Shirin Ramzanali Fazel, offre questo nuovo testo scritto in collaborazione con Simone Brioni, avviato alla carriera universitaria e specialista di italianistica. Un sodalizio che vuole proporsi come modello per altri che volessero intraprendere un rapporto di lavoro fra autore di letteratura e critico. Nella letteratura italiana collaborazione fra autori è ormai segnato da tempo, dapprima con il collettivo Luther Blisset, poi divenuto Wu Ming a partire dal 2000. Ultimamente si è affacciato anche il collettivo Joana Karda composto tutte da donne, fra cui è presente Laila Wadia, ben nota nella letteratura della migrazione. Un rapporto di lavoro che si dice meticcio fra una scrittrice e un critico forse è insolito.
Il libro, scaricabile in PDF, è composto da tre parti: una prima che è una sorta di introduzione redatta da Simone Brioni affronta proprio i problemi di scritture comuni. È un testo che, seppure si dice rivolto anche a non specialisti (indice ne è che le citazioni in inglese vengono puntualmente tradotte), nell’organizzazione linguistica e strutturale fa un occhiolino agli accademici. Una seconda parte scritta da Shirin riguarda essenzialmente il rapporto di quest’ultima con l’Islam. In fine una terza parte in cui si toccano alcune questioni riguardanti “l’industria culturale, la scrittura diasporica, e la pratica decoloniale”, parte stesa da entrambi gli autori.
Penso sia opportuno analizzare ciascuna delle parti per darne un aspetto conoscitivo più ampio possibile per quello che può essere una recensione.
La prima parte intitolata scritture meticce-narrazioni diasporiche è articolata in tre parti, una prima in cui si giustifica il perché della collocazione di questo testo fra quelli diasporici, una seconda ove si presenta la figura biografica e bibliografica di Shirin Ramzanali Fazel, elementi abbastanza noti ai lettori di el-ghibli sia per la recensione ai suoi testi in italiano, non ultimo ad ali spezzate, sia per collaborazione che la scrittrice offre alla rivista, ed una terza molto significativa ove si prendono in esame i testi della letteratura della migrazione scritti a più mani, da Io venditore di Elefanti a Chiamatemi Alì. A mio parere, in questa parte, serpeggia, ancora in maniera strisciante, la collocazione di questi testi, compreso Lontano da Mogadiscio, fra testi pluriformi, utili per indagini sociologici. “Comberiati e Van Camp hanno mostrato come il modello di Io venditore di elefanti non sia esclusivamente ‘letterario’ ma «un’inchiesta sociologica realizzata a partire da una conoscenza diretta, una vera e propria testimonianza su un nuovo fenomeno sociale”.
Simone Brione mette poi in luce la positività e novità della coautorialità e il fatto che negli ultimi anni con Ribka Sibbatu e Mohamed Aden la preminenza autoriale sia passata al migrante piuttosto che al coautore autoctono. Lo studioso sottolinea il fatto della importanza che sta assumendo il meticciamento letterario specialmente a partire dal testo Timira di Wu Ming 2 e Antar Mohamed. Sono affermazioni e linee di pensiero che sono molto importanti per una collocazione più significativa degli scrittori immigrati. Encomiabile quindi questo scenario di ipotesi di meticciamento che volenti o nolenti in Italia sta avanzando. Oggi sempre più un maggior numero di persone sta prendendo coscienza del ruolo colonialistico interpretato dall‘Italia negli anni 30 e del fatto che gli italiani in quel momento storico sono stati tutt’altro che ‘brava gente’. Il processo di decolonizzazione e contemporaneamente di passi verso un fruttuoso meticciamento è un aspetto importante e determinante.
Forse, quando questo testo era finito, non erano stati ancora pubblicati libri come Io sono con te, il mare davanti e I pesci devono nuotare i cui autori sono scrittori italiani che riportano storie di immigrazione ove però l’autorialità è unica e del migrante ancora in vita si raccontano le vicende da lui stesso raccontate. È un passo avanti rispetto alla scrittura a quattro mani? o un arretramento?
La seconda parte di questo testo è scritto da Shirin, ( mi permetto di scriverne sono il nome perché la conosco dalla metà degli anni ’90). Possiamo dire che questa parte intitolata Io e l’Islam è costituita da tre gruppi di considerazioni. Un primo riguarda la descrizione di come ormai l’Islam e gli islamici vengono percepiti in Italia. Forse per la scrittrice di origine somala la situazione oggi esistente nel nostro paese può generare meraviglia, acredine ed una sorta di dispiacere dal momento che la sua esperienza negli anni passati, nel secolo scorso, in Italia sono stati positivi, se non molto positivi. Ma la posizione di una certa parte di italiani sull’Islam rispecchia un po’ quello che sta accadendo in Europa, se non nel mondo. Dalle pagine di Shirin, ora brevi racconti, ora considerazioni, emerge una sorta di rammarico per questa sorta di imbarbarimento che sta avvenendo nel nostro paese, che è anche il suo, le cui cause vanno molto addietro. Solo la storia e il tempo forse riporterà a un grado di civiltà più elevato, ove valori come tolleranza, ospitalità, dialogo, reciproco rispetto potranno ancora riguardare la maggioranza dei nostri concittadini.
