R.i. El Carnal

 

– Sembra proprio la nave dei pazzi di cui parla sempre papà… – ha mormorato Maria Pia tra sé e sé, guardando le macchine intorno bloccate per un incidente da almeno due ore. Gli autisti inveivano contro il loro stesso volante, contro lo specchietto, contro le donne imbronciate al loro fianco, esasperati dall’attesa e dalla pioggia incessante che riempiva quell’ansa d’autostrada di un’acqua fangosa, forse per uno smottamento nelle vicinanze.
Dopo pochi metri non si vedeva più nulla, e non c’era nessuno a informarci dei fatti. Devo dire che in quella circostanza mi era molto difficile stare rinchiuso in macchina insieme a una donna come Maria Pia, la donna più fredda, arcigna e puntigliosa che avessi mai visto. Rompeva il silenzio solo per sfoggiare quel suo caratteristico sarcasmo acido e bruciante, condito da un’erudizione fuori luogo che mi faceva ribollire il sangue nelle vene. Per tutta la durata dell’ingorgo, l’uscita sulla ‘nave dei pazzi’ era stato il suo unico commento. Al pensiero che eravamo ancora nei dintorni di Torino e che avrei dovuto portarla fino a Siviglia, mi veniva da mollarla lì in macchina, sulla corsia d’emergenza, e tornarmene a casa a piedi sotto la pioggia. Maria Pia è la figlia trentaduenne ancora nubile del mio professore di Storia Medioevale, il Ravelli. Quando gli ho detto del mio proposito di andare in Marocco in macchina, prendendo un traghetto fino a Ceuta, mi ha subito chiesto se potevo dare un passaggio alla figliola, ricercatrice all’Università. Maria Pia sta preparando una tesi di Dottorato sulle tracce dell’Aramaico nell’Arabo moderno. Le si addice.
Ho approfittato dell’immobilità del traffico per osservare bene la compagna di viaggio che mi era toccata. Guardo il suo volto, di profilo, e le sue lunghe mani. So bene che si possono conoscere due dimensioni molto diverse di una stessa persona osservandole il viso e poi le mani, perché il viso racconta mentre le mani agiscono. Il primo è una maschera del passato, le seconde sono il presente che prepara il futuro prossimo. Ma nel caso specifico di Maria Pia Ravelli, la teoria non ha funzionato. Il volto e le mani severe dicevano rigorosamente la stessa cosa: stai alla larga da me, lurida scimmia. Oppure: non sono mica una donna come le altre, sai? Sono un’icona d’avorio, un prezioso pezzo d’antiquariato assolutamente al di fuori della tua misera portata.
– Mi sentirei più tranquilla se tu, invece di guardarmi imbambolato, cercassi di capire meglio che cosa sta succedendo col traffico in questo esatto momento.
Maria Pia… Mi è tornata in mente una volta che il professor Ravelli, fiero dell’‘integrità fisica e mentale’ della figlia, degna erede dei suoi studi illimitati, ha spiegato che l’aveva forgiata lui stesso attraverso un’’amorevole disciplina’, portandola ogni domenica a fare lunghe camminate per le montagne innevate del Piemonte. Voleva, parole sue, che la sua bambina «assimilasse l’energia e la pace di quei luoghi, che creasse quel legame culturale con la montagna, che da grandi non si costruisce più». Credeva davvero che quelle passeggiate «avessero formato il carattere di Maria Pia: passeggiate educative, maestre di pazienza». E con lo sguardo trasognato, immaginando paesaggi alpini oltre la parete scalcinata della biblioteca dell’Università, narrava la loro vecchia avventura domenicale: «si guarda la vetta, si crede di non poterla raggiungere e poi piano piano si arriva dappertutto. E dopo si è felici, spensierati. Si scende leggeri in tanta meritata bellezza…».
Difatti, dopo un’infanzia così, la ragazza è finita per somigliare alle montagne che scalava: ghiaccio fuori, roccia dentro, immobilità eterna.
Ci siamo fermati a pranzo a Carcassonne. Ho chiesto alla mia ospite che preferiva mangiare, e lei mi ha risposto che era lo stesso. Così ho trovato una brasserie odorosa di spezie e fumo di carne arrostita. E – incredibile! – in un luogo così predisposto a farci ingerire proteine e grasso con appagamento dei sensi e beatitudine, Maria Pia ha chiesto un’insalata con pomodori, un filo d’olio e acqua minerale naturale. E dopo la baldoria, una mela.
