Alicia Baladan
Piccolo grande Uruguay
Topipittori, Milano 2011
Lorenzo Luatti
Dopo la splendida fiaba latinoamericana Una storia Guaraní (Topipittori, 2010), sua opera di esordio nella narrativa per l’infanzia, l’italo-uruguayana Alicia Baladan torna a sorprenderci e ad incantarci con un piccolo libro autobiografico, prezioso e assai curato, in cui l’autrice racconta, con intensità e leggerezza, gli anni difficili ma anche spensierati della propria infanzia in Uruguay, durante la spietata dittatura dei militari. Sono gli anni che precedono la “fuga” della sua famiglia dal Paese sudamericano, e che costringeranno la giovanissima Alicia a riparare all’estero, dapprima in Brasile e, dopo aver concluso la scuola dell’obbligo, in Italia, all’età di undici anni (nel 1980). In Italia, nuovo Paese di adozione, e precisamente a Brescia dove vive e lavora, Baladan costruirà il suo futuro: si diploma all’Accademia di Belle Arti di Brera, partecipa a mostre e film-festival di animazione e sperimentazione dell’immagine, collabora alla realizzazione di progetti culturali in vari musei e, negli ultimi anni, si dedica all’illustrazione e alla scrittura di libri per bambini. Con esiti felicissimi, anche grazie al felice incontro con l’editore Topipittori, che oggi in Italia rappresenta una delle vette più alte quanto a “libro benfatto” (nei testi, nelle immagini, nella grafica). Di tutto questo, però, Piccolo grande Uruguay non parla.
In una recente intervista l’autrice ha dichiarato: “Con l’Uruguay ho un rapporto di affetto istintivo. Qui mi sento uruguaiana, anche se là ho trascorso meno di un terzo della mia vita. Là mi sento italiana (purtroppo o per fortuna, chi lo sa?) perché non ho l’attitudine alla vita che hanno gli uruguaiani. Come quasi tutti gli emigranti, mi è difficile stabilire dove voglio stare veramente, un’inevitabile inquietudine che se vissuta serenamente può essere anche positiva. Con i miei genitori parliamo spagnolo sempre, mi sforzo di farlo anche con mio figlio che vorrei fosse bilingue come me ma per ora, anche se mi capisce, risponde in italiano. Da anni leggo principalmente in italiano ma Horacio Quiroga, Benedetti, Onetti e altri latinoamericani li ho letti in spagnolo.Piccolo grande Uruguay l’ho scritto in italiano. Il mio rammarico è di essere molto disinformata sulla vita contemporanea culturale dell’Uruguay” (dal suo blog: http://aliciabaladan.blogspot.com).
Il libro ci racconta l’Uruguay degli anni ’70: sono gli anni della conquista dello spazio, ma anche della junta militar, delle contestazioni, dei dissidenti e dei desaparecidos. Un Paese sconvolto da un regime che semina il terrore con abusi e violenze di ogni tipo, porta l’economia, la società e la vita civile sull’orlo della catastrofe. Gli oppositori del regime sono in carcere e stessa sorte è toccata al padre di Alicia, accusato di sovversione e di atti contro il regime. A quegli anni, l’autrice dedica poche pagine introduttive, che fungono da cornice alla sua narrazione: “La dittatura nel mio paese è durata quattordici anni e fu un periodo davvero buio. Distrusse il paese sotto tutti i punti di vista e molte famiglie, a tutt’oggi, vivono ancora sparse ai quattro angoli del mondo, mentre altre contano pochi superstiti. Il bisogno di cancellare questo tragico periodo, ha provocato nel mio paese, negli anni seguenti alla dittatura, una volontaria amnesia, al punto che non esistono né monumenti né altri simboli a ricordare quel che è successo. Addirittura il carcere di Montevideo, quasi subito dopo la dittatura, fu trasformato in un centro commerciale, e in quelle che una volta erano le celle ora ci sono negozi o ristoranti in cui si può fare shopping o si possono gustare ricche pietanze. Qualcuno, talvolta, mangiando una succulenta bistecca, riconosce la sua cella e, ridendo, ricorda quanta fame e disperazione, provasse, allora, nello stesso luogo” (pp. 13-14).
