Quaranta giorni di lutto per la morte del mio padre Palestinese
Il 3 febbraio alle 22.35 in Palestina, mio padre è morto. Quando il telefono ha suonato con questo messaggio ero senza parole. Come poteva non essere vivo? Negli Stati Uniti, dove io vivevo, erano solo le due e mezza. Perciò se lui era morto alle 22.35, in America era ancora vivo? Ho preso accordi con Dio per avere altre otto ore della sua vita, poi ho programmato la sveglia e ho aspettato.
Una ad una, le ore fuggivano come quando le tarme svolazzano verso la luce. E mentre questo accadeva, ho visto la faccia di mio padre. Un uomo mite, era alto e forte, ma aveva paura del buio, dei cimiteri e del loro solitario silenzio. Vivendo in Cisgiordania in condizioni critiche a seguito della guerra dei Sei Giorni del 1967 e della successiva occupazione delle città palestinesi, la sua paura era anche di non poterci proteggere né di potere provvedere a noi.
Avendo fatto solo la prima elementare, mio padre era l’unico ad avere il più basso livello di istruzione. E perciò, quando ero adolescente alla fine degli anni ’70, ogni fine settimana mi sedevo con lui, sommavo le sue ore di lavoro e lo aiutavo a calcolare il suo stipendio.
Mentre lo facevo, ero consapevole delle sue mani che riposavano sul tavolo accanto a me. Segnate dal tempo e ferite, rivelavano la dura realtà della sua vita. Se il totale delle ore non era quello che mio padre sperava, quelle mani si serravano a pugno. Strappandomi la matita, mi chiedeva di ricontare; poi piangeva quando la somma rimaneva la stessa. Questo significava che la spesa familiare, cioè carne e olio di oliva, doveva essere rinviata.
Tuttavia, ciò che non fu mai rinviato durante gli anni della mia infanzia e adolescenza, furono le piccole sorprese quotidiane che mio padre portava con sé alla fine di ogni giornata. Sesamo, popcorn, caramelle, semi salati, noccioline. Anche se costavano, lui le comprava lo stesso.
«I bambini hanno più bisogno di vestiti che di queste cose», gli diceva mia Madre.
«Però danno felicità al loro volto, anche se solo per un attimo o due,” insisteva lui.
Ora l’orologio annunciava le 22.35. Mio padre era morto sia a Ramallah che in America. Ho avvertito anch’io il barlume di un desiderio di morte.
«Papà, vuoi che venga con te?» ho chiesto a quella che pensavo fosse l’anima di mio padre mentre si avventurava da sola nell’oscurità.
Di una cosa non fu mai sicuro: che qualcuno avesse potuto pensare a lui dopo la sua morte, ricordavo. L’ultima volta che lo vidi mi regalò la sua sciarpa hatta e un tappeto da preghiera e, con la testa inclinata, disse, «It-thakkareeni». Ricordati di me!
Adesso volevo dare a mio padre esattamente quello che aveva chiesto. Volevo pensare a lui, e pensare a lui in un modo che onorasse le tradizioni in cui credeva.
Lui non si aspetterebbe mai che io segua queste tradizioni. Anzi, ne sarebbe scioccato! Di me sapeva che ero una figlia dallo spirito libero e che all’età di 22 anni, nonostante le sue proteste, era partita per l’Occidente, lontano un oceano da casa.
Probabilmente ho infranto il cuore di mio padre mille volte sfidando i suoi metodi tradizionali.
Ma adesso volevo rispettare queste tradizioni. Avevo deciso di piangere per quaranta giorni, nel tradizionale periodo di lutto degli arabi.
Ho cancellato tutti gli appuntamenti, messo da parte il mio lavoro, indossato i miei abiti scuri e registrato un messaggio vocale in uscita nella segreteria telefonica per dire a chiunque mi avrebbe chiamato che mi trovavo in un periodo di lutto.
Per i successivi quaranta giorni, niente shopping, niente cibi zuccherati come consolazione, né film o televisione per distrarmi. Pensare al mio papà richiedeva la mia totale attenzione.
Ho creato una scultura di mio padre con la plastilina, e ho cominciato con lui una conversazione di quaranta giorni. Ho ricoperto le pareti di carta per disegnare grandi scene familiari prese dai miei ricordi e per scriverci lettere giganti.
