Strade diritte strade storte

La prima metà della mia vita l’ho vissuta in una città costruita fin dall’epoca coloniale su pianta a scacchiera, dove le strade sembrano essere state progettate a tavolino, tirando delle righe diritte, che è il modo più semplice, mi verrebbe da dire, e anche il più antico, se pensiamo a Ippodamo da Mileto, per esempio, il primo architetto e urbanista greco e il primo a usare la planimetria, al quale gli viene attribuito lo schema ortogonale. Le strade, dunque, come dicevo, sono tutte diritte (salvo alcune, che tra l’altro creano un sacco di scompigli, perché se sei abituato a muoverti su una scacchiera, appena trovi una strada storta non sai più da che parte andare), con numeri civici che raggiungono cifre altissime, ma ti danno comunque il senso della continuità, perché dall’inizio alla fine tutte le strade hanno un unico nome che la distingue. L’avenida Corrientes, sto parlando di Buenos Aires, per esempio, è lunga più di otto chilometri, e va dal numero civico 1 al 6.900, e dall’inizio alla fine si chiama così, avenida Corrientes. Anche l’avenida Rivadavia (fino a qualche anno fa si diceva che era la più lunga al mondo ma sembra che ultimamente abbia perso il podio), circa 35 chilometri, porta sempre lo stesso nome dal civico 1 al 27.500. Il mio orientamento, ora che ci penso, nella prima metà della mia vita, seguiva questo schema ortogonale fatto d’incroci e angoli retti. Insomma, mi muovevo, per fare un paragone, come una torre su una scacchiera.
Alla fine degli anni ’80 sono venuto a Recanati, dove abito ancora e dove ho dovuto mutare radicalmente il mio modo di spostarmi da un lato all’altro della città. Infatti, tra le varie cose che mi hanno colpito, all’inizio del mio arrivo, oltre alla disposizione labirintica delle strade, è stato costatare che il corso principale, l’unico che attraversa la città da una punta all’altra e segue la cresta del crinale, cambia nome circa otto volte durante il suo percorso: all’inizio del corso, giusto per rendere l’dea, si chiama Via I Luglio (cento, massimo duecento metri di lunghezza), poi si trasforma in Corso Persiani (in onore al compositore Giuseppe Persiani, morto nel 1869), poi diventa Via Cavour, poco più avanti, Via Cavour, si trasforma in Via Calcagni (in onore ad Antonio Calcagni, scultore del Cinquecento), poi si trasforma ancora in Via Roma, poi in Via Antici (famiglia nobile recanatese, la mamma di Leopardi era un’Antici), poi ovviamente, trattandosi di Recanati, Via Antici diventa Via Leopardi (dunque la strada passa davanti a Casa Leopardi col nome di Via Leopardi, ovvio) e infine muta in Via Monte Morello. Sarebbe stato troppo facile e scontato se questa strada avesse avuto un solo nome. Questo mutamento continuo mi ricorda un racconto di un autore sudamericano, letto molti anni fa, dove si narra di un personaggio che deve andare a Santa Clara, un piccolo paese in pianura. Mentre cammina sopra i binari in quella direzione, chiede ogni tanto al suo compagno di viaggio quanto manca per l’arrivo e il compagno gli risponde ogni volta di portare pazienza, che prima o poi arriverà Santa Clara. A un certo punto però compare un paese in lontananza. È sicuro che si tratti di Santa Clara, ma lo chiede al suo compagno per sicurezza (rielaboro il dialogo così come me lo ricordo):
“Come si chiama quel paese laggiù?”
“Da qui lo chiamano Jaramillo”, risponde il compagno.
“Jaramillo! Ma se stiamo andando a Santa Clara”.
“Santa Clara viene dopo, quando non è più Jaramillo”.
“Dopo quando?” chiede ancora.
“Più in là”.
Continuano a camminare sui bordi di quelle ferrate interminabili. Poco dopo, quando cominciano a distinguersi le case, si rivolge di nuovo verso il suo compagno:
“Come ha detto che si chiama quel paese?”
“Da qui lo chiamano Esperanza”.
“Esperanza? Ma, non era Jaramillo?”
“No! Jaramillo l’abbiamo già passato. Da dietro era Jaramillo. Quello là è Esperanza”.
“Ma io credevo che noi stavamo andando a Santa Clara”.
“Santa Clara, compare, sta dopo, quando si passa Esperanza”.
“Ed Esperanza dove è?”
“Esperanza sta qui”, dice indicando col braccio in direzione di Santa Clara.
E così, Santa Clara diventa il paese chiamato Santa Clara solo quando si sta dentro, a Santa Clara stessa; da fuori invece assume diversi nomi, secondo la distanza dell’osservatore. E chissà poi se Santa Clara, al suo interno, ha delle vie che mutano nome, d’isolato in isolato. Quando si cambia paese o città, anche il nostro stesso orientamento viene messo in gioco. Io mi sono dovuto riadattare a questo nuovo modo di vedere la distribuzione urbanistica, a fare i conti con la numerazione e i nomi delle vie. È come imparare una nuova lingua, c’è sempre un’Arianna per ogni straniero che ci aiuta a ritrovarci o che ci spiega che una strada può avere tanti nomi senza che nessuno se ne stupisca.
Concludo con un passo tratto da Infanzia berlinese di Benjamin che mi colpisce sempre quando lo rileggo, perché mi disorienta e mi aiuta a smarrirmi, che è la prima condizione per chi vuole conoscere una nuova città: “Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta”.