Sapori di me

SU SUCCU

Semola e acqua. E un setaccio di paglia. Ma non basta. Poi ci vogliono le mani di Nonna Michela, le sue dita abili a smuovere la semola, a rigirarla spruzzandoci sopra l’acqua, finché non si formano tanti pallini magicamente uguali. Intanto nella cucina si spandeva il profumo del finocchio selvatico, ingrediente fondamentale per insaporire i ceci, messi a mollo dalla sera prima con un po’ di bicarbonato, e che continuano a cuocere già da qualche ora. Quando i ceci erano morbidi,  mia madre ne distribuiva un po’ su due piattini e li dava a me e a mia sorella. Un’anteprima di cui eravamo golose. Poi mamma preparava un soffritto con olio d’oliva e cipolle e lo versava nella minestra. Solo allora, dopo che il liquido ricominciava a bollire, nonna ci buttava dentro su succu. Era il frutto di una collaborazione familiare. Sí, perché anche mio padre partecipava. Lui, uomo di mare, ma anche grande conoscitore di tutto quello che la terra aveva da offrire: il finocchietto appunto, ma anche funghi, asparagi e cicoria selvatici, la lattosedda, un’altra pianta spontanea di cui non conosco il corrispondente in italiano. Insomma, tutto aveva il sapore del rito. In fondo anche io e mia sorella, seppur come semplici assaggiatrici (e poi divoratrici) davamo il nostro contributo. Anni dopo avrei scoperto che su succu era probabilmente arrivato in Sardegna con gli arabi e, con un altro nome e cucinato diversamente, era sbarcato anche in Sicilia. Mi piace pensare che sulle sponde di altri Mediterranei un’altra nonna preparava con gli stessi gesti il couscous, con tutte le sue variazioni, più ricco, più povero… E compiendo quei gesti antichi raccontava a Fatima e a Karim una delle tante avventure di Giufà, anche lui in qualche modo parente di quel Treighinu di cui nonna ci raccontava le prodezze.

GLI ZINI

A fine settembre l’estate allora non era ancora finita. Ti poteva regalare giornate meravigliose ma con un sole meno crudele e a volte una leggera brezza che trasportava l’odore del lentisco e dell’elicriso. Anche ad ottobre c’erano giornate così ma ricominciava la scuola, il tempo delle vacanze era finito. In certe giornate di settembre, magari un sabato o una domenica, arrivava al molo davanti a casa mia zio Battista con la sua barca a remi, solo più tardi a motore. Mamma e zia Maria fin dalla mattina avevano preparato sos malloreddus, gli gnocchetti sardi al sugo che si mettevano in una teglia e si conservavano perfettamente tutto il giorno. Non mancavano il pane, la frutta e il vino rosso. Quando tutto era pronto, salivamo tutti sulla barca. Babbo e zio Battista si mettevano uno al timone e l’altro ai remi e attraversavamo il mare fra La Maddalena e Santo Stefano. Cercavamo una caletta dove noi bambine, appena sbarcate, ci tuffavamo  nell’acqua trasparente,  e poi raccoglievamo conchiglie, costruivamo strani edifici di sabbia, mentre le donne sistemavano le ceste col cibo all’ombra, l’anguria, il vino e l’acqua dentro il mare, un po’ affondate nella sabbia o incastrate fra gli scogli semiimmersi in modo che le onde non se li portassero via e si mantenessero freschi. Poi si sdraiavano al sole a chiaccherare. Avevano sempre tante cose da raccontarsi. Gli uomini invece si allontanavano a pescare e tornavano più tardi con certi pesciolini dorati, verdi e azzurri che era una delizia cucinare sulla spiaggia. Ma l’allegria più grande era quando tornavano con un secchio pieno di zini, quei ricci di mare da cui dovevamo guardarci bene quando ci tuffavamo dagli scogli, così belli con quegli aculei bruni o rossastri in movimento ma così dolorosi quando ti si conficcavano nei piedi. In quel mese dell’anno, come in tutti i mesi con la erre, i ricci sono pieni, succosi. Il mio amico Giancarlo – e lui se ne intende – dice che sono buoni anche a gennaio. Ma a settembre mi sembravano proprio speciali. Sarà stato il sole, quel mare  con mille sfumature di verde e azzurro, la sabbia d’oro e rosa, la quiete di quella caletta allora  così poco frequentata. Erano scarse le barche e ancor meno i turisti d’assalto. Ci sedevamo sulla riva del mare o su uno scoglio (non ne mancavano mai), con i piedi a bagno, mentre babbo e zio Battista tagliavano gli zini perfettamente a meta’ e le donne preparavano il pane e versavano il vino. Il vino, solo per i grandi, purtroppo. Per noi bambini, acqua. La polpa, rossa o gialla, si raccoglieva direttamente con un pezzo di pane e poi si portava alla bocca. Un sapore divino, dolce e amaro al tempo stesso, fuori dal tempo, primordiale. Quel sapore di mare, del mio mare. Lo proverò ancora un giorno? Sarà ancora lo stesso?

A Mendoza non c’è il mare. 

LA MARMELLATA DI FÍCU MURÍSCA

Ci sono profumi, sapori che riaccendono la memoria. E anche se sappiamo che appartengono al passato ed è impossibile riprodurli, sono lì che ci avvolgono e ci appartengono, vivi oggi come ieri. Penso al profumo della marmellata di fícu murísca, di fichi d’India; a quella pazienza infinita che mia madre e zia Giovanna mettevano nel pulire i frutti, liberarli dai semi, pesare polpa e zucchero in uguale misura e rimescolare per ore, stando attente che non si attaccasse alla pentola, che non si bruciasse, che non passasse il punto. Prima c’erano volute  la pazienza e l’abilità di mio babbo, di zio Giovanni, o di nonno Peppe nel raccogliere i frutti in mezzo alla campagna o fra le rocce usando una lunga canna tagliata in quattro sulla punta, attenti a non farsi pungere dalle spine, specie da quelle più sottili che si infilavano dappertutto ed era così difficile togliere.
Come si fa a descrivere un’aroma? Lo risento qui, proprio sotto il naso, sulla pelle, nella testa, ogni volta che ci ripenso. È qualcosa di  caldo, sensuale, selvatico e al tempo stesso morbido e consolatore. È un profumo che non ho più sentito nella realtà. E nemmeno il sapore. Niente a che fare con le marmellate industriali.
Me lo ricordava vagamente la marmellata di goyaba che facevo in Mozambico. Non era uguale ma le sensazioni che mi evocava erano molto simili. Entrambi sapevano di terra selvaggia, non addomesticata. Sapevano di amore carnale, di sensi all’erta.
Sanno di me. Di questa mia identità  multipla fatta di origini ed elezioni, di arti tramandate e ricercate, ripetute. Sanno di nostalgia e di sanazione.