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Ricordi – Antonio Lanza

È stato poco prima dell’estate del 2011 che decisi che dovevo riprendere sul serio a scrivere narrativa. In quel momento ero poco più che disoccupato. Venivo fuori da diverse esperienze di lavoro abbastanza sfortunate, poi i trasferimenti, sempre alla ricerca di nuove soluzioni per tirare avanti. In quel momento collaboravo come cronista per un quotidiano di Firenze che poi di lì a poco è andato a gambe all’aria. Da allora le cose non sono andate tanto meglio. Molti altri editori che conosco hanno fatto la stessa fine e altri arrancano con grande fatica. Con mia moglie vivevamo a Lastra a Signa, vicino Firenze, in un appartamento che aveva un piccolo spazio in soffitta dove me ne andavo a scrivere.

Quel giorno, da quella soffitta, composi il numero di casa di Julio Monteiro Martins e parlai con lui per quasi un’ora. Non lo conoscevo e lui mi trasmise subito un’empatia tale che ne restai folgorato. Parlava così lentamente e con una tale calma che io, abituato a dialoghi frenetici con i redattori dei giornali e con i politici locali, inizialmente non facevo che interromperlo per fargli delle osservazioni o delle domande. Non ricordo precisamente quale fu l’occasione, ma poi disse qualcosa che attenuò la mia eccitazione e iniziai ad ascoltarlo con attenzione.  Allora mi resi conto che stavo parlando con uno scrittore. In seguito a quella telefonata mi tornò alla mente come in un lampo quello che significava la parola “scrivere”. Fu come aprire una breccia di luce in una stanza buia. Volevo tornare a scrivere e quell’uomo, l’avevo capito subito, faceva al caso mio.

In ottobre iniziarono le lezioni della Sagarana. Non ero certo a digiuno di ciò che voleva dire mettere insieme delle parole e scrivere un racconto. Ma avevo bisogno di rimettermi in gioco, di riscoprire me stesso e la mia vena, prima di abbandonare del tutto l’idea di essere uno scrittore. Ero a un bivio, insomma. Avevo già fatto delle esperienze di pubblicazione, ero giornalista da diversi anni. Nel 2001, dieci anni prima, avevo frequentato un corso di scrittura creativa a Roma con Lidia Ravera, la famosa scrittrice di “Porci con le ali” e tanti altri romanzi meno noti al grande pubblico. Ma in quei due anni di lezioni, una volta al mese, non riuscii a scrivere una sola riga. Erano passati dieci anni, ero sposato, disoccupato e pronto a guardare in faccia alla realtà.

Mi apparve chiaro fin dall’inizio che quella era l’ultima possibilità che avrei avuto di iniziare a scrivere sul serio. E questo fin dal primo giorno in cui andai a Lucca, in via Guidiccioni e citofonai all’appartamento di Julio per salire a casa sua. Non mi aspettavo che le lezioni del corso di scrittura, che si sarebbe tenuto ogni sabato per tre ore, si svolgessero in casa sua. Non mi aspettavo neanche che a quelle lezioni, e per tutto l’anno, saremmo stati tre allievi in tutto. Julio si presentò davanti alla porta di casa con un sorriso rassicurante. Mi chiamò per nome con un tono come se ci conoscessimo da anni. Mi strinse la mano, mi fece accomodare in salotto dove c’era sua figlia che saltava di qua e di là con i giocattoli che occupavano quasi tutto il salotto. Mi disse che stavamo aspettando gli altri due e cominciò a farmi qualche domanda sul mio lavoro, su quello che avevo fatto e in maniera un po’ distratta, ogni tanto allungando un braccio verso la figlia che continuava a saltare intorno a noi. Io parlavo e lui mi rispondeva cose tipo “Ah, sì?”, oppure “Bene”. Lì per lì mi sentii come preso in giro, volevo quasi chiedere scusa e andarmene via. Ma quando arrivarono le altre due corsiste ed entrammo nella stanza che Julio aveva preparato per la lezione, tutto cambiò. Lui per prima cosa ci disse che quella lezione era dimostrativa e poi stava a noi decidere se proseguire oppure no il corso. Ma quando iniziò a parlare, nessuno di noi tre ebbe dubbio che eravamo al posto giusto per imparare ciò per cui eravamo lì.