– Che gozzoviglia, eh? – non ho resistito ad annotare, mentre rientravamo in macchina.
– Probabilmente non sai che ‘gozzoviglia’ viene dal latino medioevale gaudibilia, che vuol dire ‘cosa che fa godere’. Appunto, sono queste le cose che mi fanno godere, e che saranno del tutto diverse dalle tue, non è così?
– Mah… Ognuno gode come vuole.
– Che conclusione illuminante!

Qualche ore più tardi ci lasciamo la Francia alle spalle. Per non doverci fermare a dormire, rischiando di prolungare una contiguità fisica ovviamente indesiderata da entrambi, mi sono sforzato di convincerla della mia capacità di guidare fino a Siviglia senza alcun rischio. Volevo scaricare al più presto la signorina per proseguire poi, da solo e tranquillo, verso Sud.
L’alba fresca sui Pirenei, il cielo terso e profondo, mi avevano persuaso che sarei stato in grado di farcela, e che la giornata appena iniziata sarebbe filata liscia, senza difficoltà di sorta. Ma la mia fiducia non è durata molto. All’altezza di Saragozza, la temperatura sembrava alzarsi di un grado ad ogni chilometro. Alle undici del mattino, la macchina era un vero fornello a quattro ruote, e io mi disperavo in silenzio. Maria Pia invece si è limitata a sbottonarsi il collo vicino al mento e ad accertarsi di avere nella borsa dei fazzolettini di carta.
A quel punto, anche se avessi deciso di arrendermi e fermarmi per una pausa, o addirittura per dormire un po’, l’opportunità di farlo era passata: la strada s’inoltrava in una terra brulla, giallastra, a perdita d’occhio, punteggiata qua e là da cespugli rinsecchiti, come se d’un tratto fossimo caduti in un ritaglio d’Africa. A guardarci intorno, pareva di essere stati rinchiusi in una cartolina della savana, del Sahel, o forse del deserto di Sonora, con quei grandi uccelli rapaci, magari avvoltoi, bianchi o grigi, posati sui pali lungo la via, per niente spaventati dallo sfrecciare della nostra macchina.
Era davvero quella la strada giusta, così deserta a quell’ora del giorno? Non avevo per caso imboccato una strada secondaria senza accorgermene, stordito com’ero dal caldo? Ma no. Ogni tanto comparivano i cartelli che indicavano l’uscita per Valencia o i chilometri mancanti per arrivare a Cordoba o a Siviglia. Si trattava probabilmente di un tratto particolare del tragitto, segnato da quel paesaggio marrone, giallo, con delle colline di argilla rossa sul fondo, certamente da fotografare, se non fossi stato così stanco e spossato.
All’improvviso compare una casupola col tetto di paglia, un vecchio mulino scassato, una cappella con la campana appesa nell’orifizio bianco del piccolo campanile, caratteristica di queste terre, oppure una vacca magra, un somaro spelacchiato, e poi ancora quegli strani uccellacci, sempre in attesa. Nessun essere umano, nessun’altra macchina o camion o trattore. E non era ancora l’ora della siesta.  Quanto avrei dato allora per essere già nei dintorni di Siviglia… Soffrivo con la camicia incollata alla schiena, il prurito alle cosce, e peggio di tutto – ma come avrei potuto indovinare? – la mia povera macchina agonizzava: tra i bulloni e le rondelle scoppiavano le sue arterie, qualcosa di simile a un ictus l’aveva colpita. E uno spruzzo di vomito caldissimo ha seguito una sinistra esplosione all’interno del cofano. Una breve sequenza di tristissimi rantoli, come prolungati sospiri, e poi niente, silenzio.
– Carissimo, il fatto è che né tu né la tua macchina eravate in grado di intraprendere un viaggio così lungo. O credevi di andare a Milano Marittima di sabato sera?
– Risparmiami i tuoi apprezzamenti, te ne sarò grato.
– Avrei dovuto prendere un aereo, altro che seguire i consigli di papà. Tutto qua.
