé con la propria logica, il proprio tempo, i propri ritmi, la propria memoria, la propria poetica, le proprie gioie e miserie, il proprio linguaggio, il proprio inizio e il proprio fine, il proprio senso ecc.
Nabokov dice:
“La società che circondava Madame Bovary è stata fatta da Flaubert così deliberatamente come la stessa signora Bovary è stata creata da lui, e dire che questa società flaubertiana ha agito su questo personaggio flaubertiano è una verità ovvia. Tutto ciò che accade nel libro avviene esclusivamente nella mente di Flaubert, qualunque cosa possa essere stata, originariamente, l’insignificante punto di partenza, qualunque cosa possa essere, o apparirgli, la società del suo tempo. “
Vladimir Nabokov ha scritto 1200 pagine circa (il suo “Littératures”) con tanto di ipotesi e riflessioni, con esempi di opere di grandi scrittori analizzati genialmente per dire questa realtà che caratterizza l’opera d’arte; questa realtà che libera l’opera d’arte da queste storture dovute ad una storta prospettiva che tende a vedere e far vedere nell’opera d’arte un mero scimmiottamento della realtà.
Certo è, una letteratura che vuole scimmiottare la realtà (ed esiste questo genere di letterature, romanzi o quadri a tesi) non può essere che una cattiva letteratura, laida o senza eleganza almeno, noiosa, non artistica comunque.
Del resto Nabokov provava un’antipatia per l’opera letteraria di Sartre che gli sembrava come una specie di cronaca, e definiva perciò Sartre come un giornalista.
Lo stesso Dostoevskij non è sfuggito a questo giudizio rigoroso di un fanatico dell’arte per l’arte, come era Nabokov, che vedeva nei racconti del suo illustre compaesano una specie di cronache della perversione.  
“L’uomo – scrisse Nabokov a questo proposito – che egli (Dostoevskij) dipinge è solo un maniaco o, meglio, un groviglio di fissazioni. Oggi, mediocri imitatori di Dostoevskij, come Sartre, un giornalista francese, continuano su questa linea.”
Nabokov vede nell’arte solo Immaginazione, e rende quest’idea cercando di analizzare il sogno di un personaggio (Anna Karenina, morsa a morte dall’amore extraconiugale) non già ricorrendo all’autore o al suo vissuto personale (considerato di solito la matrice di tutto ciò che, piccolo o monumentale, si trova nella mente o addirittura nel vissuto dell’autore – qui, Tolstoj), ma ricorrendo al vissuto e solo al vissuto del personaggio.
E vi ha trovato tutto ciò che un “ciarlatano” (Nabokov chiamava il padre di tutti gli psicoanalisti, Freud, il ciarlatano di Vienna!) possa trovare nel vissuto del suo paziente al fine di utilizzarlo come chiave d’interpretazione dei suoi sogni o di cura dei suoi sintomi.

“Lavorare stanca”