Julio iniziò a parlare e a dire come si diventa scrittori. Non come si scrive, ma come si diventa uno scrittore. Parlava in maniera molto calma di cose che per me diventarono verità assolute. Proprio come era sembrato al telefono qualche mese prima. Ci chiese che autori avevamo letto, se avevamo già scritto delle cose e di fargliele vedere perché lui le avrebbe lette. Poi iniziò a parlare dell’importanza della scrittura, del suo valore per le persone ma soprattutto per noi stessi, del fatto che con la scrittura noi comprendiamo meglio chi siamo e che cosa vogliamo veramente. Disse che spesso uno che vuole diventare uno scrittore si pone la domanda di quale sia la strada da percorrere per ottenere quello scopo. Lui ci fece capire che dipendeva dallo scopo. Disse che la domanda si poteva rigirare in questo modo: “Che cos’è che ostruisce lo sbocciare della scrittura in una persona? Quali sono gli ostacoli?”. A questa domanda rispose in due modi. Primo, la convinzione di non farcela, di non poter mai arrivare a raggiungere i grandi della letteratura, i miti che abbiamo idolatrato da ragazzi e la magnificenza delle pagine che questi ci avevano regalato. Secondo, il bagaglio genetico e culturale che ci portiamo dietro. Julio sosteneva che chi aveva avuto un padre o una madre o uno zio artista aveva il vantaggio di comprendere fin dal principio la cosiddetta vita artistica, la giusta coniugazione tra l’essere scrittore e l’essere uomo, il rapporto con se stessi e il proprio bagaglio di esperienza. Ma soprattutto chi aveva avuto la fortuna di avere a che fare con un padre artista, ad esempio, aveva avuto modo di imparare a domare quella “bestia” che è dentro di noi e che si chiama inconscio.

Julio ci invitò fin dal principio a chiamarlo per nome che, ci tenne a precisare, in italiano si pronuncia con la “j” che suona come “sg” e non come “i” lunga. E ci parlò senza nessun problema della sua vita, del fatto che si era risposato e che ogni tanto prendeva la sua valigia di appunti e se ne andava a scrivere in una località isolata vicino al mare. Come faceva spesso partiva da un pretesto per iniziare a dispensare i suoi consigli. Così iniziò a parlare dell’importanza della solitudine per uno scrittore. “Siate soli quando scrivete e prendetevi tutto il tempo che vi necessita per far maturare le idee dentro di voi. Scrivete quando avete qualcosa da dire, senza fretta e senza esercitare una forza superiore al desiderio stesso di scrivere”.

Ero stato un lettore vorace dei racconti di Hemingway e subito mi venne in mente la sua intervista a George Plimpton in cui diceva che lui scriveva tutti i giorni, costantemente, svegliandosi presto al mattino e fino al massimo all’ora di pranzo per non “prosciugare il pozzo”. Quando chiesi a Julio quale fosse stato il ritmo giusto per chi, come noi, iniziava a scrivere lui mi rispose che sì, forse per noi era meglio praticare in questo modo, un po’ al giorno per tutti i giorni. Ma qui ci svelò uno dei consigli più preziosi che per me ancora oggi rappresenta il suo patrimonio inestimabile.

“Sapete, ognuno di noi ha un bagaglio, un’energia verbale che consuma durante tutta la giornata. Se voi passate due ore al giorno al telefono e parlate o scherzate, ridete o piangete, sarà difficile che poi riuscirete a scrivere. Di solito la scrittura arriva dopo un lungo periodo di silenzio durante il quale la storia che volete raccontare si dispiega, scende nel profondo, svanisce per poi riaffiorare all’improvviso ed è quello il momento di scrivere”.

Spesso durante le sue lezioni spiegava che la prima cosa che dovevamo cercare di fare era capire “cosa scrivere e perché scrivere”, insomma di cosa dovevamo trattare le storie che volevamo raccontare. Quando lo sentivo parlare alle lezioni, spesso mi tornavano in mente le lezioni di Flannery O’Connor sulla scrittura e proprio in merito a questo mi ricordai di aver letto una cosa molto bella: “Potete scrivere per far torto a vostro padre o in favore dei diritti civili. Questo perché rimarrà tra voi e il vostro analista e non riguarda il lettore”. Questa affermazione, all’epoca, mi faceva saltare sempre sulla sedia. A maggior ragione, il consiglio di Julio, mi parve chiaro, straordinario. Lì per lì contestai questa sua affermazione, citando appunto ciò che avevo letto nel saggio di O’Connor. Ma quando tornai a casa per tutta la settimana ci pensai e compresi che lui mi stava dicendo cosa c’è dietro le quinte di uno scrittore, quello per cui realmente egli decide di vivere e morire per la scrittura. Il perché lo sta facendo. È una cosa che uno scrittore deve sapere. Il lettore forse no, ma lo scrittore sì.