Una pila di scatole di Kleenex, comprate per il potente flusso di lacrime che si era avviato, si trovava accanto alle lunghe quaranta candele che avrei acceso, una al giorno. Speravo avrebbero conquistato il buio e illuminato a mio padre la strada dell’altro mondo.
Sul tavolo ho aggiunto un servizio di piatti e mentre servivo il cibo, canticchiavo l’unica canzone che sapevo mio padre amasse: «Notte, ricopri il mondo come una tenda; non ho paura della tua oscurità. Poiché dopo il buio sorgerà sempre più alto un mattino d’amore».
Sprofondando sempre più nei giorni del lutto, mi sono ritrovata ad affrontare un viaggio nel passato. Nessuna quantità di dolore poteva fermarmi. All’improvviso desideravo sentire ancora addosso gli eventi della mia vita, che spesso mi erano sembrati insopportabili. Adesso ricordare significava pensare al mio papà. Ricordare significava mantenerlo vivo nella mia vita.
Il quarantesimo giorno, ho scritto una lettera di addio a mio padre, ringraziandolo per la sua vita, e perdonandolo per avermi deluso qualche volta.
Con la macchina ho raggiunto un ruscello al margine di un terreno di proprietà di un amico, poiché mio padre amava l’acqua corrente. Il mio amico aveva lasciato una pala accanto ad esso. «Sentiti libera di suonare il piano in casa mia dopo», era scritto in un post-it giallo attaccato alla pala.
Ho scavato la terra. Ci ho messo dentro la scultura in plastilina di mio padre indurita, la lettera di addio e la sciarpa che mi aveva regalato. Ho tagliato a metà il tappeto da preghiera. Ho tenuto la metà dove i suoi piedi poggiavano cinque volte al giorno, e seppellito l’altra metà su cui abbassava la fronte per pregare.
Volevo rendere onore al fatto che io e mio padre venivamo dallo stesso posto, avevamo le stesse radici, sebbene le nostre idee divergessero in mondi diversi.
Con lo sguardo rivolto al ruscello ancora una volta ho cantato la sua canzone preferita: «Notte, ricopri il mondo come una tenda; non ho paura della tua oscurità». L’ho cantata più e più volte finché non è rimasto solo il silenzio dentro di me. Poi ho richiuso la terra come fosse un involucro, le ho dato una pacca affettuosa, l’ho baciata e sono entrata in casa del mio amico.
Mi sono seduta al piano e ho suonato con abbandono. Non un sussurro avvertivo di incompiuta tristezza. Avevo pianto tutte le mie lacrime, sentito tutti i miei sentimenti, detto tutte le mie parole. Ho suonato e suonato, ondeggiando avanti e indietro, mentre la luce del sole scorreva sulle mie dita.
Tornando a casa, mi sentivo vicina al mio papà più di quanto non lo fossi mai stata durante la sua vita. Mi sono anche accorta che dentro di me si era aperto un posto nuovo, grazie al quale diventavano accessibili nuove profondità del mio passato.
Il giorno dopo, terminati i quaranta giorni di lutto, avvenne una nascita sorprendente. Ho cominciato a scrivere il libro che avevo sempre voluto scrivere, ma che non potevo sopportare di scrivere. Riguardava la mia infanzia e la guerra.
Questa storia, che comincia dalla prima notte della Guerra dei Sei Giorni tra israeliani e arabi, nel giugno del 1967, quando io avevo tre anni e mezzo e fui per caso separata da mio padre e mia madre, è stata nascosta in una tenda di oscurità.
Non riuscivo a trovare questi ricordi, per quanto ci provassi con tutte le mie forze. Adesso avevo cominciato a scrivere; ho scritto un capitolo ogni due giorni e continuato finché non ho finito due mesi più tardi, scrivendo come se fossi entrata in un mattino senza fine. E la canzone di mio padre è con me.
«Notte, ricopri il mondo come una tenda; non ho paura della tua oscurità. Poiché dopo il buio sorgerà sempre più alto un mattino d’amore».
Traduzione di Paola Salandra
Copy Right: Ibtisam Barakat. Translated and published with permission of the author