Se dovessi caratterizzare quindi questo libro, direi che non è un saggio, ma un romanzo, cioè un’immagine, una fiction. L’ammirabile, l’autentico, lettore non cerca le ultime scoperte di psicologia in quest’opera, scoperte che non troverà mai; ma ciò che egli troverà invece è un mondo particolare immaginato e creato dal suo autore.
E infatti, non si tratta forse della storia di vita di un uomo, ancora giovane, che vive una vita normale coi suoi alti e bassi, con le sue noie e le sue gioie, con le sue paure e i suoi desideri, con le sue bramosie e i suoi dubbi, una vita come quella di tutti i mortali?!
Una vita come quella delle persone nel nostro mondo reale o anche in quello immaginato: problema di lavoro, di affetti, di angosce, di memoria, del tempo che passa, di malattia, di dubbi, di coscienza, delle difficoltà che ostacolano il desiderio?!
È la vita di un quarantenne che – pur vivendo una vita affatto miserabile, affatto noiosa (problematica, sì) – fa come se quella vita non fosse quella giusta; quindi, lui deve ancora cercare e trovare una soluzione, una sua strada!
L’idea della storia parte da un atteggiamento che ognuno di noi – di fronte a delle situazioni e incombenze stressanti e problematiche – avrà provato sulla propria pelle o avrà sentito esprimere da qualcun altro, almeno una volta nella sua vita: “Ah, se avesse un reddito da pascià garantito per tutta la mia vita, potrei dedicarmi a quello che veramente vorrei fare!”
Insomma, “Lavorare stanca”.
Ebbene, il nostro protagonista, Golia, si è trovato in una tale frangente: carta di credito sempre carica colma, regali preziosi, eredità immobiliare, relazioni necessarie e potenti… insomma può anche non lavorare senza mai trovarsi in fame o senza tetto…
Anzi, a contemplare il regime della sua vita (alta cucina, viaggi e pernottamenti in grandi alberghi e i soldi che non mancano), ci vien l’acquolina in bocca.
Il paradosso – ed è ciò che il protagonista o l’arte cercano di dirci – è che quel che tutti noi desideriamo, e che la lontananza o la privazione ci abbelliscono e ci fanno desiderare con pazza brama, non è mai l’Eden. Bisogna penare, tale è il destino dell’umana gente, bisogna annoiarsi, bisogna cioè fare qualcosa di buono nella misura del possibile, e fare delle cazzate anche, ovviamente: tale è la beata vita umana con l’immancabile bêtise humaine.
Insomma il desiderio, appena si realizza, diventa come per incanto noia.

Quest’opera non è un saggio, bensì un romanzo

Ed è questo problema che le vicissitudini della vita stessa del protagonista ci mostra. È ciò che questa vita tormentata esprime joliment (per dirla con Nabokov che sto parafrasando), cioè l’affanno, le angosce, le piccole gioie, le scocciature della condizione umana. Il personaggio con questa sua vita è l’immagine – e “la letteratura è una costruzione d’immagini” (Nabokov) – che incarna la nostra condizione umana.
Oltre a questa prova – per immagine! – della letterarietà di quest’opera, abbiamo tanti esempi di grandi autori che partono da un fatto di cronaca o di una banalità per farne dei capolavori, come “Delitto e castigo” ad esempio.
Hitchcock diceva più o meno che possiamo anche partire da un cliché nel raccontare una storia, l’importante è non concluderla con un cliché. L’importante è come raccontare una storia, non quale storia bisogna raccontare. Uno dei personaggi di Think Tank lo dice anche lui, quando attribuisce al giovane il “Cosa?” raccontare e ai veterani invece il  “Come” raccontare?
Quanto alla scienza psicologica di cui sembra trasudare il romanzo, essa non è che una materia prima che l’architetto di questo edificio ha usato per costruirlo ed abbellirlo, renderlo – come modello di vita a sé – verosimile, ecco.
Qualcuno – Bakhtin o qualche altro formalista, credo – ha detto che in realtà non esistono più di una manciatina di storie da raccontare, una decina, penso!
Io l’ho ridotta a una sola: quella in cui si ha un desiderio (l’individuo) che si vuol affermare e un ostacolo (il principio della realtà, il branco) che cerca di impedirglielo, di schiacciarlo.
Un altro fatto gioca a favore della letterarietà di quest’opera: il desiderio ha questa forza tremenda di creare nell’uomo un campo di tensioni insopportabili.
Se non ci si arriva a sciogliere tali tensioni, si rimane preda ad un malessere, ad un’angoscia che trasforma la quiete dell’essere in un rogo esistenziale.  
Sembra che l’evoluzione biologica della mente umana abbia creato il sogno, come anche le nevrosi con la capacità di sublimare per alleviare questo tipo di sofferenze.
Quindi quest’opera è una specie di scioglimento di quelle tensioni determinate dal desiderio di avere le possibilità di vivere come un pascià… ovviamente, senza le incombenze di un pascià!