Visto che il corso Sagarana era svolto tra poche persone, c’era la possibilità di scambiare molto spesso opinioni e punti di vista con Julio. Lui non era certo il tipo che si tirava indietro nel confrontarsi anche con chi non era certo al suo livello. Naturalmente la prima cosa che feci quando iniziai a seguire il suo corso fu quella di comprare i libri che aveva scritto. Racconti come “In naturalibus” o “Il mistral” per me furono una vera e propria rivelazione. Entrambi sono racconti molto brevi, apparentemente spogli, ma in realtà molto ironici e con un tocco di drammaticità che fanno di lui uno degli scrittori di racconti che più ammiravo. Nel primo il personaggio racconta in prima persona della sua storia d’amore con la sua donna, una storia d’amore passionale e a tratti morbosa che si scontra con una realtà fatta di compromessi e finzione. Nel secondo invece c’è un dialogo serratissimo tra un uomo ricco e la sua donna su una barca, nel quale emerge il cinismo dell’uomo che a un certo punto minaccia di buttare a mare la donna. La capacità di Julio di entrare in personaggi controversi, così come quella di rappresentare personaggi più vicini alla sua natura furono le due cose che mi fecero comprendere che scrivere voleva dire distaccarsi da se stessi per trovare più facilmente nei propri personaggi qualcosa di molto vicino a noi, ma anche di qualcosa di completamente distante da noi. La chiave del discorso era quella che dentro di noi ci sono diversi personaggi, tanti quante sono le sfaccettature della nostra personalità. E tutti questi personaggi vogliono parlare. Sta a noi riuscire a dargli voce.

A questo proposito Julio ha detto due cose che per me sono state molto utili nella scrittura. La prima era che per essere scrittori bisogna avere il coraggio di aprire delle finestre e far luce in una stanza che è rimasta per qualche motivo al buio.

“E’ una cosa penosa, ma necessaria, perché è lì che troverete la vostra originalità, il vostro stesso essere. Alcuni scrittori o poeti impazziscono. Succede. Ma se accade è perché invece di aprire una finestra, spalancano una porta ed entrano in una stanza dalla quale  non riescono più ad uscire. Dovete procedere con cautela, dunque, ma sempre con coraggio”.

La seconda cosa importante era legata alla sua grande esperienza di scrittore.

Julio un giorno raccontò che quando era giovane, aveva poco più di vent’anni, ebbe la fortuna di partecipare all’International Writing Program dell’Iowa College negli Stati Uniti che è stata delle più importanti e prolifiche fucine di talenti della narrativa americana. In quella scuola di scrittura sono entrati autori del calibro di Raymond Carver, Flannery O’Connor, John Cheever, Kurt Vonnegut, Orhan Pamuk, Philip Roth e tanti altri meno famosi in Italia. Ogni anno lo Iowa chiamava a raccolta presso le sue strutture cinquanta scrittori di tutto il mondo, scelti tra i più promettenti per farli stare insieme tre mesi dandogli un piccolo vitalizio. Julio raccontò di aver conosciuto anche Carver, uno degli scrittori che ho amato di più, e disse che con lui aveva poi stretto amicizia e che aveva ospitato in Brasile per passare una giornata insieme e mangiare in un ristorante che affacciava sul mare. Anche Carver all’epoca organizzava corsi di scrittura. Lui seguì il suo esempio forte di un’esperienza nella quale si era fatto un’idea completamente nuova, diversa di quello che voleva dire frequentare un corso di scrittura.

Della sua esperienza all’Iowa Julio disse che là non cercano di “pastorizzare”, usò proprio questa parola, gli scrittori per farli arrivare al successo. Là pensano che ognuno doveva crescere in base alle sue possibilità e alla sua personale voce narrante. Una volta ci disse: “Dovete sapere che avete una vostra personale voce che agisce dentro di voi quando scrivete. È una voce con un tono determinato ed è la cosa più importante e originale che avete in dotazione come scrittori. Voi siete adatti a scrivere in un certo modo e compito di un laboratorio di scrittura è quello di fare venire fuori questa voce. Ognuno troverà il modo migliore per raccontare le sue storie. Non dico che le storie saranno sempre le stesse, ma il tono sì, quello è il vostro e vi contraddistinguerà da tutti gli altri facendo di voi degli scrittori una volta che lo avete trovato.