– Infatti.
Il sole scottava, impietoso. Non c’era un solo albero abbastanza alto da offrirci un po’ d’ombra. E a pochi passi da me ho avuto la nitida impressione di aver visto un serpente giallo nascondersi dietro un cespuglio. O forse era una lucertola?
– E ora che facciamo?
– Mettiamo tutto nel portabagagli e chiudiamo la macchina. Ma prima prendiamo due magliette per proteggerci la testa dal sole. Quando troviamo un po’ d’acqua, le bagniamo. Ora si cammina.
– E dove possiamo andare, secondo te?
– Secondo me… lasciami vedere… Non è facile… Secondo me, più avanti su questa strada ci sarà qualche casa, magari anche una stradina che ci porta in qualche villaggio dove possiamo trovare un garage e un alimentari. Proviamo?
– Va bene. Intanto telefono a mio padre.
Ma anche il cellulare si era tristemente ammutolito. Non ce n’erano di tintinnii in quelle lande, oltre a quelli dei campanacci appesi al collo delle capre.

Le gocce di sudore, scendendo dalla fronte, tracciavano fiumi secchi sulla polvere gialla appiccicata alla nostra pelle. Un ragazzo che passava su un carro ha tirato le briglie dei due ronzini e ci ha guardato con uno sguardo allo stesso tempo perplesso e impietosito. Aveva i capelli gialli arruffati come un nido abbandonato, e tra le labbra screpolate gli mancava un incisivo. Ha cercato di dirci qualcosa, ma poi ha cambiato idea e ci ha fatto un gesto impacciato invitandoci a montare sul carro. Ci siamo sistemati alla meglio tra sacchi di patate, trecce di cipolla e una dozzina di galli legati per i piedi, che singhiozzavano in coro.
Quando i poveri cavalli, esausti, rallentavano la loro andatura, il ragazzo li rimetteva in marcia facendo con le labbra un rumore che non avevo mai sentito prima: una serie veloce e in crescendo di sonori schiocchi di baci che sembrava eccitare gli animali.
La prima immagine del villaggio – più tardi ho saputo che si chiama Rabanal de las Canagas – è stata quella di un vecchietto sdentato che si dondolava allegramente su un’altalena appesa al ramo di un grosso albero. Si spingeva avanti e indietro, con occhi sognanti e un sorriso fermo sulle labbra mosce, nel vederci passare ha liberato una mano dalle corde e ci ha fatto un rapido cenno.
Il carro con i galli procedeva avanti. Lo seguiva un gruppo di bambini scalzi e urlanti cose incomprensibili, due di loro si sono appollaiati sullo sportello di legno. Dopo aver passato un capannone che pareva in procinto di crollare e un fienile altrettanto deperito, una vera e propria barricata ha interrotto la strada: un mucchio di vecchie sedie e armadi, bauli scassati, attrezzi da stalle e da fattorie, rami d’albero, pezzi di baracche e di carrozze. Dovevamo scendere lì, all’ingresso di quell’abbozzo di zona pedonale. Da dietro la barricata ci arrivava un forte odore di carne arrostita, legno e panno bruciato, e ci ha avvolto una nube di un fumo ricco e denso. Maria Pia si è tolta quell’improvvisato turbante per tapparsi bocca e naso. I bambini ci schizzavano d’acqua e ridevano, e mentre eravamo lì fermi a pensare come scavalcare quella collina di immondizie, dalle finestre ci piovevano addosso spruzzi d’acqua e di certi altri liquidi non meglio accertabili, poi uova e frutti marci, così abbiamo dovuto salire e scendere in fretta il poggio di detriti e correre verso l’interno del villaggio. Un’insolita accoglienza, quella. Non riuscivamo a capire cosa stesse succedendo lì, sembrava quasi una miniatura dell’inferno. Guardiamo il ragazzo che ci accompagnava e lui, esaltato nei suoi piccoli occhi rossi, ci ha gridato:
– ¡Es el Carnal, hombre! – indicando una striscia di panno sulla porta dell’osteria, che oltre il fumo lasciava leggere «¡Arriba! Carnes Tollendas».