L’inesistenza è contraria all’esibizionismo

Il lettore esce dalla lettura di questo romanzo con questa sentenza morale: non è per amore di riservatezza che Golia nasconda la sua condizione sociale (più che sicura dal punto di vista finanziario-materiale), ma è per assenza effettiva di quella felicità (di cui egli non è per niente orgoglioso né che gli interessi); se non addirittura per disprezzo di quella forma di vita dove si è trovato tra le mandibole di un padre quasi assente e poco fiero di sé, di un fratello tutto volontà di una madre (fagocitatrice della libertà dei figli e usurpatrice dei loro desideri) e questa stessa nevrotica ed egoista mamma/genitrice. In questo clima patogeno è nato il Golia. Nello stesso clima di confusione e di immorale egoismo è cresciuto.
E ora, è contro questo stato soffocante che combatte e cerca di uscire e di liberarsi.
Mentre il protagonista si dibatte contro la sua condizione di vita soffocata e soffocante, il lettore scopre la vanità dell’invidiato stato d’agio socioeconomico in cui naviga il protagonista inappagato e inappagabile, tale un desiderio!
Il lettore – che anche lui desidera di avere un reddito “da pascià” che lo risparmi dalla corvée di dover penare per godere della vita (sempre che riesca a trovarvi gusto, tempo e mezzi) – rimane quindi sbigottito di fronte a questo paradosso che egli interpreta come una specie di ingratitudine di un “mammone” nei confronti di questa stessa invidiabile condizione e nei confronti di chi gliela procura.
Infatti, man mano che Golia interpreta una partizione della vita, che il suo autore gli indica e di cui lo incombe, il lettore scopre in lui questa o quell’altra qualità, questo o quell’altro potere consumistico, questa o quest’altra raffinatezza.
Ricordiamocelo, con la vita che svolge, il personaggio – che parte come un figlio di una “zingara”– si rivela un gentiluomo quasi, un uomo raffinato comunque, buongustaio dei vini squisiti, amante de la bonne chair e delle divine melodie; e il suo mondo è una specie di olimpo, dove egli possa avere così, di botto, una Radio in eredità o come regalo di Natale 4000 euro!
Un personaggio strano comunque, inverosimilmente fortunato, con il suo psi, i riferimenti all’alta letteratura e alla vita di un’ancor molto alta società… insomma uno che dovrebbe mangiare “col gomito appoggiato al tavolo.”

Finale a tentacoli

All’inizio della mia lettura, ho sospettato che l’autore abbia fatto una gaffe dettatagli dalla indecisione di fronte alla giungla di possibilità davanti alle quali ogni inizio di percorso ci mette, sottomettendo la nostra mente a sofferti tentativi di tratteggiare personaggi e vicende della storia. Questo stesso “possibilismo”, lo troviamo in qualche modo confermato nei “finali”!
Infatti, anche in questo romanzo, l’autore ha immaginato più finali, come nel suo romanzo precedente “Berto il cialtrone”.
Secondo me, però, non c’è che un finale, quello appunto che chiude il romanzo.
Gli altri se sono là, essi ci sono come un escamotage per aggiornare in qualche modo la vita del protagonista e rifornire il lettore di informazioni supplementari e necessarie. Ad esempio, nel secondo finale l’autore ci fornisce altri dettagli e vicende “flash-backati” sulla vita d’infanzia di Golia chiarendo meglio la storia e ampliandola oltremisura.
Oltre alla loro funzione di completamento di informazione – che sarebbe una funzione secondaria, ma sempre utile e pertinente e direi originale -, questi finali  hanno un’altra funzione più importante, questa, perché dà uno spessore psicologico ed esistenziale ulteriore al personaggio.
Così come l’autore si è trovato indeciso rispetto alla forma definitiva della condizione socioeconomica della famiglia del protagonista, questi rimane pure lui indeciso di fronte a questo suo ri-inizio di vita, il suo iniziare una vita nuova, dopo che la sorte gli ha “cambiato le carte in tavola”.
La vita, essendosi equilibrio, ogni volta che essa vede cambiare una sua componente, rifà tutti i conti di nuovo e di nuovo ne trae nuove somme e nuovi equilibri.
Nei finali, invece di dire: “Il Golia ha pensato di fare questo (il 1° finale) poi l’ha scartato per scegliere quest’altro (il 2° finale)”, l’autore ci ha  presentato la formulazione di queste due ipotesi come vicende realmente vissute dal protagonista.
Infine il finale aperto con proposta di tanti finali non è così originale poi. È una tecnica che suppongo alcuni maestri italiani hanno praticata.
Ma l’importante – anche qui come nel raccontare una data storia – è il modo di usare questo “finale a tentacoli”.
Comunque, ignaro di questa partica, in Berto, l’avevo presa per un’originalità rizziana. Può darsi anche che lo fosse stata e che l’autore l’avesse inventata pure lui; dopo tutto, le idee non sono mai proprietà esclusiva di nessuno, non dovrebbero al meno.
Comunque questo tipo di finale a tentacoli è lì per dirci “in life” ciò che Golia avrà pensato di fare, un’ipotesi dopo l’altra.
Ma il finale vero concreto, concludente, inappellabile, anche qui, rimane quello su cui si chiude il romanzo; quello che ci porta all’ultima parola dell’ultima pagina, all’infuori di quella dei ringraziamenti, evidentemente.
Gli altri pseudo finali fungono da completamento di informazioni come ho detto.
Forse il corso della storia come viene raccontata non permette all’inizio di scendere così tanto in quei particolari, che i finali avrebbero comunque avuto il compito di sciorinare poi con serenità.

