Interventi

ricordi – Mia Lecomte

Julio è stato il mio migliore amico e ancora non sono in grado di rileggere i suoi testi, di immergermi in profondità nella sua voce. Né di conseguenza di scrivere seriamente su di lui, sulla sua opera. E purtroppo mi è impossibile anche un tributo più personale – che lui comunque avrebbe gradito molto meno, perché quello che voleva sopravvivesse di sé era il mondo che ci ha regalato nella sua letteratura – perché il rapporto che ci legava era un inestricabile miscuglio di cose, più o meno tutte imparentate con l’amoroso potere delle parole.
Mi limito quindi a riproporre una nota che avevo scritto per lui nel 2011, che gli era tanto piaciuta.

Ho conosciuto Julio a Grotteria, un piccolo paese della Calabria ionica dove entrambi eravamo stati invitati da Armando Gnisci a tenere un corso di scrittura – io poetica e lui narrativa – alla Dimora dei Migranti, struttura avvenirista e generosa ideata dallo stesso Gnisci per fare incrociare il nord e il sud del mondo in uno snodo transculturalmente fertile. Al primo incontro di presentazione del progetto, la sedia di Julio, nella fila davanti a me, si sfasciò di colpo, e io allungai automaticamente le braccia per attutire la sua caduta a terra, un gesto assolutamente megalomane e poco consapevole delle forze e delle misure in gioco. Eravamo in un settembre tardo, ancora dolcemente estivo, che ci permetteva bagni in quel mare antico di ciottoli bianchi e profondità improvvise, e chiacchiere e risate sulle terrazze, tra i panni stesi; in principio furono la sedia con il suo collasso a fare da protagonisti, ma poi cominciarono anche i primi racconti di Julio sulla sua vita brasiliana e su quella italiana – un turbinio musicale di libri, politica e, sempre e comunque, donne – snocciolati con la vitalità e la passione brillante, ma pronta a rovesciarsi d’un tratto in un pessimismo amaro, che avrei ben presto ritrovato nella sua letteratura.
È iniziata allora tra di noi un’amicizia intensa, di quelle che si nutrono anche di lontananza e di silenzi, una simbiosi di vita e scrittura essa stessa molto letteraria, “epica”. Ci ha subito uniti l’aver conosciuto e condiviso la letteratura da piccoli, in casa, con le persone più amate – lui la madre, io il padre –, una complicità scaturita dall’”intimità amorosa” di cui è fatto, per me e per lui, tutto ciò che riguarda le parole e la loro incarnazione in un universo letterario; e che ci ha riassemblati in una specie di famiglia, sghemba e asimmetrica, incoerente e irragionevole come il mio gesto a impedire la sua caduta per lo sfascio della sedia, e che ha coinvolto anche le nostre rispettive famiglie, i nostri figli.
Tutto questo può sembrare probabilmente troppo intimo per un’introduzione, ma vorrei fosse chiaro che quello che qui è in gioco è proprio l’intimità, una viscerale condivisione, senza pruderie, delle ragioni intime delle nostre vite-letterature. In un unico boccone.
Leggendo il saggio di Rosanna Morace ho ritrovato proprio Julio come lo conosco, l’uomo e la sua scrittura sorpresi in quell’istante irripetibile in cui la vita, e tutte le parole per dirla, coincidono.
La complessità della figura letteraria di Julio è qui restituita in tutta la sua umanità, in un tutt’uno in cui tra un verso e l’altro dei suoi testi poetici, nelle righe della sua narrativa, si intravede il luccichio nerissimo dello sguardo arguto dietro le lenti, quella melodica malinconia della voce, libera di trasformarsi nel suo contrario, in un carnevale barocco di amore, e morte.
Io l’ho pubblicato come poeta, l’ho accompagnato in parte come narratore, ho condiviso con lui anni di testi frutto di scambi reciproci di idee e letture, così da convivere nella sua scrittura come in una casa comune di cui si conosce tutto, virtù e vizi della quotidianità, aspettandomi la tazza posata in un certo punto dell’acquaio, o quelle medicine nel cassetto del comodino. Ma non avrei nulla da aggiungere a uno studio monografico tanto completo come quello della Morace, attento alle ragioni dell’essere e del dire, alle più piccole sfumature dell’apparire.
Come i migliori scrittori transnazionali, artefici di quella letteratura mondiale che sta scardinando e trasformando le letterature nazionali e i loro canoni, Julio è difficilmente etichettabile in una categoria di genere, e con i suoi racconti dialogici, i metaromanzi, con la poesia narrativa, esula da ogni cliché, va ben al di là di quello che ci si aspetterebbe da uno scrittore brasiliano, e da un italiano, reinventandosi in una continua avanguardia, frutto di una stratificazione di lingue e destini. Per questo è così importante un saggio monografico che si addentri nei meandri di una scrittura tanto originale, quel genere di studi di cui necessitano proprio gli scrittori “ubiqui” della letteratura che migra, e cambia e sovrappone come un transfuga le vesti con cui si presenta. La letteratura di tutti gli scrittori che erano “altri” già prima di lasciare, partire, arrivare, il cui inscape ambiva da sempre a un paesaggio umano e linguistico diverso, in cui riflettersi e riconoscersi. La terra sempre promessa, e mai mantenuta, a cui aspira ogni vera letteratura.

(nota introduttiva allo studio monografico di Rosanna Morace, Un mare così ampio. I ‘racconti in romanzo’ di Julio Monteiro Martins, Lucca, Libertà Edizioni 2011)

L'autore

Mia Lecomte