– La mortificazione della carne… – ha chiarito una velata Maria Pia. – L’apogeo del Carnevale, quando si comincia a spargere il sangue che prepara la Quaresima. Guarda… Sull’altro lato della strada era stata tesa una corda tra i tronchi di due alberi e vi erano appesi una mezza dozzina di galli, tra loro forse qualcuno dei nostri compagni di viaggio. Ragazzi e ragazze bendati si avvicendavano bandendo un bastone come se fosse una spada, e con quello cercavano di colpire gli uccelli:
– È il ‘gioco del gallo’. Che curioso, non avrei mai pensato di vederlo così. Sono giochi molto antichi. A volte li seppelliscono fino al collo, e il giocatore deve tagliargli la testa con un colpo solo.
– E perché se la prendono giusto con i galli?
– È sempre la preparazione per la Quaresima. I galli sono considerati troppo lascivi.
– E allora non ti piacciono, vero?
– Che ne sai tu di me? E come ti permetti di farmi queste battute?
– Va bene. Scusami. Dicevi?
– Che i galli devono essere neutralizzati prima del Mercoledì delle Ceneri.
– Mercoledì delle Ceneri? Ma siamo a Luglio!
– Questo è vero. Non ci capisco nemmeno io… Guarda, il Re dei Galli!
Un omone mascherato da gallo, con un’imponente cresta rossa, portava tra le gambe dei grossi genitali di cartapesta. Veniva ballando sulla stradina e incitava gli altri a ballare insieme a lui. Nel frattempo il sangue dei poveri galli era schizzato dappertutto e i bambini avevano le facce e le braccia tutte sporche di rosso e del nero dei carboni. Dietro il Re dei Galli, veniva un seguito di mascherati, qualcuno vestito da donna, da vescovo o da boia con il cappuccio. Altri portavano sulle spalle una sorta di armatura che, imbottita e rivestita, imitava un cavallo o un toro sulla cui sella ‘sedeva’ un mezzobusto. E poi sono arrivati dei ragazzi che con un telo rammendato lanciavano in aria dei cani disperati. Guardando al di sopra delle teste, si vedevano cani volare qua e là, più in alto dei tetti delle case, anche un gatto si era lasciato prendere. Il tutto creava un tumulto infernale, un vero pandemonio nel bel mezzo del nulla: si ballava, si mangiava, si faceva sesso nella mischia, si soddisfacevano tutti i bisogni del corpo dinanzi a tutti, e si beveva vino rosso in profusione, si addentavano budella di maiale, si spolpavano con avidità teste di suini esposte sulla panchina, e non c’era nel villaggio legno o pezzo di pelle che non fosse unto e appiccicoso, che non odorasse di tutte quelle intense emanazioni che ci sollecitavano al contempo fame e nausea, voglia trascinante di baci e di genitali. Intanto – perplesso, ottuso dalla stanchezza e da quell’orgia dei sensi, intontito dalla santa puzza della piazza – mi sono perso in mezzo a quella gente, ai giganti che arrivavano al tramonto – un uomo seduto sulle spalle di un altro, coperto da un solo lungo vestito –, alle donne in carne che dondolavano i seni nudi e sudati di fronte ai miei occhi, a tutte quelle forme strane, ai calori che saturavano le viscere e ingravidavano tutto, e così ho perso Maria Pia. Non sapevo dove fosse andata a finire, e mi sono affannato perché non potevo lasciarla in balia dell’estrema demenza di quei bifolchi indiavolati.