L’impossibilità di vivere da parassita perfetto

A proposito di questa perversione degenerativa, la chimera di poter vivere da parasita perfetto, l’arte (il presente racconto di Renato Rizzi all’occorrenza) ci fa vedere che essa non regge biologicamente: non presenta nessun vantaggio adattativo. Questa chimera è inutile, anzi è controproducente: genera solo miseria esistenziale.
È un parassitismo che espone la vita agli alea del caso, la lascia in balia ai venti degli imprevisti e la sprovvede dal reagire e dal prendere iniziative se il tronco nutritivo e protettore viene a meno; e questo tronco è sempre estraneo, anche se è mamma, anche se è la genitrice in persona.
Forse è quello che mostra bene questo finale a tentacoli. Sparito il mondo e le forze che sembrano dare vita e sussistenza all’esistenza del protagonista, il Golia – nella confusione dello sgomento e dell’imprevisto – immagina le più sordide delle ipotesi per mandare avanti la sua vita.
Il parassitismo non è quindi un comportamento adattativo. È il fallimento totale di un progetto di vita, della vita stessa.
Un fallimento che l’arte constata tranquillamente e che ce lo comunica. Un fallimento che Hegel aveva genialmente analizzato con la sua dialettica del servo che diventa signore e questi che diventa l’altro, il servo.
Ci resta però da fare una piccola estrapolazione: ci stupisce quella gente (maniacalmente paternalista, che io chiamo caritas urget) che pretende ancora che non solo tale perversione esiste come un comportamento del tutto normale, culturalmente normalizzato e, anzi, valorizzato da certi individui, ma esso si estende ad intere culture e interi continenti!

