“Chi non può entrare a far parte di una Comunità o chi non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città ma è una belva o è un Dio”. Questo concetto veniva affermato da Aristotele e John Donne lo rinforzava dicendo che “nessun uomo è un’isola”. Il testo di Duška Kova čević trova il suo presupposto e la sua forza nella consapevolezza che l’essere dell’uomo, il suo destino, la sua vita, non possono che appartenere ad una comunità. Quando ci si trova in una condizione psicologica in cui la solitudine sembra far capolino ecco che si trovano modalità e forme per continuare a sentirsi appartenenti a un gruppo di uomini e donne, grande o piccolo che esso sia. Una delle modalità che l’uomo ha spesso scelto per uscire dalla sua solitudine e porsi in contatto con la comunità è quello della scrittura che può essere anche solo poesia, che pur essendo uno strumento comunicativo che insiste sul canale, cioè sullo strumento della comunicazione, tuttavia poi necessità che venga conosciuto, venga letto. A volta i molti poeti che esistono in un gruppo sociale pubblicano a proprie spese il frutto delle loro creazioni perché queste non rimangano un puro esercizio retorico.
Questo è quanto non è un testo di poesie, ma non è neppure un romanzo, non è un saggio, non è una lettera. A che genere letterario appartiene? Forse si può collocare fra l’opera di Sant’Agostino Le confessioni o l’opera di Blaise Pascal I pensieri. Ma lo scritto di Duška Kova čević manca dell’afflato religioso dell’uno e dell’altro scritto, ma se il trasporto religioso è assente tuttavia non manca il coraggio di mettere a nudo il proprio animo e ragionare sulle cose a partire dalla più estrema sincerità.
La scrittrice definisce il suo testo “una lettera d’amore da recapitare tramite un postino virtuale a un destinatario virtuale” e aggiunge “che, in ultima analisi potrei essere me medesima”. In precedenza aveva scritto: “Talvolta non so proprio per chi lo scrivo questo. Per me stessa? Ma se mi sono già omaggiata con camionate di scritti, agende, quaderni e fogli, e a che pro? A cosa mi è servito se non ad ammazzare il tempo, che poi, alla fine, lo so ammazzerà me”. La pubblicazione e il fatto che a qualcuno sia stato consegnato lo scritto sta a dimostrare che la “lettera” non vuole essere rivolta solo a se stessa, ma necessita di un interlocutore che faccia da strumento di riflessione, come nel fenomeno ottico, affinché “l’isola” che ha vergato parole e frasi possa sentirsi agganciata ad una comunità, ad una società. Duška Kova čević necessità di trovare uno specchio che rifletta se stessa. Cosa può essere questo specchio, anzi chi è questo specchio ci viene detto in un altro breve passo rivelatore “ E poi ancora bum, tutto il mondo, che non è altro che lo specchio, è pieno di confetti e di nastri colorati!”. Non è vero che tutto il mondo è pieno di confetti, ma che sia lo specchio nostro, di ciascuno di noi, di lei, autrice di questo libro è qualcosa di molto vero e significativo.
Noi siamo persone, cioè maschere, direbbe Pirandello, eppure non sopportiamo di continuare ad essere solo maschere perché questo ci condannerebbe ad essere delle isole, delle bestie, direbbe Aristotele. Noi abbiamo bisogno di saperci specchiare nel mondo, di toglierci la maschera e denudarci fino in fondo, di mostrare quali sono i nostri più insistenti sogni, quali sono le nostre speranze di realizzazione di noi stessi, abbiamo bisogno di mostrare il nostro amore per alcune persone e il nostro odio per altre, abbiamo bisogno di mostrare i nostri traumi consapevoli che solo così riusciamo a metabolizzarli e neutralizzarli. Questo specchiarci nel sociale è un po’ come avveniva presso i primi cristiani per i quali l’essere seguaci di Cristo voleva dire proprio essere capaci di denudarsi e specchiarsi anche nella propria miseria di fronte agli altri. E’ la confessione che diventava un rito sociale e collettivo, rito che la messa attuale non riesce a riproporre perché alla confessione collettiva si è sostituita la confessione privata che ha sclerotizzato in maschera l’animo di chiunque.
IL testo si è forgiato forse in due momenti, un primo in cui vengono presi in esame personaggi che in qualche modo sono stati/e di disturbo, di sofferenza e un secondo in cui invece si accentua maggiormente la volontà di andare più in profondità di se stessi per conoscersi meglio e per sentire la propria identità e viverla più a fondo.
Questo è quanto è un libro coraggioso in cui l’autrice ha voluto dirsi fino in fondo consapevole che essere autentici, essere veritieri porta ad essere anche veraci, come direbbe Hans Kung, cioè ad essere credibili presso gli altri ma specialmente presso se stessi, unica garanzia non per essere in possesso di felicità, ma onesti con se stessi e la vita.
Tema che serpeggia in tutto il testo è la dimensione di un artista, la fatica che fa per essere apprezzato, per avvertire il consenso su ciò che crea e propone.
E’ però questo un tema che nasce prepotentemente in chi spera di poter vivere della sua opera artistica. E’ la dimensione esistenziale che si è posta in un artista da quando la società si è industrializzata, e anche se ora, siamo in un dominio assoluto dell’informazione più che dell’industria i meccanismi che regolano i rapporti fra opera d’arte e potere economico sono rimasti inalterati.