Era già quasi notte e l’isteria del Carnal non sembrava volersi affievolire. Anzi, sotto l’effetto del vino erano di più i nudi dei vestiti, i tamburi dei flauti, il rosso del giallo, la puzza dei profumi. Mi sono fatto largo nella calca, e a quei pochi che riuscivo a fermare per strada e a incollargli per un attimo lo sguardo sulle mie labbra, chiedevo in uno spagnolo stentato: «La mujer de Italia, alta, donde está? La turista? La gringa?» Loro scuotevano la testa e con un balzo del corpo e un sorriso si allontanavano nuovamente, ballando, a salti, risucchiati da un paio di natiche, dalle giostre di cosce e di seni, dalla febbre delle erezioni dappertutto, membri maschili che irrompevano tutti insieme nei capannelli di ragazze come uno stormo di piccioni senza ali. Ma che razza di posto era quello? Rabanal de las Canagas… Dev’essere un manicomio all’aperto. E non saranno illegali queste manifestazioni. Ma in Europa… insomma… sono cose che non devono accadere più…

Finalmente uno di loro – uno mascherato con un lungo becco da cicogna sulla faccia, un tricorno e un baccalà secco in mano che bandiva come uno stendardo – ha capito cosa, o chi, stavo cercando, e con lo stesso baccalà mi ha indicato un capannone mezzo crollato in fondo alla strada, vicino al fiume, urlandomi: «¡Allá, en la caballeriza». Avanzare in mezzo alla folla era quasi impossibile. Ad ogni passo si sbatteva in una pecora tinteggiata e decorata con i fiori, o in un ammasso di dieci braccia e dieci gambe che nessuno poteva dire se si trattava di un mostro o di un’orgia, in un papa di tre metri con i seni e la coda, in un povero cane zoppicante, in una donnona in foia che ti voleva abbracciare proprio lì e ora, e chissà forse per sempre, come se lei fosse una sirena contadina e tu il navigante stupefatto.
A quell’ora i raggi del sole avevano preso quei toni di rosa e d’arancio che regalano ad ogni colore la vivacità della vernice fresca. Quei raggi, attraverso un buco sul tetto, penetravano in diagonale dentro la caballeriza, creando una porta di luce dorata su una parete interna e lasciando tutto il resto dello spiazzo in una penombra rossastra. Sono entrato pian piano in quell’ampio ambiente per abituare la vista, e dopo qualche secondo, guardando in fondo, al di là delle colonne di luce, mi è sembrato di vedere un essere gigantesco che dondolava leggermente avanti e indietro, emettendo strani gemiti e singhiozzi. Mi sono fatto coraggio e mi sono avvicinato. La mia ombra gigante si ritagliava nell’arco luminoso. Allora ho visto chiaramente la figura. Era alta più di tre metri, con la vita all’altezza della mia fronte, e vestiva un lungo abito femminile, una gonna rossa che le ricadeva fino ai piedi. Sopra il colletto bianco fittamente pieghettato, ornata di un velo di pizzo, sorrideva una grossa testa di scrofa. Mi sono avvicinato ancora. I rumori venivano dall’interno della pancia della maialona, che mi guardava dall’alto e si muoveva pianino come se ballasse su gambe immobili. Quindi mi sono abbassato, ho preso con le dita il bordo della gonna e l’ho sollevato. Quello che allora ho visto era improbabile e spaventoso. Maria Pia era tutta nuda e sudata, i capelli sciolti, letteralmente montata su di un uomo, le gambe intrecciate attorno alla vita di lui, che la penetrava con movimenti regolari, mentre le mani di lei afferravano i polpacci di un altro uomo seduto a cavalluccio sulle sue spalle. «Maria Pia!», ho esclamato, sbigottito. Lei ha girato lentamente la testa, mi ha guardato in silenzio per un po’ con gli occhi quasi serrati e la bocca rilasciata, senza interrompere il suo coito e senza dire una sola parola. Poi ha rigirato la testa, ignorandomi. Ho lasciato scendere nuovamente la gonna su quella scena, e mi sono allontanato da quel posto infame.

Fuori dalla caballeriza scorreva un fiumiciattolo, che gorgogliava più di quanto lasciassero immaginare le sue esigue dimensioni. Il rumore proveniva dalla ruota di un mulino che girava continuamente, col solo scopo di girare, di far passare su di sé le acque, scollegata com’era da qualsiasi altro ingranaggio.
Quel rumore, allo stesso tempo così raro e familiare mi ha come intorpidito la mente e il corpo. Ero esausto di vivere e di vedere.
Mentre il mulino gira e il sonno mi invade, appoggiata la testa alla ruota staccata di un carro, non so più da dove sono venuto né dove voglio andare.
Quell’acqua scorre anche dentro di me. Io la lascio scorrere. Chissà se depurerà la mia anima di mortale dalle sue macchie secolari. Chissà, forse semplicemente la porterà via con sé e dopo tutto mi renderà libero.

El Carnal è stato pubblicato in “Un mare così ampio”. I racconti in romanzo di Julio Monteiro Martins, Lucca, Libertà edizioni, 2011.