Senza la vite americana

Dopo mesi di assenza era tornato. Aprì il cancellino verde che manteneva la scritta Attenti al Cane e gli saltò addosso il digrignare di Biro, il bastardo che lo impauriva da bambino. Anche la risata grassa di suo padre gli saltò addosso. Si guardò intorno: forma delle siepi, circonferenza delle rose. Dimensioni degli aghi del cactus. Spessore delle inferriate. Tutto normale. Gli parve di sentire il puzzo del ragù con i fegatini che bolliva. Piaceva a suo padre.
Quando si sta via per un po’ si crede di non riconoscere le proprie cose. Si cercano.
Sapeva che sarebbe stato solo al rientro perché suo padre non lo stimava. Andare a vivere altrove era stata una sfida. Lui non somigliava al figlio che diceva avrebbe voluto. Però si scoprì felice anche dell’assenza della madre, poteva riprendere intimità sovrapponendo i ricordi agli oggetti senza interruzioni. Lasciò le valige sul tavolo del portico, riconobbe la tovaglia di plastica a fiori comprata al mercato. Andò a vedere se le chiavi di riserva erano ancora sulla trave nell’angolino in fondo. Le toccò. Sentì una leggerezza precisa, capì che nonostante tutto, aveva portato un peso durante la lontananza. Lo stava appoggiando. La finestra di camera sua era aperta. Immaginò la mamma il giorno avanti. Se la rappresentò che canticchiava mentre rinfrescava la camera del suo bambino straniero. Così gli diceva sottovoce per telefono. Straniero. Lei aveva grembiuli con su stampati degli aforismi. Alcuni in latino. Se li era fatti tradurre. Suo padre diceva che era una cretineria questo fatto delle frasi. Addosso a lei in realtà si leggevano parole una sopra l’altra perché quasi il grembiule le faceva due giri intorno alla vita. Era secca sua madre. Sfiorò la parete gialla svoltando l’angolo e incontrò il solito cespuglio di ortensie. Erano rosa scuro. Come sempre. Ogni anno suo padre le potava troppo e sua madre ogni volta provava a dirglielo ma lui non sentiva.
Secondo come si potano fioriscono meglio.
Sul muro del forno l’intonaco scrostato mostrava le orbite nere di un teschio. Da adulti si fa più fatica a vedere queste cose, ma lui sapeva che era lì. La lavatrice sotto la tettoia girava, dimostrava sua madre. Attaccato al muro di confine c’era ancora l’arrugginito canestro da basket messo da suo padre. Prese da sopra la mensola il tappo del detersivo e lo lanciò come una palla. Era troppo leggero. Intercettò con lo sguardo un passerotto che volava tenendo in bocca qualcosa. Lo seguì, atterrò sul muro.
Si meravigliò.
Non ricordava che il muro fosse tanto alto. Pensò che forse lo vedeva a quel modo perché non era più ricoperto dalla vite americana. Si domandò come mai avessero costruito un muro tanto alto sul confine di un giardino. Ma non solo questo si domandò. Si sorprese di non averlo mai considerato prima. Era lì da sempre. Di non averne mai chiesto spiegazione. Eppure era così assurdo nella sua altezza. Un avanzo di casa a due piani come una scenografia appoggiata. Il passerotto planò sull’erba e da sotto il cespuglio di ortensie un gatto arancio rimbalzò nella sua direzione. Lo mancò, si sdraiò allungandosi. Squillò il cellulare. Era Stefano il suo fidanzato.
Non c’è niente da commentare. Basta farci l’occhio.
Comunque l’aveva chiamato per sapere se era arrivato e come aveva trovato suo padre. E anche sua madre. Come fanno tutti quelli che si vogliono bene. Avevano ancora una volta parlato dell’urgenza di spiegare ai suoi genitori il sentimento che li aveva spiazzati.
Dopo la telefonata prese le chiavi, recuperò i bagagli. Entrò in casa contando odori noti. Tutto era in ordine come sempre. In camera sua la Barbie col vestito fuxia sedeva vicino a La Morte a Venezia di Thomas Mann. Dopo la doccia infilò l’accappatoio di sua madre. Era stretto. Fece il giro delle stanze. In cucina con lo sguardo fisso addentò una mela, la mordeva rapido prima di aver inghiottito il boccone precedente. Alla fine ne sputò un po’ nel secchio dell’umido. In camera dei suoi genitori si sdraiò sul letto. Nel punto dove dormiva sua madre. In quella camera non era mai pulito come nelle altre stanze. Questo aveva sempre pensato. In un angolo tra il comodino e il letto osservò una ragnatela. In mezzo stava il corpo vuoto del ragno. Aveva scoperto da poco che quello non era il corpo ma una specie di buccia che il ragno cambiava. Come i serpenti. In realtà quella che a lui da sempre sembrava una morte, era invece testimonianza di una nuova vita. Respirò l’odore di sua madre immergendo la faccia nel cuscino.
Lei sapeva.
Lei non aveva bisogno di spiegazioni. Sapeva che lui e Stefano non erano solo compagni di stanza.
Come poteva dirlo a suo padre?
Dove avrebbe trovato il coraggio.
Tornò in camera sua e dalla finestra osservò il muro. Si domandò cosa ci fosse dietro. Quale potesse essere il torto che aveva fondato una barriera tanto grande tra vicini di casa. D’improvviso lo prese l’urgenza di guardare al di là. Si vestì e scese a cercare la scala. La trovò sul basso tetto della legnaia. Non amava le scale. Da sempre l’altezza gli provocava malessere. Più forte fu la curiosità. La prese e la portò vicino al muro. L’appoggiò, rimase a guardarla. Andava allungata. Per un attimo rinunciò, poi si decise. Scalzò un po’ di erba per farla più stabile. Respirò forte e salì i primi gradini. Si fermò con i polpacci irrigiditi. Affannava. Guardò in su, vide il cielo a confine del muro. Ricominciò a salire. Le mani strette nella presa erano esangui e bagnate. Una goccia di sudore gli bruciò un occhio. Non si fermò. Tremava. Arrivò all’ultimo gradino. Senza staccare le mani dalla scala si sporse per guardare al di là. Era altissimo. Sudava e tremava. Una voce di donna lo raggiunse. Una filastrocca da piccini. Un uovo, un pulcino. Un battere di mani. Il ridere di un bambino. Guardò lontano e piano un sentimento nuovo lo colpì. Si sentì forte. Orgoglioso di stare lassù. Vide che al di là del muro c’era un giardino con un ciuffo di ortensie celesti. Una finestra aperta liberava le voci che sentiva. Una lavatrice girava nell’angolo in fondo, sotto alla grondaia. Il gatto arancio adesso era sdraiato sul tappetino davanti alla porta di quella casa. Lui non aveva avuto bisogno della scala.
Si rilassò un poco. Il sangue rifluì nelle mani e le braccia formicolarono.
Il muro non aveva senso realmente.
Quando i suoi genitori parcheggiarono davanti al cancello aveva rimesso la scala sul tetto della legnaia. Aveva fatto di nuovo la doccia. Aveva indossato una camicia con i papaveri rossi e li stava aspettando seduto al tavolo in soggiorno. Quando aprirono la porta lui accese una sigaretta.
Come dopo fatto l’amore.