Tollero ergo sum

Tolleranza: una bella parola se applicata ai tuoi massimi sistemi. Di te, che non hai bisogno di mangiare e che una casa e un lavoro ce l’hai. Che non devi sopravvivere in qualche modo, come me. Dici tante di quelle stupidaggini sull’accoglienza e sulla sensibilità e sull’empatia e poi alla fine tolleranza come la intendi tu significa che a sopportare devo essere io, mentre tu ti riempi la bocca di ottimi propositi riferiti a gente lontana, che non ti guarda diritto in faccia, che non aspetta da te una risposta che esca diretta dalle tue labbra.
Non pensi a me che sono qui davanti ai tuoi occhi e il tuo sguardo mi trapassa mentre sei concentrato nel salvare mondi, città, latticini, cani, gatti, profughi, uova. Tu costruisci il tuo mondo eco-bio-solidale, che piacerebbe tanto anche a me se potessi farne parte. Ma mi costerebbe troppo aderire, non me lo posso permettere. Ammiro la tua bravura nel condividere e a capire le brutture che puoi gestire senza doverne sentire l’odore!
Ma quando chi ti chiede è lì pressante e sono io e devi dare una risposta immediata non è più la stessa cosa, vero? Allora ti do fastidio, non hai voglia. Vero che non ti piaccio più ora che mi vedi con i miei stracci? Come mi permetto? Era meglio quando ero lontano, davanti alla vita degli altri. Ora parlo, ora puzzo, ora ti guardo. Accoglienza mica voleva dire che dovevo proprio venire qui di persona a scocciarti, e che diavolo!
Pensa quanto mi odio io che non solo devo supplicare gente come te, ma devo anche ringraziarla, la gente come te. So che non è giusto, ma a volte preferisco i bastardi, quelli che ti prendono a pedate. Almeno so cosa mi aspetta. Detesto la compassione pelosa, che non migliora la mia vita come vorrei, che non mi rende la mia dignità come la vorrei. Come la vorrei, sì: tu non lo sai, ma anch’io ho sogni, desideri. Invece per il poco che ricevo devo supplicarti, inchinarmi e ringraziarti: e questa tu la chiami accoglienza.
Non voglio insegnarti niente, non sono nella condizione di farlo. Ma tollerare non dovrebbe significare essere attenti, capire non già la diversità, ma il dolore che essa comporta? Non dovrebbe implicare abbracciarlo turandosi naso orecchie e bocca e insieme aprirle? Ma forse avevo inteso male.
Non desidero che mi consideri speciale, che dici che siamo tutti speciali. Voglio che tu accetti la mia diversità e mi prendi la mano. Non per aiutarmi a sollevarmi: prendi la mia mano diversa dalla tua e piantala di dire che è uguale. Accetta che sia diversa e toccala lo stesso. Afferrala e basta, per la miseria. E rispondimi. Non ho bisogno che tu mi dica che sono uguale a te, che siamo tutti uguali. Io non voglio essere uguale a te, non voglio che siamo tutti uguali. Desidero disperatamente farcela e desidero altrettanto disperatamente ricordarmi chi sono. Non ho bisogno di abbracciare i tuoi colori e i tuoi cromosomi e nemmeno le tue convinzioni per sentirmi meglio. Per sentirmi meglio ho bisogno di non sentirmi uno schifo, ho bisogno di una possibilità. Forse non c’è, forse me la dovrò conquistare. Ma non ignorarmi, non compatirmi, non elargire elemosine. Chiedimi e, se sono in grado, farò ciò che devo. Vorrei solo avere l’occasione di diventare ciò che devo essere, anche se forse fallirò.
Se ce la faccio a togliermi da questa situazione schifosa – ma non lo so e non so nemmeno se illudermi – cercherò di assomigliarti e andrà tutto bene oppure cercherò di dimenticare la gente come te e tu mi riterrai ingrato. Ma tu lo sai cos’è la gratitudine? Lo sai cos’è il dono? Tu sai cos’è il dolore? Sai cos’è la consunzione dell’attesa?
E se tu, bontà tua, queste cose le sai, credi davvero che mi debba interessare?
Tu sei tollerante con il mio tempo e con la mia vita. Pensi che faccia parte di me sopportare, che io possa sopportare senza sentire la fatica che faresti tu. Forse è vero perché ne ho viste più di te. Forse no, sono stanco di vedere brutture.
Facile essere grandi quando si è in vantaggio, quando la tua vita non dipende dal capriccio altrui. Non ti senti capriccioso, lo so. Elargire scongiura in te tale spiacevole sensazione. Ma è generosità questa? Intendo generosità come quella forma della mente che si pratica ogni giorno, ascoltando e rispondendo sempre, anche quando non si ha voglia, anche quando non si ha tempo, anche quando costa tempo, voglia e denaro. Certo tu non sei un santo, lo so, e non posso giurarti che mi comporterei come desidero che tu ti comporti, se fossi al tuo posto.
Ed è questa la tua migliore scusa? Il fatto che non sei santo? Il fatto che non lo sarei io? Forse in certi frangenti sarebbe meglio avere il coraggio di essere cinici. Me lo devo proprio ricordare, quando sarò al tuo posto?
Ma tu che sei così tollerante e ti aspetti che io aspetti cosa fai quando sei in difficoltà? Hai fretta anche tu, vero? La stessa urgenza che ho io nella mia disperazione. La fretta ti commuove quando non hai altri pensieri per la testa, ma ti dà fastidio quando sono lì che chiedo, quando sono lì con il mio dolore che s’insinua nella tua vita.
Dovrei soffrire su Marte per ottenere la tua piena pietà. Non è consentito a gente come me soffrire su una Terra popolata da gente buona e comprensiva quando non è troppo occupata a farsi i fatti suoi.
Devo soffrire dietro una telecamera oppure nascosto, lo so, l’ho capito. Eppure non mi va di essere arrabbiato. Oggi ho voglia di perdonare e non coltivo desideri di vendetta. Come diceva Voltaire, “la tolleranza non ha mai provocato una guerra civile; l’intolleranza ha coperto la terra di massacri.” Sì, conosco Voltaire. Tollero ergo sum: me l’hanno spiegato le scimmie quando vivevo sugli alberi.