Ricordi – Laura Barile

Ho conosciuto Julio in occasione di un convegno sugli scrittori migranti che scrivono in italiano da me organizzato, insieme a Antonio Prete e Donata Feroldi, a Siena nel 2006. Era il primo convegno orientato in tal senso, e gli scrittori vennero tutti molto volentieri. Venivano da tutte le parti del mondo (erano Kossi Komla Ebri, Ornela Vorpsi, Jarmila Ockajova, Santino Spinelli, Miguel Angel Garcia, Pap Khouma, Bijan Zzarmandili e Tahar Lamri). L’incontro fu pieno di allegria e curiosità reciproca, insieme alla drammaticità della condizione dell’esilio. Julio era già molto inserito, per così dire, nel mondo letterario  e degli studi, aveva insegnato creative writing negli Stati Uniti, produceva una rivista online, la variegata e interessante Sagarana, insegnava portoghese e letteratura brasiliana a Pisa. Insomma, lui era, secondo la definizione suggerita da Matvejevic, uno scrittore migrante “con libro”. Nel  tascapane del suo  drammatico viaggio di abbandono del Brasile per approdare in Italia, già si trovava un libro scritto da lui (anzi vari, fra cui Torpalium, Sabe quem dançou?, A oeste de nada e O espaço imaginário ): non aveva insomma cominciato a scrivere in seguito alla drammatica vicenda dell’espatrio, dello spaesamento e della nostalgia, come è capitato in altri casi pur molto interessanti.

Julio dunque era uno scrittore brasiliano migrante che scriveva in italiano. Ricordo benissimo il silenzio con cui tutti ascoltammo le sue parole su quella esperienza, lo strappo dalla terra natia in primo luogo e poi la scelta dell’altra lingua (come Nabokov, come Conrad …). Lasciare la propria terra, disse Julio al convegno ( e chi voglia leggerlo trova alla Università di Siena negli atti di quell’incontro, Scrittura e migrazione. Una sfida per la lingua italiana, Fieravecchia 2009), emigrare, è un’esperienza di morte. Partire, recidere i contatti amati e amici, provoca un lungo lutto, un lutto “diffuso e oscuro, di se stesso e del mondo scomparso”: lutto vissuto da chi parte ma anche da chi resta, che la scrittura  tenta di metabolizzare. Eravamo tutti attentissimi e in silenzio ascoltando queste parole che raccontavano una esperienza di attraversamento della morte, forse le più drammaticamente puntuali pronunciate in quella sede.

 Ma ricordo anche un’altra dichiarazione, relativa al secondo corno del celebre binomio Amore e Morte: l’italiano, diceva Julio, era per lui “la lingua dell’amore”: per lui, artista, era la lingua di Dante, disse, di Puccini, di Verdi, di Michelangelo e Leonardo …  Una nuova nascita allora è possibile, e non a caso l’epigrafe di Plutarco del suo primo libro italiano, cui molti altri seguirono, i Racconti italiani usciti da Besa nel 200, dice: “Anche nascere è giungere in un paese straniero”.

Ma in questa sua rinascita esistenziale e letteraria Julio portava con sé gli spazi aperti e sterminati della geografia brasiliana, portava la grande tradizione letteraria latinoamericana novecentesca di impegno, esilio e sofferenza, – e anche infine la libertà gioiosa delle cose dell’amore e dell’eros.

Ecco, il mio ricordo di allora, che poi si è confermato in altri incontri  lucchesi di lavoro  da lui proposti, con la nuova compagna e la passione di sempre, è quello assai netto di un essere umano che esprimeva con forza l’alfa e l’omega della vita terrena: Eros e Tanatos.

Carissimo Julio.