Verona e la balena bianca

C’è un solo viaggio possibile: quello che facciamo nel nostro mondo interiore. Non credo che si possa viaggiare di più nel nostro pianeta. Così come non credo che si viaggi per tornare. L’uomo non può tornare mai allo stesso punto da cui è partito, perché, nel frattempo, lui stesso è cambiato. Da sé stessi non si può fuggire. Tutto quello che siamo lo portiamo con noi nel viaggio. Portiamo con noi la casa della nostra anima, come fa una tartaruga con la sua corazza. In verità, il viaggio attraverso i paesi del mondo è per l’uomo un viaggio simbolico. Ovunque  vada è la propria  anima che sta cercando. Per questo l’uomo deve poter viaggiare.                                                  (A. Tarkovskij)

Per la bambina che ero significò novità e svago. Non saprei dire se la vedevo per la prima volta; certo è che la neve del cinquantasei fu così abbondante che nella mia memoria non si è ancora sciolta. Un po’ per timidezza, un po’ perché credevo di non avere l’equipaggiamento adatto, io osservavo da dietro le finestre. La strada in salita che portava a casa mia, per i ricchi  divenne la passerella su cui sfoggiare tenute da montagna; per gli altri si trasformò in pista di ghiaccio per gare di varia natura. Le battaglie di neve, le cadute, i bizzarri indumenti di alcuni, gli improbabili mezzi utilizzati nella ridiscesa, tutto era spassoso. Qualche volta uscii sul terrazzo della sala da pranzo per bersagliare anch’io il malcapitato di turno: che gusto, che divertimento! Nel ricordo è conservato anche un vetro rotto: un imbecille  scagliò una palla di neve contro la finestra della camera da letto dei miei. Invece, in una foto ormai introvabile, il tenero nonno materno è ritratto, pala in mano, in mezzo ad alti muri di neve nel varco aperto lungo la via della sua abitazione.

Nevica da dieci giorni. La regione Marche è fra le più colpite. A Fermo oggi siamo a meno cinque gradi. Dicono che simili condizioni atmosferiche si verifichino ogni trent’anni. La precipitazione nevosa di questi giorni è paragonata a quella del cinquantasei. Per la quasi vecchia che sono l’attuale emergenza climatica significa disagio e tedio. Un insolito  vociare ha richiamato la mia attenzione: accessoriati di tutto punto, i soliti figli di papà stanno sciando nei vicoli del quartiere. Prendermi cura di mia madre implica l’impossibilità di viaggiare, ma la mia è una scelta. Non lo è affatto, invece, non poter uscire di casa. Muri di neve, vie lastricate di ghiaccio, anche se disponessi dell’equipaggiamento adatto avrei paura di cadere: se succedesse qualcosa a me, che ne sarebbe di mia madre? Stanca, dolorante, balena bianca prigioniera dei vuoti  di  memoria,  in  attesa più solo della nave rompighiaccio  “Thanatos” che le apra un varco attraverso cui sfuggire alla vita. Nel tetto sottostante si è depositata tanta neve e a fatica ho potuto aprire la persiana della finestra che incornicia l’Adriatico: la coltre di neve e gelo mi impedisce di scorgerlo; in questi giorni depressi non mi è dato nemmeno contemplare il mio mare. Ripenso a come era delizioso stare in spiaggia nel settembre scorso, con lo stesso calore e senza più la confusione del mese di agosto. In quei giorni mi capitò fra le mani un opuscolo con citazioni e belle foto. Sembrandomi che le parole di Tarkovskij fossero state scritte appositamente per questo libro, decisi che le avrei inserite in uno dei sei brani rimasti per ultimarlo. Come fronteggiare le imprecisate ore d’isolamento che la “bomba di neve” ha ancora in serbo? Potrei  elaborare un testo che sparga in giro un po’ d’ironia, mi permetta di raggiungere il mare, mi trasporti a Verona, mi faccia volare in Brasile, mi salvi da questa calotta di noia polare.