L’errore madornale della quarta di copertina

Dopo la lettura di questo romanzo, ho assistito alla sua prima presentazione. C’era stato un dibattito acceso. Ma ho avuto la sorpresa di vedere con quanta energia e lunghezza (piacere?) gli intervenuti prendevano la parola per non mollarla più, e se la mollavano non tardavano a ritornarvi.
E d’intervenuti, ce n’erano parecchi.
Ciò, e c’erano quelli che non hanno trovato neanche l’opportunità di aprire becco e piazzare una parola.
Il dibattito ha girato attorno a dei soggetti di politica, di psicologia, di arte, di media con esponenti di ciascun settore (i presentatori).
Sembra che ogni intervenuto stesse là per regolare i loro conti agli altri. C’era una signora che ha accusato l’autore di aver osato scrivere sulla donna, lui che è un uomo: “Che cosa sai, gli disse, tu della donna? del parto? della maternità?!”
Lo ha accusato pure di aver avuto l’audacia di scrivere sui giovani!
Un autore vero non aspetta nessun’autorizzazione da nessuno per scrivere ciò che vuole o desidera. Tale è stata la risposta di Rizzi.
Ma lo scrittore non ha forse il diritto di scrivere di un boscaiolo se lui stesso non è boscaiolo?!
E quest’intervenente piena di sé non ha mai letto o sentito parlare di Madame Bovary, Lady Chatterley o Lolita?
Forse la pittura di questi ritratti di donna è stata eseguita rispettivamente da Simone de Beauvoir, Jane Austen ou Anna Akhmatova?
Credo che colui che è rimasto vittima di questo dibattito hors-sujet è la letteratura stessa.
Secondo me l’errore madornale sta prima di tutto nella quarta di copertina che presenta il libro come una storia senza trama vera o particolare, un corso d’acqua impazzito che bagna capre e cavoli, stalle e stelle…
Mentre – e ciò l’ha detto benissimo Fiano, il politico! – una trama c’è, e in più essa è bella ed accattivante. “Sembra addirittura di tenore poliziesco” concluse Fiano.
Ma, veramente, ci vuole un politico per parlare con maestria e classe e in letteraturese di letteratura?!
A vedere gli intervenuti, sembravano tutti dei politici. Curiosamente, quasi tutti confessarono che avevano letto il libro.
Non era quindi strano che dovevano parlare di altro, cioè di quel che sanno, con il linguaggio a loro familiare, il linguaggio generico dei talk-show di cui sono abituati, di cui sono zeppi marci.
Sì, è a causa di questa indigenza letteraria che si erano buttati beatamente su argomenti di cui sono strasazi, argomenti da talk show e da bar o da padroni di cani annoiati ed imbarazzati.
L’altro disastro di questa infelice recensione è il presentare il romanzo come saggio! Mentre saggio non lo è.
Anche perché l’autore, di saggi, ne aveva scritti e tanti! Ma già con “Berto”, l’autore sembra aver girato la pagina dei saggi e deciso di scrivere romanzi.
Perché gli hanno presentato l’opera come un saggio?
E chi l’ha fatto?
E in che cosa il romanzo possa disturbare? 
O trattasi qui di qualche ricatto editoriale?
Non so se esista il romanzo-saggio, se escludiamo i famosi racconti filosofici. E anche se esso esiste, non penso che “Think tank” possa essere un saggio… potrebbe invece sembrare, ma non lo è, non lo sarà.
E se un altro lettore vi scorge degli elementi “saggiformi” e conclude quindi che si tratti indubbiamente di un saggio – come per dire: non c’è fumo senza arrosto – non mi convincerà. Perché io considero questi elementi “saggiformi” come della materia prima, accanto ad altre informazioni che fanno da tessuto e carne per il corpo del romanzo.
Bisogna fare la differenza tra questi due grandi generi (il saggio e la fiction) e riconoscere ad entrambi una nobiltà che acquisiscono quando li mettiamo nello scaffale giusto (saggio se è saggio, fiction se è fiction) e la perdono appena lo togliamo via dallo scaffale giusto, “connaturale”.
Certo, il saggio può vestirsi pure lui di parure d’ironia, di fiaba, di poesia, di metafora, di simbologia… ma la sua natura rimane radicata nella realtà: non potrà mai dire seriamente che due e due fanno cinque, fanno Cesare o fanno il padre eterno.
Il romanzo può dissertare pure lui sui massimi sistemi e sull’essere e il divenire del mondo, sulla biologia molecolare, sull’atomo e sui sillogismi più logici, ma non per questo esso possa diventare ciò che non è: un saggio.
Perché il romanzo ha il privilegio di poter affermare seriamente che due e due fanno cinque o Cesare o il padre eterno. Anzi può anche dire, non senza netta convinzione e persuasione, che due non sono due o non sono mai stati due né lo saranno mai…
Ecco perché il romanzo di Renato Rizzi è romanzo e non è un romanzo-saggio o saggio tout court.