Poi Shirin dà voce alla modalità con cui esprime la sua fede. Una fede semplice, fatta di quotidianità di gesti, che dimostrano il grado di interiorità assunto. Qui la scrittrice tende a sottolineare come valori come giustizia, comprensione, attenzione alle difficoltà altrui siano insiti nrll’Islam. Coloro che utilizzano la jihad facendo violenze, terrorismo, sono solo strumentalizzati e non sono seguaci dell’Islam.
In una terza parte Shirin dapprima descrive la positività della sua vita a Birmingham, in Inghilterra, creando una sorta di confronto indiretto con la situazione italiana, ma poi quando mostra le conseguenze della brexit, ecco che anche in Inghilterra se non proprio a Birmingham si stanno riproducendo situazioni di intolleranza, proprio come in Italia, ed allora in lei nasce la paura, espressa con una poesia proprio nell’ultima pagina di questa parte di testo. “Ho paura di quegli sguardi accusatori che feriscono più delle parole./ Ho paura di dovermi giustificare in quanto musulmana./ Ho paura di trovarmi addosso una colpa che non ho commesso.”…
La terza parte si snoda con un intreccio fra narrazioni/dichiarazioni di Shirin e commenti di Simone Brione. Gli argomenti toccati sono 5 : Memorie, Punti di vista, Appartenenze, Traduzione, Mercato. E’ la parte ove lo studioso Brioni espone più dettagliatamente il suo pensiero. In Memorie, la scrittrice di origine somala va dal ricordo della considerazione della condizione dei meticci in Somalia, abbandonati dai loro padri e lasciati negli orfanotrofi, a quella delle madri dei meticci che, coraggiose, hanno saputo riorganizzare la loro vita. Ma i ricordi di Shirin vanno anche a quanto di culturale l’Italia ha lasciato in Somalia, soffermandosi sul cibo e su prodotti italiani che venivano usati: l’olio, gli spaghetti e nelle feste gli amaretti di Saronno e i tradizionali panettoni Motta e Alemagna. Ma poi il ricordo va alla necessità di aver dovuto lasciare Mogadiscio a causa dell’avvento della dittatura.
Le considerazioni di Simone Brioni riguardano la corta memoria degli italiani sul periodo colonialista in Africa, amnesia, rimozione, memoria selettiva. Certamente c’è ancora oggi il tentativo che l’azione colonizzatrice perpetrata venga vista come “opera civilizzatrice”. Anche l’industria alimentare mostra i segni di questa memoria selettiva. Biscotti tripolini, cioccolato Tripolino Barbero, Abissine rigate.
In Punti di vista Shirin considera i diversi approcci con cui la gente la considera, diversamente da come si rappresenta lei stessa.
Simone Brioni ne approfitta per mettere a fuoco il differente modo con cui viene vista l’Italia nel dopoguerra così che, nonostante il suo passato coloniale le vien affidata l’Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia (AFIS). Un’ottica alternativa viene proposta da scrittrici della migrazione come Igiaba Scego o Kaha Mohamed Aden. L’ottica proposta ufficialmente è il tentativo di riportare a verginità la politica italiana in Africa. Attraverso l’ottica degli scrittori della migrazione si scopre che, anche nella fase dell’AFIS, la vena colonialista dell’Italia non è venuta meno.
Appartenenze mostra da una parte come la scrittrice spesso si è sentita disappartenere, si è quasi sentita rifiutata come cittadina italiana, come islamica, come donna di colore.
Brioni mette a fuoco la sua dimensione di italiano, visto all’estero, in modo diverso che in Italia, etichetta che svanisce se poi si considera qual è il suo piatto preferito, che se per i suoi genitori era la polenta e per lui il Kebab, visto che a Brescia ormai la presenza di immigrati è elevata e ha diffuso anche propri gusti alimentari.
In traduzione Shirin spiega le ragioni per cui ad un certo punto decide la traduzione dei suoi due romanzi. Ne rintraccia la necessità nel desiderio di sentirsi dentro la comunità inglese dove sta vivendo.
Simone Brioni mette in risalto il come le due traduzioni abbiano avuto successo presso gli inglesi.
Infine Shirin in Mercato illustra il successo del testo Lontano da Mogadiscio in Italia e la notorietà che ne derivò per la sua persona, invitata persino al salone di Torino. Mentre lo studioso invece mostra come si sia arrivato alla pubblicazione in inglese dei due romanzi che lui stesso, specie Nuvole sull’equatore, ha curato.
Nell’insieme questo testo, presenta qualità indubbie, sia per la sincerità, peraltro caratteristica fondamentale di Shirin, con cui l’talo-somala affronta il tema dell’Islam, sia il modo collaborativo con cui Simone Brioni sembra quasi commentare e sostenere razionalmente le varie digressioni della scrittrice di origine somala, ma italianissima.
Si spera che anche questo testo per la leggerezza che presenta possa contribuire a stemperare le acredini che si sono insinuate nell’animo di una parte degli italiani nei confronti dell’Islam.
23 maggio 2020