A proposito di pubblicare, Julio aveva delle idee precise che noi italiani definiremo radicali ma che lui che ha viaggiato in mezzo mondo e svolto diverse professioni, considerava una linea da seguire. È condivisibile o no, lui cercava nella scrittura una certa identità dell’autore e scomunicava la standardizzazione proprie delle scuole di scrittura e dei cliché, tra i quali che uno scrittore non pubblica con una casa editrice di un certo nome, non sia un vero scrittore. Su questo punto, anche io ero molto scettico. Gli chiesi che cosa scrive a fare uno scrittore se poi non riesce ad essere letto da un pubblico abbastanza vasto. Fu una domanda fatale, perché lui sapeva, era già uno scrittore. Lui mi rispose che sperava che un giorno riuscissi a pubblicare un mio libro per una grande casa editrice, ma che se volevo farmi “pastorizzare” non ero nel posto giusto.

“Io non sono lo scrittore giusto che ti insegnerà dei trucchi o ti farà scrivere libri che vendono perché non faccio marketing, ma insegno a scrivere meglio, insegno a conoscere e far emergere le proprie potenzialità, la propria personalità di scrittore e non a reprimerla a vantaggio di un modello stabilito”.

In un’altra occasione Julio raccontò un altro episodio che mi restò impresso in mente e mi confermò la peculiarità di certi cliché contro i quali spesso lui si scagliava.

“Voi italiani avete un problema grosso di status. Diversi anni fa ero a Francoforte per un convegno di scrittori della migrazione. Eravamo tutti provenienti da altri paesi e ci eravamo stabiliti in diversi stati europei. Tra questi c’erano tre scrittori di cui non ti farò i nomi che vivevano in Italia da molti anni e avevano inesorabilmente accolto la mentalità italiana sullo status. Anzitutto, rispetto agli altri, sono stati gli unici che mi hanno chiesto con quale editore avessi pubblicato i miei libri. Quando gli ho detto il nome della casa editrice ho visto che hanno subito avuto un atteggiamento scostante, di allontanamento, quasi di scherno. All’inizio però non riuscivo a focalizzare bene la cosa. Solo dopo l’ho capito, nel corso della giornata, quando ascoltavo i loro discorsi. Dicevano sempre: “Quello con chi pubblica? Con Adelphi. Ah, bene. E quell’altro? Con E/O, si ok… E quell’altro…”  e parlavano delle case editrici come si trattasse di marche di abbigliamento, come parlassero di vestiti di Gucci o di Prada. Per loro il valore dello scritto non aveva nessuna importanza. Quello che contava era il marchio. Questa è una cosa stupida, oltre che orribile e superficiale. Uno scrittore come Primo Levi ha scritto la sua più grande opera nel 1951 e nessuno l’ha voluta pubblicare perché allora non andava di moda parlare di olocausto. Allora si è pagato il libro da solo e solo dopo tredici anni Feltrinelli ha avuto per primo l’intuizione di pubblicarlo e farlo diventare un successo mondiale. Oggi si stampano più di centoquaranta titoli al giorno, ma quanti credi che ne rimarranno nella storia della letteratura? Forse nessuno. Non possiamo escluderlo che sia proprio nessuno. I libri si fanno perché si devono vendere e non perché sono dei buoni libri. Ma certo, non è detto che dei buoni libri non si possano vendere e avere un successo mondiale. Non è il caso di quel tale che ha scritto quella specie di romanzo pieno di trucchi che parla della Madonna e non mi ricordo cosa (Dan Brown, Il codice Da Vinci, nota mia), un libro pieno di trucchi e nulla più che un argomento spendibile per creduloni. Invece è il caso del meraviglioso libro di Gabriel Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine, che è stato il successo planetario di un grande scrittore”.

Dopo i corsi della Sagarana ricordo che noi tre allievi passeggiavamo lentamente su via Guidiccioni diretti verso le nostre macchine o alla stazione del treno. Di solito restavamo sempre un po’ a chiacchierare tra di noi, in preda ad una rara eccitazione dovuta a quelle lezioni che spesso erano elettrizzanti. Era magnifico andarsene in giro con i nostri discorsi, le nostre borse piene di manoscritti. Ci sentivamo degli scrittori, soli contro il mondo e uniti da una solidarietà profonda che poi purtroppo si è persa nel tempo. Anche prima delle lezioni, spesso ci vedevamo in un bar di via San Concordio una mezzora prima dell’inizio della lezione e ci raccontavamo, come fossero delle storie di narrativa, le esperienze della settimana, cosa stavamo scrivendo e quello che avevano pensavano di peggio le nostre famiglie sulla nostra esigenza di doversi isolare per scrivere.