Alicia vive in prima persona la drammaticità di quegli anni plumbei, ma l’autrice-illustratrice ce lo racconta con una scrittura fresca, con la prosa leggera di una bambina che dopo l’arresto del padre va a vivere in una casa enorme. Alicia, nonostante tutto, è una bambina curiosa e vivace e sogna di diventare astronauta. Fino a quando le viene raccontata la storia di un certo Caruso Trusky, il panettiere che andò nello spazio per due settimane e al suo ritorno trovò tutto diverso.
Nel romanzo colpisce soprattutto la presenza di frequenti rimandi e collegamenti in chiava psicologica – sono talvolta immagini visionarie e preveggenti (“i sogni sono reali”) – tra le drammatiche e difficili vicende e le situazioni vissute in prima persona e i sogni e le fantasticherie di una giovanissima Alicia, il tutto filtrato dal ricordo, a volte deformante, ma anche capace di imprimersi con una forza straordinaria, delle storie ascoltate durante l’età dell’infanzia. Penso alle pagine, dotate di straordinaria forza narrativa, in cui si raccontano le vicende della bambola “Susanita” e dei “gatti caduti dal cielo”, del compagno di scuola “Aramiz”, costretto dalla dura vita a crescere più in fretta degli altri ragazzi (forse l’episodio più intenso e struggente del libro), dell’astronauta Caruso Trusky, già citato, e ad altre ancora di cui il testo è disseminato. Altrettanto piacevoli e intense sono le pagine, colme di ricordi e particolari, che hanno per protagonisti i nonni materni e paterni, gli zii e gli amici di famiglia. È un sapiente affresco familiare quello ricostruito da Baladan, brulicante di persone e storie, capace di coinvolgere il lettore dalla prima all’ultima pagina, in una narrazione che è, al contempo, serrata e pacata, intima e collettiva.
Il romanzo si ferma alle porte dell’emigrazione: ad Alicia e alla sua famiglia non resta altro che l’esilio, in Brasile, quale unica opportunità per garantirsi un futuro. “Guardai la mia città, ogni cosa viva per le sue strade, come mi ero sempre immaginata un astronauta vedesse la terra dallo spazio. Tutto era bellissimo, unico e incerto, perché nulla in quel viaggio mi dava certezza di un ritorno. Il nuovo mondo si chiamava Rio de Janeiro. Mi sembrò davvero di essere atterrata su altro pianeta. Ma ancora non sapevo che era soltanto la prima tappa di un lungo viaggio attraverso universi lontani […]” (pp. 114-115). Grande è la cura nella scelta delle parole e molto bellisono i disegni, essenziali, in bianco e nero della stessa Baladan.
Le pagine lette riscaldano ed emozionano e giunti alla fine vorremmo che Alicia continuasse a raccontarci cosa è avvenuto dopo, dal tempo vissuto a Rio alla vita in Italia. Chissà, forse un giorno Baladan riprenderà la sua narrazione, là dove l’ha lasciata, e in questo raccontare e raccontarsi riporterà a galla parti di sé e ne ricomporrà altre. O forse non lo farà. La collana che ospita il libro – la prestigiosa “Gli anni in tasca” vincitrice del Premio Andersen come miglior collana di narrativa – raccoglie narrazioni autobiografiche sull’esperienza dell’infanzia, e dunque in qualche modo poneva un limite temporale alle vicende narrate. Eppure vi è una ragione più profonda che spiega la scelta di chiudere la storia nel momento dell’addio al proprio Paese: perché segna una cesura profonda con la propria storia e con il mondo dell’infanzia. Ciò che accadrà dopo fa parte di un’altra storia, nuova e diversa.
Un libro per tutti i lettori, e in particolare per i giovani dai 12 anni in su
13-06-2011
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