Proveniva dallo stato brasiliano più a sud e arrivava nell’estremo nord per impartire corsi di formazione e aggiornamento per gli insegnanti della rete pubblica. Considerata un’esperta, le pagavano profumate trasferte, le rimborsavano spese, l’ospitavano nel miglior albergo della città, le mettevano a disposizione vettura con autista. I funzionari pubblici con i quali si rapportava l’ossequiavano, coccolavano, assecondavano in tutto, persino  nelle pretese da bambina viziata  che sovente accampava. Riceveva regali importanti e inviti per feste ed eventi. Era così superficiale da non essersi accorta che la riflessione, da tempo in atto a livello nazionale, suggeriva che i corsi per maestri indigeni fossero specifici e differenziati.

In considerazione del fatto che esercitava così tanta influenza sui burocrati locali, gli alleati degli indios decisero che valeva la pena tentare di sensibilizzarla per averla dalla loro parte. L’incarico venne affidato a me e due altre compagne. Tanto dispiegamento di forze era giustificato dal fatto che il corso di rieducazione doveva essere intensivo, con tappe concentrate, soprattutto, nei brevi periodi in cui la donna si trovava in città.  Per prima cosa la ribattezzammo. Essendo un’enorme palla di grasso, con carnagione e capelli bianchi, la chiamavamo Balena Bianca (solo quando eravamo fra di noi, naturalmente). Per certi versi era un’allieva diligente: faceva suo qualsiasi documento, dato, informazione le passassimo; talmente suo che lo incollava ai propri rapporti e progetti e ne ometteva le fonti. È vero anche che si distraeva spesso per vantarsi dell’attico e del marito che possedeva; per parlare di  abiti, gioielli, conoscenze altolocate, ricevimenti. Per niente  facile era condurre o ricondurre il discorso alla questione indigena. Con lei non si sentivano a proprio agio nemmeno le mie amiche, ma nessuna di noi si scoraggiò. Avendo ben chiaro in mente quanta influenza esercitasse sui burocrati locali, portammo avanti la nostra opera fino alla conquista di importanti spazi e riconoscimenti per l’educazione formale indigena in quello che era uno degli stati più antiindigeni del Brasile.

Quando si mise in testa di fare un viaggio in Italia, Balena Bianca prese a circuirmi con una metodicità anche più scientifica di quella che avevo applicato io nel sensibilizzarla. Voleva che le  fornissi  l’invito  a  partecipare a  un  evento organizzato da una qualsiasi realtà italiana; con  esso avrebbe ottenuto l’autorizzazione ad assentarsi  dall’università in cui lavorava. Mi prese per sfinimento. Fra gli amici che sostenevano il mio operato ce n’era uno legato a quel partito che si era meritato l’affettuoso nomignolo di “Balena Bianca”; era lui la persona con gli agganci giusti cui chiedere  l’invito. Me lo fece avere a stretto giro di posta, lo inoltrai all’interessata, ci demmo appuntamento in Italia dove stavo recandomi per un periodo di  riposo.

      Balena Bianca sbarcò a Milano. Io mi trovavo a Verona per incontrare persone operanti in America Latina. Mi raggiunse in treno. Appena arrivammo nel suo albergo, le ricordai l’imminenza dell’incontro cui doveva partecipare, come da invito ricevuto mentre era ancora in Brasile. Con una faccia tosta inimitabile mi disse che non aveva intenzione di scendere con me nelle Marche per onorare l’impegno. Aveva altro da fare.  Addirittura cercò di convincermi a unirmi a lei nel giro turistico che aveva programmato e la cui successiva tappa sarebbe stata, logicamente, Venezia.  Quella fu l’ultima volta che la vidi.

Nonostante sia trascorso un ventennio dalle situazioni che descriverò, vivido è il ricordo che ne conservo. Mi riferisco alle volte che mangiai insieme a Balena Bianca: dicendo di essere a dieta ordinava insalate; poi, senza nemmeno chiedere il permesso, la sua forchettaccia piombava sul cibo giunto in tavola per me e ne rubava porzioni. L’altra situazione ci vede nell’incantevole giardino tropicale dell’albergo che l’ospitava in occasione delle sue trasferte al nord: aveva appena finito di leggere un mio libro; si disse speranzosa che la nostra amicizia mai s’incrinasse, per non correre il rischio di imbattersi nella tremenda caricatura che, di lei, le mie parole scritte avrebbero potuto disegnare.

* Il brano “Verona e la balena bianca” è uno dei capitoli dell’inedito A passo di tartaruga.