In quei mesi passavo delle ore nella mia soffitta a cercare di mettere giù idee e scrivere più possibile per sfruttare quel momento di grazia. Trascuravo parecchio il mio lavoro di giornalista e i miei doveri di trent’enne sposato ma senza uno straccio di lavoro. Quando non scrivevo per il giornale o non stavo in soffitta, cercavo di leggere tutti gli autori che Julio aveva consigliato durante le lezioni e di guardare i film che aveva detto essere delle opere di valore altrettanto degno di quelle letterarie. Molti li avevo già visti, ma tanti altri me li suggerì, come lo splendido film Departures la storia di un ex violoncellista disoccupato che pur di lavorare accetta di fare il tanato esteta e trova in questo lavoro il suo vero talento e anche l’occasione di scoprire molto più su se stesso di quello che la musica non gli aveva dato. Julio insisteva sempre molto che le idee in letteratura arrivano dalle cose che sembrano più strane e per questo raccontava che lui prima di scrivere leggeva molto. Leggeva di tutto. Soprattutto era un gran lettore, uno che leggeva sempre quando poteva. Diceva che leggeva spesso quando era in treno mentre andava da Lucca a Pisa all’Università; la sera per almeno tre ore prima di andare a letto e anche certe mattine che poteva ritagliarsi del tempo e non aveva vena di scrivere. Leggeva anche con attenzione ciò che noi allievi gli presentavamo di volta in volta.

In uno dei miei racconti fece un’osservazione tra le più illuminanti che mi è capitato di ricevere. Una di quelle cose che ti aprono una porta nuova verso un mondo completamente diverso. Il mio racconto era lungo una ventina di pagine A4. Nello scriverlo avevo messo tutto me stesso. Dopo averlo letto lui mi disse di lasciar perdere quella storia, ma lo stesso di analizzare il fatto che in quel racconto c’era troppo “grasso diagetico” una parola che io non avevo mai sentito, pur essendo italiano di appartenenza. La prima cosa che feci fu andare a cercare sul vocabolario il significato della parola che come aggettivo non esiste perché appartiene al campo della geologia nel termine diagenesi che vuol dire: “complesso delle trasformazioni chimico-fisiche attraverso cui sedimenti sciolti si costituiscono in masse rocciose compatte”. Quando lessi la definizione di quella parola fu come una folgorazione. Quelle “masse rocciose compatte” frutto di sedimentazioni di parole che erano proprio ciò che mi portavo dietro nei miei racconti e che ostruivano il normale flusso delle mie storie. Iniziai a lavorare molto su questa idea e a tirare fuori delle storie sempre più limpide, chiare, compatte. Grazie a questo consiglio, alla fine del corso sono riuscito a scrivere un racconto degno di questo nome, dal titolo “Carne”, una storia che all’inizio era appunto “diagetica” e che alla fine del corso è diventata l’occasione per me di iniziare a farmi conoscere come scrittore e prendere fiducia nelle mie possibilità future.

Della scelta di quella parola, ne sarò sempre grato a Julio, per tutta la vita.

In una delle ultime lezioni che fece, Julio batté parecchio su un punto: trovare spazi dove far emergere la buona letteratura. Lui vedeva nella rete, in internet, una possibilità importante, una possibilità che mai era stata data prima a chi voleva far conoscere il proprio lavoro senza scendere a compromessi con un mondo editoriale che, forse oggi più che mai, è troppo intriso di perversi meccanismi di appartenenza e fidelizzazione. Nonostante i tentativi di analizzare i fatti, non riuscimmo a tirare fuori granché, tutti presi come eravamo dalle nostre vite precarie probabilmente non avremmo potuto permetterci un impegno totale quale era richiesto per riuscire in quegli intenti. Di certo la soluzione ai problemi che ci ponevamo non era semplice. Alla fine la conclusione di tutto fu che il miglior modo di risolvere il problema sarebbe stato quello di “andarcene a scrivere”, come disse una volta anche Hemingway, con la convinzione che tutto andrà per come deve andare.

“Penso solo che sia della massima importanza che uno scrittore continui a scrivere” diceva invece Raymond Carver in una delle sue lezioni di scrittura. E questo fu anche il senso dell’ultima lezione che Julio ci lasciò prima di lasciarci andare per la nostra strada. Una lezione che anche lui ha sempre rispettato, fino alla fine, forse fino a quando anche la sua salute non glielo permetteva. Spero di seguire il suo esempio. Scriverò, fino alla fine.

L'autore

Antonio Lanza