Della verità nell’arte

Al saggista, si può fare il processo per le sue idee, perché ci sono delle idee giuste e altre sbagliate; dal letterato, ci si può aspettare solo verosimiglianza. Verosimiglianza, nel senso che le vicende e i personaggi, i paesaggi e i sentimenti e persino la scienza e l’intendimento trovano un loro senso e una loro ragione, la giustificazione o la spiegazione, non già nel mondo oggettivo esterno del lettore né nell’infinito mondo dell’autore (che l’opera non potrà mai caricare interamente né esaurire), ma nel testo fatto opera.
Ciò detto, anche l’arte ha una sua verità.
Una verità, certamente, non esprimibile in termini matematici, ma comunque sempre una verità è.
Una verità che a volte si confonde addirittura con quella matematica!
Quando Pascoli cantava “Ognuno loda, ognuno taglia. A sera //// Ognuno col suo grave fascio va.”, a me sembra sentirlo descrivere questi onesti ecologisti, sedicenti amanti della natura, che da una passeggiata in un bosco rigoglioso, a sera ognuno con un bottino a casa sua torna: chi con tascate di bacchi di mirto o di ginepro, chi con ceste di funghi, chi con una frasca d’ulivo o un mazzo di fiori…
In breve, il dibattito che ha seguito la presentazione di “Think tank” era un processo non solo alle idee (che non dovrebbero fare parte di un’opera per definizione e vocazione immaginativa, funzionale), ma all’autore stesso!
Forse senza questa sciagurata, deformante, quarta di copertina, il pubblico dibattente (non avendo ancora letto del libro che la quarta di copertina) di quella serata non avrebbe “luogocomunato” ma parlato di letteratura.
“Il lettore ammirevole non cerca informazioni sulla Russia in un romanzo russo, perché sa che la Russia di Tolstoj o Cechov non è la Russia media della storia, ma un mondo particolare immaginato e creato da il genio individuale.” Littératures – Vladimir Nabokov.
O ancora “Un capolavoro di romanzo è un universo inedito che, come tale, ha poche possibilità di quadrare con l’universo del lettore.” Littératures.
Anche l’autore è stato un po’ spiazzato. Si è lasciato prendere dalla deformante quarta di copertina. Poteva dire semplicemente che lui ha scritto un romanzo. Poteva asserire che il suo personaggio aveva visto il padre eterno o che era lui stesso questo padre eterno.
Comunque, io vedo nella storia del romanzo di Rizzi una metafora, un’immagine, di una fantasia infantile, una fantasia di quell’età magica, che ci accompagna fino alle età più avanzate, più razionali, più lucide e sconsolate.
Come una parola può essere una metafora (come la Sicilia di Leonardo Sciascia), così anche un’espressione, un capitolo o tutta un’opera possono essere una metafora.
Una fantasia, quindi, figlia della mentalità magica a cui l’Impossibile ci accula e ci costringe a ricorrere all’immaginare – creandoci illusioni di soluzioni – per raggirare i problemi e gli ostacoli.
Un atteggiamento, questo, molto diffuso nell’uomo sognatore, annoiato, parasita, pigro … – e ogni uomo è tale … appena si lascia andare.
Chi non ha sentito qualcuno o se stesso sognare: “Ah se avessi soldi, io vivrei da re, cioè ricco, senza fare niente e servito?”
Un desiderio molto diffuso, umano, troppo umano, assunto con responsabilità e anche con arte e orgoglio, anche se a volte viene denunciato o proclamato con brama e sospiri, e a volte anche deriso. Insomma un perfetto soggetto di letteratura, che Renato Rizzi ha saputo cogliere per farne una bella opera inedita.
Comunque quella bella società degli intervenenti, avrà fatto incazzare un Nabokov che, dopo Flaubert, vedeva tutto nel romanzo e niente fuori dal romanzo.
Per quanto mi riguarda, la serata mi è servita particolarmente per approfondire meglio l’idea che man mano mi stavo facendo della natura letteraria dell’opera… letteraria.

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(1) Precisione
Questo mio scritto non è una recensione del romanzo Think tank di Renato Rizzi, romanzo di cui sto per parlare, ma sono là impressioni di lettura della stessa opera.
Volevo prendere spunto dalle problematiche che la sua lettura ha sollevato in me, per fare delle riflessioni sull’arte di scrivere.
Non è quindi una recensione, anche se bisogna presentare l’opera in questione, così un tale scritto potrà avere una chiarezza maggiore.

(2) Think Tank – Renato Rizzi – Editore i Robin&sons – Torino 2018

 (3) I brani di Nabokov citati in questo scritto sono di mia traduzione dal francese.

  • Littératures – Vladimir Nabokov – Bouquins Editore – Febbraio 2010
  • Mi riferisco al protagonista del 1° romanzo di Rizzi : “Berto il cialtrone” – ETS Editore –Maggio 2014

Abdelmalek Smari